Nella città cosmopolita islamici e cristiani vivono in pace, ma in una Palestina divisa e stanca dove i nati dopo il 1993 sono testimoni del fallimento delle ideologie nel mondo arabo. E se il turismo religioso evita la miseria, mancano altre prospettive (Foto di Pietro Masturzo)
Gerusalemme e Betlemme gemelle divise, Omega e Alpha del viaggio di Gesù. Dalla città del Santo Sepolcro alla porta d’ingresso della culla del cristianesimo sono pochi minuti in macchina. Prima di varcare il muro un ultimo semaforo, quando scatta il verde la sbarra si alza e le punte chiodate si reclinano. Lasciare Israele è una formalità. Dall’altro lato della barriera, in Palestina, i lavoratori transfrontalieri betlemmiti, una calca di operai, per lo più muratori, in coda dalle prime luci dell’alba, approcciano mestamente i controlli dell’apparato israeliano. È il regime di sicurezza o segregazione. Check point e permessi per muoversi.
Costeggiato il serpentone di cemento, che separa e imprigiona, a metà strada per raggiungere la Grotta della Natività, si erge l’Università cattolica di Betlemme. Al cancello i vigilanti sono indaffarati nella preparazione del caffè al cardamomo. Il piazzale è animato. Nei corridoi ragazze che indossano hijab colorati a fianco di altre in jeans. La classe dirigente, che non sceglie di frequentare università estere, è qui che si forma. Quelli che siedono sui banchi sono il futuro della Palestina, almeno di una parte di essa. Yousef Zaknoun, accademico e direttore del Cardinal Martini Leadership Institute ci spiega: «I quadri dei futuri leader non avranno il carisma di Arafat o la moderazione di Abu Mazen. I giovani sono meno indottrinati politicamente, sono stati testimoni del fallimento delle ideologie nel mondo arabo».
[[ge:rep-locali:espresso:285305543]]Ragazzi app dipendenti, che si scattano selfie, che sostituiscono la scrittura con gli emoji. Venerato il vincitore dell’edizione 2017 del talent show Arab Idol, il sirocristiano Yacoub Shaheen. Spopola la band Apo & the Apostles, cliccatissimo il brano Baji Wenek. Ventenni che nel week end trascorrono le serate nei locali, ballando la tecno, fumando il narghilè e bevendo vino. È la generazione Z betlemmita. Non era ancora nata quando a Washington nel 1993 Arafat e Rabin siglavano un accordo, quello di Oslo, che non aveva avuto precedenti e che sarebbe evaporato nel nulla ben presto. Basil ha 22 anni, è uno studente cristiano del corso di laurea in scienze contabili: «Purtroppo, Oslo è stato un meccanismo complesso e incompleto, troppo centrato sulle aspettative e i risultati negativi hanno prevalso su quelli positivi, indubbiamente le politiche intraprese da Israele hanno avuto un effetto pesante. Del resto, non sono sicuro che l’Intifada sia lo strumento per porre fine all’occupazione».
In questo fazzoletto di terra l’incomunicabilità è mortificante, i tentativi di avviare relazioni bilaterali tra israeliani e palestinesi sono naufragati nell’indifferenza globale. Majd, è iscritta al secondo anno del Master in Cooperazione e Sviluppo: «Credo ancora che si possa arrivare ad un accordo di pace. Comunque, qualunque cosa succeda non ho intenzione di fare le valigie e scappare. Qui è la mia casa e il mio destino». Figli della fine di un sogno, cresciuti agli inizi del nuovo millennio durante gli anni più cruenti della seconda Intifada e del sorgere sulla scena politica del movimento islamista e terroristico di Hamas: alternativa radicale al gruppo dominante di Fatah. Con il vecchio Rais relegato nella Muqata di Ramallah, nell’ultimo atto della tragedia bonapartiana di un leader, icona di un popolo diventato scomodo e inaffidabile. A capo di un partito entrato in corto circuito, tra accuse di corruzione e incapacità di affrontare il deterioramento degli eventi. Arafat alla sua morte lascerà la “sua” Palestina profondamente divisa, alla vigilia di una spaccatura non solo geografica tra Gaza e la West Bank, ricucita dalle varie anime in lotta solo recentemente, e precariamente, in vista delle elezioni politiche che si terranno nel 2018.
Mohammad è rappresentante studentesco e militante di Fatah, è musulmano. «Hamas ha contribuito ad alimentare contrapposizione tra le fazioni palestinesi. La loro azione non ha portato benefici, al contrario ha peggiorato in molti casi la situazione della nostra gente. Tuttavia ci guida il medesimo obiettivo: la libertà della Palestina».
