Quando l’infiltrazione criminale viene debellata le aziende sane tornano a crescere. Per la prima volta una ricerca racconta gli effetti delle cosche sull’economia del Nord e del Centro Italia

Pecunia non olet, il denaro non ha odore: è un detto latino che sta trovando nuova fortuna ai nostri giorni. La gravità della crisi economica rischia di rafforzare l’idea, esplicitata o inconfessata, che i soldi portino sempre e comunque ricchezza e benessere alla collettività. Non importa se a investirli sia un imprenditore onesto e capace, oppure un mafioso italiano, un narcotrafficante sudamericano, un corrotto dittatore africano o un impresentabile oligarca russo. L’unica cosa che conta è la pecunia. Al cinismo di questo motto si può però contrapporre la lezione storica della nostra miglior antimafia: il denaro sporco rende schiavi.

Una squadra di docenti e ricercatori dell’università di Padova è riuscita a misurare gli effetti economici della presenza di imprese mafiose nei mercati non criminali del Centro e del Nord Italia. Cioè in aree diverse dai territori del Sud dove sono nate e sono diventate dominanti le mafie tradizionali come Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. Il risultato, in estrema sintesi, è che la mafia economica strangola tutte le aziende sane, anche quelle che non vengono direttamente aggredite o taglieggiate dai boss. Mentre quando scattano arresti e condanne, tutti i concorrenti onesti ottengono vistosi benefici economici. «La massa di dati che abbiamo raccolto ci ha permesso di quantificare gli effetti specifici di dieci anni di operazioni antimafia», riassume il professor Antonio Parbonetti, pro-rettore e responsabile del dipartimento di scienze economiche ed aziendali: «Il risultato più evidente è che, quando arriva l’antimafia, le imprese sane respirano: il fatturato e la redditività aumentano di oltre il dieci per cento».
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I ricercatori padovani, specializzati nell’analisi dei bilanci aziendali, sono partiti da una mappatura delle operazioni antimafia, con ordinanze di arresto, eseguite tra il 2005 e il 2014 nel Centro-Nord, da Lazio e Abruzzo in su. Quindi hanno identificato tutti i condannati per il reato di associazione mafiosa (416 bis). Già questa base di dati è impressionante.


Solo a Nord di Roma si contano 120 operazioni antimafia in dieci anni
: la media è di una retata al mese. E i condannati per mafia, in totale, sono 1.567. Un esercito di boss infiltrati in regioni che fino a ieri ci si poteva illudere di considerare non mafiose. La linea della palma, di cui parlava Leonardo Sciascia proprio per descrivere l’avanzata delle cosche lungo la Penisola, è arrivata fino alle Alpi. E probabilmente ha superato anche i confini italiani.

Tra quei 1.567 condannati per mafia, gli economisti hanno identificato, uno per uno, gli amministratori e gli azionisti di controllo (con almeno il 10 per cento) delle società di capitali. Sono 392 nomi, pari al 24,5 per cento dei condannati. Come dire che, dal Lazio alla Lombardia, dall’Abruzzo al Piemonte, un mafioso su quattro è un imprenditore.

Lo studio, come tutte le analisi con metodi scientifici, punta a essere controllato e migliorato da altri esperti. I ricercatori si premurano quindi di avvertire che i loro dati sono doppiamente approssimati. Da un lato, sono state registrate anche le condanne di primo grado, per non allontanarsi troppo dai fatti, vista la durata dei processi. Quindi i dati vengono periodicamente aggiornati e corretti, per tenere conto di eventuali assoluzioni in appello o in cassazione.


La stragrande maggioranza delle sentenze esaminate, per altro, sono ormai definitive. Ma c’è anche un’approssimazione per difetto, come segnala il professor Parbonetti, che ha guidato la ricerca: «Il nostro lavoro non tiene conto delle condanne di soggetti che operano nel Centro-Nord, ma sono stati arrestati e processati nel Sud Italia». Con questi limiti e criteri, gli economisti hanno studiato tutti i dati disponibili. Per prima cosa, hanno esaminato e catalogato i bilanci di tutte le società di capitali con amministratori o titolari condannati per mafia. Il risultato è una lista nera di 643 aziende controllate da esponenti delle organizzazioni criminali.

