Le storie di Liam, Sandalima, Mouad e degli altri come loro: nati e cresciuti nel nostro Paese. Senza il diritto di essere italiani

Liam, che si fa chiamare Vincenzo. Sandalima, che canta “Comunque andare”. Mouad, che non impara l’arabo... Capiscono di essere diversi alla prima gita scolastica all’estero. Quando il prof chiede: «Chi ha solo il passaporto straniero?» La cittadinanza, alla fine, è un documento: e un documento è un foglio di plastica, ci sono scritte parole. Non cambiano quel che si è». Reda ha 13 anni, il vanto della pallacanestro, la passione per le imprese impossibili («da quando il loro portiere ha segnato contro il Milan, tifo un po’ il Benevento») e il dono delle parole dense. Aggiunge: «Non ho bisogno di un documento per sentirmi italiano. Però quel documento mi serve».

Tra poco andrà al liceo scientifico, vorrebbe fare «lo scienziato o il biologo» e studiare negli Stati Uniti: «Ecco perché». A New York vive sua zia: potrebbe ospitarlo, o almeno così spera. Insomma più che “invadere l’Italia” - grido di guerra di leghisti e affini - Reda aspira a diventare nientemeno che un cervello in fuga. A lasciarla, l’Italia: ma da italiano. Finché non ha la cittadinanza non può riuscirci: troppo complicato, per il suo permesso di soggiorno di marocchino di Marrakech, quale tutt’ora tecnicamente è.
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Per paradosso, dunque, è proprio la paura dello straniero, a tenerlo qui. Sono quei tempi che Angelino Alfano, per spiegare il suo più recente no all’approvazione in Parlamento dello Ius soli, ha chiamato “non maturi”. I tempi a cui si incatena la politica, sono gli stessi che incatenano Reda e tutti gli altri 800 mila giovani che sono nati o studiano in Italia, italiani che non possono sventolare il famoso “foglio di plastica” che li renderebbe uguali ai loro amici. Un ritardo che produce assurdità a valanga, persino per chi nella battaglia si impegna. «Con altri ragazzi delle seconde generazioni, abbiamo avuto a ottobre un incontro con il presidente del Senato, Grasso», racconta Reda: «La cosa è stata un po’ strana. Noi siamo andati a parlargli del nostro essere stranieri, lui ci ha mostrato come funziona il Senato: ma di certo questo signore lo sa, che non possiamo votare».

Finché son piccoli, nemmeno se ne accorgono. «La mia migliore amica si chiama Gaia, non lo so se è italiana», dice Angelica, 6 anni, prima di scappare dalla mamma Agnes, filippina. A volte i bambini fanno da traduttori ai genitori che non sanno la lingua. O si prendono in giro. Esempio: «Zitto tu, che sei filippino», dice un filippino all’altro. Apoteosi: «Professore’ non mi può interrogare proprio oggi: questo è razzismo». Dicono i ragazzi di “Italiani senza cittadinanza”, una delle reti attive nella lotta per l’introduzione dello Ius culturae, che è l’adolescenza il momento in cui i ragazzi si rendono conto del fossato che li separa dagli altri.

Quando ad esempio si fanno le gite all’estero, con la scuola, e i professori di colpo domandano: chi è che non ha la cittadinanza? Mustafà, il miglior amico di Reda, ha 12 anni, origini sudanesi, una mamma che la domenica prepara la pizza, un papà che lavora in un noto negozio romano di abbigliamento (Cenci), due fratelli con cui gioca a calcio nei campetti del quartiere San Lorenzo. Dice, senza esitazioni, di non sapere esattamente «a cosa serva la cittadinanza». Come compito a scuola, dopo aver letto “Momo” di Michael Ende, ha scelto di concentrarsi sulla tartaruga, quella che ha il dono di vedere il futuro: del proprio, per ora, non si preoccupa.

Ha invece chiarissimo quale musica ascoltare (il rap di Sfera Ebbasta e Dark polo gang) e che gelato prendere da Fassi quando ci passa insieme con Reda dopo scuola. Nutella, crema e stracciatella, poi la metro verso Cipro e verso Anagnina, ai due poli opposti della linea A. Mondi che si incrociano e si allontanano. Il fratello di Reda, Mouad, ha 7 anni e a volte, di fronte alla difficoltà dell’arabo che impara tutti i sabato ma parla poco a casa, è scoppiato a piangere: «Troppo difficile, ma come si scrive?». Il fratello piccolo di Mustafà, invece, si chiama Amjed, fa la quinta elementare, tifa Roma col mito di Dzeko, Perotti ed El Shaarawy e tutti lo conoscono per il suo profondissimo senso della giustizia.