La via principale che sale verso la piazza della Mangiatoia è congestionata dal traffico, un groviglio di macchine e bus turistici, accompagnato da un concerto assordante e interminabile di clacson. A complicare la viabilità l’allestimento degli addobbi natalizi. Le tre città limitrofe che compongono un nucleo metropolitano uniforme sono Betlemme, Beit Jala e Beit Sahour, descritte nel Vangelo come i luoghi santi dell’avvento di Gesù. Insieme contano circa 70 mila residenti. Un tempo feudi a schiacciante maggioranza cristiana, oggi i fedeli all’Islam sono intorno al 50 per cento della popolazione. Per volere di Yasser Arafat, le tre città hanno l’obbligo di eleggere sindaci di estrazione cristiana. Una forzatura ai principi della democrazia rappresentativa, una imposizione dall’alto che permette a una minoranza araba di continuare a rivestire un ruolo effettivo all’interno della causa del nazionalismo palestinese.
Jehad Khair è il primo cittadino di Beit Sahour, da poco insediatosi nel municipio del luogo che la tradizione indica come il Campo dei Pastori. Mentre i pastori odierni sono tutti, o quasi, musulmani e per vederli con il loro bestiame basta recarsi al mercato mattutino nella vallata di Bab Al-Jbeh’ah street. Khair aveva 21 anni quando nel 2002 l’esercito con la stella di Davide cingeva in un lungo e drammatico assedio la Basilica della Natività, dove avevano trovato rifugio decine di miliziani palestinesi. «Le restrizioni spingono la gente a scappare. Lo spazio vitale dei betlemmiti si riduce metodicamente di fronte all’espansione degli insediamenti israeliani. Immaginate la terra dell’annuncio e della nascita di Cristo senza cristiani, sarebbe un cambiamento epocale». I cristiani betlemmiti sono l’ultimo esempio di “custodi depositari”, ciò che rimane di una presenza millenaria, una comunità depauperata con l’inasprirsi del conflitto israelopalestinese. Sabrina è cristiana, è una fotografa professionista, ha aperto uno studio specializzato in ritratti di bambini, il primo in Palestina: «Come madre mi piace vedere mio figlio coccolato dai suoi nonni e circondato dagli amici, ma se la situazione dovesse degenerare e si dovesse riproporre la violenza del passato non esiterei un minuto ad andarmene».
Negli ultimi anni anche a Betlemme si sono manifestate con una certa frequenza ingiustizie, piccoli episodi, segnali poco invitanti, abusi che passano impuniti; ma nulla a che vedere con i crimini perpetuati in altri contesti arabi ai danni della minoranza cristiana. A difesa del clima di rispetto reciproco ci sono le molte opere educative, sociali e sanitarie gestite da enti religiosi cattolici, riferimento per i servizi di base per una larga fetta della popolazione musulmana. L’altro ponte sono i fattori economici. L’industria del turismo è il volano primario, altalenante a causa del conflitto e della paura. In questi giorni, di alta stagione, non c’è una stanza libera in tutta Betlemme, ma domani potrebbe ripiombare l’incubo soffocante delle camionette e dei carri armati. Samir Hazboun, economista e presidente della Camera di Commercio, commenta: «I giovani betlemmiti non hanno possibilità di sbocco, la disoccupazione è al livello più alto dopo Gaza. Molti accettano salari minimi e condizioni gravose per sopravvivenza. È frustrante, e la scelta riaffiora: restare o emigrare. Questo è il dilemma. Per essere in una terra santa di miracoli non ne vediamo molti».
Nei laboratori artigiani di credi diversi, fianco a fianco, intarsiano i presepi, souvenir per i pellegrini. «A trattenere le persone che hanno un lavoro c’è la vocazione a seguire un popolo, se manca questo collante la scelta alternativa è partire», spiega monsignor Pierbattista Pizzaballa, francescano e amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme dei Latini. In Medio Oriente chi è fuggito di casa non è più tornato. I profughi palestinesi attendono un ritorno improbabile sparpagliati tra Libano, Siria, Giordania, Gaza e Cisgiordania. Distribuiti in 58 campi d’accoglienza che da temporanee tendopoli sono diventate aree urbane densamente popolate, tra carenze infrastrutturali e problematiche sociali.
Hamza è nato durante la prima Intifada ed è cresciuto con la successiva, vive nel campo profughi di Dheisheh, poco fuori Betlemme, è un assistente sociale, lavora nel centro culturale Ibdaa: «Sono disinnamorato dalla politica. Siamo alla quarta generazione di profughi nata in questo campo, sono ragazzi in attesa di un futuro diverso ma nessuno penso che sia in grado di promettergli una vita migliore».
L’avvento del sedicente Califfato è una possibilità che nessuno prende minimamente in considerazione, tra queste pietraie che hanno dato i natali a David e Cristo. All’orizzonte non si vedono crociati o i vessilli neri dell’Isis, ma spessi muri, fisici e culturali. Amira ha 29 anni, è una mamma single palestinese. «Se un giorno mio figlio decidesse di sposarsi con una ragazza israeliana verremmo processati e giudicati entrambi, sarebbe uno scandalo. Affronterei tutto ciò a testa alta, apprezzando la sua scelta di pace. Tra le mille intricate guerre di questa terra c’è il bisogno di restare umani».
La Betlemme dei giovani è l’occasione per ricomporre il caos quotidiano da questo lato del muro. Nel loro mondo c’è la voglia di non sprofondare nella noia ed essere liberi dall’oppressione. Inshallah.