Schedate così le imprese inquinate, i ricercatori hanno esaminato i bilanci di tutte le altre aziende (quelle normali, non indagate) della stessa area geografica (cioè con sede nel medesimo comune) e dello stesso settore produttivo (ad esempio: edilizia, immobiliare, rifiuti, logistica). Nei comuni troppo grandi o troppo piccoli, i dati sono stati bilanciati con quelli provinciali. E i settori produttivi sono stati scomposti in sotto-categorie ancora più specifiche (attraverso i codici Ateco delle attività commerciali).

Con questo metodo si è potuto misurare cosa succede alle imprese sane, oltre che alle aziende criminali, tre anni dopo un blitz antimafia. «Abbiamo registrato un aumento generalizzato dei fatturati e del margine operativo lordo delle società non mafiose», spiega il ricercatore Michele Fabrizi, illustrando un mare di tabelle, grafici, dati di bilancio e nomi di aziende in un salone del rettorato nel palazzo del Bo, storica sede dell’università di Padova. «A distanza di tre anni dall’intervento antimafia, le imprese sane, quelle che possiamo considerare concorrenti dirette dei mafiosi, vedono crescere sia i ricavi che la redditività in misura rilevante: tra il 10 e il 17 per cento circa». Rovesciando i dati, questo significa che le aziende mafiose, al Nord e probabilmente in misura ancora maggiore al Sud, inquinano i mercati e strozzano tutta l’economia legale.

Se non arriva l’antimafia, è come se le imprese pulite dovessero pagare una tassa aggiuntiva e occulta del 10-15 per cento, solo per poter lavorare in quel territorio. Una specie di raddoppio del pizzo, una cappa invisibile che soffoca le attività produttive.

«Gli effetti positivi delle operazioni antimafia non dipendono solo dalla chiusura dell’impresa criminale e dalla redistribuzione dei suoi ricavi», fa notare un’altra ricercatrice, Patrizia Malaspina: «I benefici che abbiamo osservato sono più che proporzionali, insomma sono superiori alle dimensioni della singola impresa colpita dagli arresti. I dati mostrano che basta una piccola azienda criminale a inquinare un mercato. E quando viene fermata, ci guadagna tutta l’economia del settore: un effetto importante è l’ingresso di nuovi concorrenti, che prima si tenevano lontani». L’antimafia dunque fa crescere anche le dimensioni del mercato: più imprese sane, più concorrenza, più posti di lavoro, più ricchezza per tutti. Nei bilanci il dato più evidente è la riduzione dei costi per le forniture e l’approvvigionamento di materie prime. «La nostra ipotesi è che l’impresa mafiosa riesca a imporre all’intero mercato locale i propri fornitori», aggiunge Fabrizi: «Questo condiziona soprattutto le piccole imprese, che hanno più difficoltà a rifornirsi in mercati esterni e competitivi».


L’analisi dei conti delle 643 società dei condannati è servito anche a disegnare l’identikit delle imprese mafiose
. Per un quarto sono “cartiere”, cioè società di comodo che fabbricano fatture false: servono a creare fondi neri, evadere le tasse e riciclare denaro sporco. Un altro 24 per cento è costituito da “società di supporto”, che non hanno ricavi operativi, ma solo costi: vengono usate per pagare auto, case, lussi e stipendi fittizi ai mafiosi e ai loro sodali. Nella maggioranza dei casi (51 per cento) si tratta però di «imprese vere, con attività reali, profittevoli, spesso medio-grandi, ben inserite nella struttura economica e sociale», sottolinea il professor Parbonetti: «Tutti e tre questi tipi di aziende sono funzionali all’organizzazione. Le cartiere riciclano il denaro nero; le società di supporto pagano i costi di mantenimento del clan; le aziende “star” servono a inserirsi nell’economia legale, creare consenso sociale, agganciare il mondo bancario e finanziario, la pubblica amministrazione e la politica».