È, per esempio, l’unico della sua classe ad aver difeso Elia, suo compagno, il giorno in cui tutti lo incolpavano di chissà cosa: «E invece io gli ho detto, ma che ne sapete?». Amjed, la faccenda della cittadinanza, l’ha assorbita e distillata così: «Significa che da grande Elia potrà stare a casa a non fare niente, se vuole, mentre io o lavoro oppure torno nel mio paese. E non è giusto». In effetti è proprio così. Fioralba, che ha 27 anni, è arrivata in Italia dall’Albania quando ne aveva 11, spiega l’essenza di una legge «concepita per i grandi, ma di cui pagano il prezzo bambini e ragazzi». Esempio: «Per avere il permesso di soggiorno serve un reddito, quindi da quando compi 18 anni ti serve un lavoro. Puoi chiedere la carta per motivi di studio, ma allora il permesso va rinnovato ogni anno, di cui sei mesi trascorrono in attesa del rinnovo: il che rende complicato persino farsi prescrivere un esame dal medico di base».

Non parliamo poi della cittadinanza vera e propria: «Adesso, oltre a dieci anni consecutivi di residenza, ci vuole fra l’altro un reddito dichiarato di ottomila euro l’anno per i tre anni precedenti la richiesta, poi ne passano altri due per la risposta, se tutto va bene». Così anche tanti adulti, pur stando da vent’anni in Italia, non hanno ancora la cittadinanza, e non l’hanno trasmessa ai figli. Myriam, a Roma da Lima 23 anni fa, ha ancora il permesso di lungo soggiorno. Per i suoi figli, Anthony di 12 anni e Camilla di 5, spera un futuro italiano: «Per loro il Perù è un posto dove andare in vacanza, non sanno quasi nulla degli Inca e dei Maya, il cibo nemmeno gli piace». Anthony, il più grande racconta la propria estraneità così: «A Lima le strade sono troppo strette e non si può bere dal rubinetto l’acqua, bisogna prima bollirla». Intanto, mostra sul telefonino, settato sulla lingua italiana, il tutorial in spagnolo del suo gioco preferito. Discorso chiuso. Al massimo, è disponibile a pensare di passare un anno in Perù, «e poi torniamo». Non sa che farlo significherebbe rischiare, tecnicamente, «di essere buttato fuori dal suo Paese». Il Paese di fatto, naturalmente: l’Italia. Restare sospesi a metà è una specie di destino, difficile da superare. Lo racconta persino la cautela con la quale, per farsi fotografare in queste pagine, i ragazzi e bambini si sono mossi con estrema grazia in modo da lasciare intonsi fondale e il set. Cautela, estrema e disinvolta, nei passi e nelle parole. Cautela anche dalle scuole che abitano, e nelle quali la multiculturalità si esercita volentieri: in una solida pratica, ma con grande attenzione a evitare troppi sbandieramenti, che potrebbero urtare le sensibilità meno multiculturali che pure ci sono (anche quando non si mostrano).

D’altra parte, comprensibilmente, in questi racconti è difficile, se non impossibile, trovare qualcosa di men che entusiasta sull’Italia. Emmanuel, 10 anni, di origini nigeriane, fierissimo di far parte del Piccolo coro di Piazza Vittorio (reduce dalle prove, è in giacca e camicia), è l’unico a dire di sentire di aver «qualcosa di più» perché ha «la mamma africana» (che peraltro lo vorrebbe dottore, mentre lui sogna di fare il calciatore). Sandalima, 10 anni, è tra i pochi a dire che le piacerebbe anche vivere nel paese dei suoi genitori. È nata anche lei a Roma, nell’ospedale di San Giovanni, ogni estate con la sorella Byoni, di 4 anni, prende due aerei e percorre dieci ore di macchina, per arrivare a Kandy, nello Sri Lanka, dove ci sono i nonni e «un sacco di scimmie». La sua canzone preferita è “Comunque andare” di Alessandra Amoroso. Dice che vorrebbe avere la cittadinanza italiana «per essere uguale agli altri», mentre nello stesso istante sua madre Jeeveny esclama che serve «per poter viaggiare liberamente». Il principio, e la pratica: la mamma non esclude un futuro in Australia, dalle due zie che forse se la passano meglio che qua. «La cittadinanza italiana la vedo una cosa giusta, tutti dovrebbero averla», dice un decenne filippino che si chiama Liam. «Liam, o Vincenzo, uguale», precisa.

Quasi tutti i ragazzi raccontano di sentirsi in due modi diversi, quando sono in Italia e quando si trovano nei Paesi di origine. Più liberi là che qua, di solito. «Io dico sempre che il Marocco è la loro gioia, l’Italia è la loro vita», dice Fatiha, che insegna arabo nell’Associazione genitori scuola Di Donato, un faro nel panorama romano della multiculturalità. Lei è arrivata vent’anni fa da Casablanca e, per una casualità che nel tempo è diventata uno strano privilegio, ha persino la cittadinanza, come il marito e i tre figli. Festeggiano Natale, carnevale, persino Halloween: «È inutile che li costringa alle nostre feste tradizionali: le feste non si possono spiegare, esistono solo quando partecipano anche gli altri». Racconta però per Basim, il più piccolo, essere italiano per averlo ereditato dai genitori non è la stessa cosa che averne diritto in proprio: «Vuole la sua cittadinanza, quella vera». La grande, invece una volta è tornata da lei con una di quelle domande impossibili che fanno i figli: «A Casablanca non ci trattano da marocchini, quando torniamo in Italia non siamo italiani. Ma mamma, chi siamo noi?».

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