Il vero pericolo sono proprio queste aziende insospettabili, senza contatti visibili con la mafia, che spesso imitano le aziende oneste concorrenti
. Esaminando tutte le società dei condannati, i ricavi medi per ciascuna si attestano a 6,4 milioni di euro all’anno, con un attivo (macchinari, immobili e altro patrimonio) di 13,3 milioni. Ma se si escludono le cartiere e le società di supporto, per concentrarsi sulle oltre trecento aziende produttive, i ricavi medi salgono a 9,4 milioni e l’attivo a più di 20. Come dire che la mafia controlla segretamente centinaia di medie o grandi aziende dell’economia reale, con casi accertati di fatturato da oltre 200 milioni. Tutto questo in regioni come Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria, Emilia o Lazio. Dove la crisi rafforza l’assalto mafioso alle aree più sviluppate.


La ricerca dell’università di Padova smentisce anche il vecchio mito che la mafia controlli, attraverso piccole imprese familiari, solo certi settori produttivi, da tempo considerati a rischio. L’analisi conferma che ci sono picchi di imprese mafiose nelle costruzioni (22%), nell’immobiliare (19%), nei rifiuti (7%), nella logistica e trasporti (6%). Lo studio però evidenzia decine di aziende criminali anche nel commercio, nell’industria manufatturiera, nei servizi finanziari, nelle consulenze professionali.

«Speravamo di trovare indicatori economici tipici, in grado di segnalare il pericolo anche prima o in assenza di indagini giudiziarie», spiegano i ricercatori. «Invece abbiamo osservato un mimetismo che ci preoccupa: le imprese mafiose tendono a ricalcare l’economia reale, ad agire esattamente come le aziende sane, da cui risultano indistinguibili, perfino come livelli di indebitamente bancario. Il problema è aggravato dalla tendenza a utilizzare la mafia come “service” da parte di imprenditori che, pur non essendo mafiosi, scendono a patti per sfruttare i vantaggi competitivi offerti dai clan criminali».

È una strada senza ritorno, descritta nelle sentenze sui colletti bianchi diventati complici di Cosa nostra, della camorra e soprattutto della ’ndrangheta. L’imprenditore cerca l’appoggio della mafia nell’illusione di ridurre i costi e massimizzare i profitti: invece di chiedere costosi e difficili finanziamenti bancari, sembra più conveniente farsi prestare denaro sporco; lo smaltimento dei rifiuti costa molto meno dei prezzi che devono pagare gli imprenditori onesti che rispettano l’ambiente; violenze e intimidazioni zittiscono chiunque osi protestare contro il lavoro nero; il recupero crediti affidato a scagnozzi armati è molto più efficace di un processo civile con tempi lunghissimi e risultati incerti. Allearsi con la mafia conviene, sembra rispondere alla logica imprenditoriale. Poi però iniziano i guai. Il denaro nero va restituito a tassi da usura. I reati creano complicità e impediscono denunce.

L’imprenditore deve accettare soci e amministratori sgraditi. A poco a poco viene emarginato, perde il controllo dell’azienda e poi anche la casa, i terreni, i soldi in banca e qualche volta anche la vita. I processi contro la ’ndrangheta del Nord sono pieni di storie di imprenditori brianzoli, bergamaschi, milanesi o piemontesi - dal re degli appalti del gruppo Perego ai grandi call-center della Blue Call - che sono diventati prima vittime, poi conniventi e infine complici dei clan. E ora scontano in carcere pesanti condanne per mafia.

La ricerca dell’università di Padova fa temere un ulteriore salto di qualità. «I nostri dati non confermano solo casi di infiltrazione mafiosa in aziende sane, secondo lo schema dell’aggressione esterna», è la preoccupata diagnosi del professor Parbonetti: «Il perfetto mimetismo rispetto all’economia reale fa pensare a qualcosa di peggio: è l’organizzazione mafiosa che sta creando proprie aziende nelle regioni più ricche. Oggi al Nord c’è la mafia che si fa impresa». Scolpito su antichi palazzi del potere economico, qui in Veneto, c’è un motto latino opposto a quello sui soldi senza odore: il denaro, se sai usarlo, è il tuo servitore, ma se non ne sei capace, diventa il tuo padrone.