Il modello Olivetti è solo un ricordo. Ma l'attenzione delle aziende alle necessità dei dipendenti è cresciuta ?in 5 anni del 10 per cento. Soprattutto al Nord
Per parlare di welfare aziendale bisogna dimenticare Olivetti. Di imprenditori illuminati ne nascono uno o due ogni cento anni, ma soprattutto l’industriale non può più fare da solo: se si vuole che il welfare aziendale funzioni, deve diventare un valore condiviso con i sindacati, con cui migliorare le relazioni industriali, superare la conflittualità nella contrattazione, innovare». A sostenerlo è il sociologo Luca Pesenti, dell’università Cattolica di Milano, che al tema ha dedicato il suo saggio “Il welfare in azienda, imprese smart e benessere dei lavoratori”, edito da Vita e Pensiero.
L’ingegnere di Ivrea portò il welfare alla Olivetti prima ancora della sua esistenza: asili, sanità integrativa, la biblioteca. Sono passati quasi 70 anni da allora e che cos’è rimasto di quella intuizione? L’assistenza “alla Olivetti” è diventata una forma di protezione privata per il lavoratore dipendente, frutto della contrattazione tra azienda e sindacati, detta anche secondo welfare o welfare aziendale. Ne fanno parte assicurazioni, mutue, persino terzo settore: una sinergia tra mercato e società che fornisce benefit e servizi attraverso i piani di welfare delle imprese. L’intreccio può suonare ambiguo, ma il concetto alla base è chiaro: il welfare aziendale è la stampella privata di quello pubblico. Anche se la spesa per le prestazioni assistenziali dello Stato non diminuisce, crescono i bisogni e il welfare pubblico non riesce più a dare risposte sufficienti.
Il welfare aziendale, come spiega Franca Maino, ricercatrice all’Università di Milano e direttrice del laboratorio di ricerca “secondo welfare”, intercetta e soddisfa quei bisogni, nonostante le storture e la tensione al profitto di un ecosistema privato, sempre più in espansione. Tra la crescita del welfare aziendale e l’aumento delle prestazioni assistenziali emesse dalle casse professionali, il welfare si fa sul mercato. E chi rimane fuori dal perimetro del lavoro dipendente o non è iscritto ad alcun ordine professionale, finisce per essere penalizzato: i lavoratori autonomi. Ma non solo loro.
Secondo i ricercatori della banca dati Adapt, gli unici ad aver analizzato i contratti integrativi aziendali, il ricorso al secondo welfare è sempre più frequente al nord e nelle aziende di grandi dimensioni. Nel 2012, i piani di welfare nella contrattazione integrativa coprivano il 19,9 per cento delle imprese. Oggi siamo al 30,3 per cento. E si fa in aziende come Fincantieri, Hera, Unipol, Enel, Menarini. Ma anche nelle reti d’impresa, come l’esperienza pilota di www.welfare-prato.it , quindici aziende (1.200 lavoratori) e Rete Giunca (1.700 lavoratori), la rete di distretto per il welfare aziendale del Varesotto.
Nel 2016, secondo il campione di Adapt, 370 contratti integrativi hanno coinvolto 250 mila lavoratori: per il 60 per cento imprese del Nord, il 35 del Centro e solo 4,6 per cento del Sud.
E per lo più in imprese medio grandi: il 39,7 per cento ha oltre mille dipendenti; il 22,7 tra 50 e 249; il 15,4 tra 250 e 499; l’11,4 meno di 50 dipendenti; il 10 per cento tra 500 e 999 dipendenti.
Il rischio, per la sociologa dell’Università di Torino Chiara Saraceno, è che se non si lavora nell’azienda giusta o dove non c’è un tessuto industriale denso, si resta fuori dai benefici del secondo welfare. Oltretutto, ricorda Saraceno, questo termina quando i lavoratori vanno in pensione e potrebbero avere più bisogno delle prestazioni accessorie.
Con le ultime due leggi di stabilità, il governo Renzi ha introdotto la detassazione del premio di risultato e produttività per incentivarne l’erogazione: visto che lo Stato non può abbassare le tasse, che ci pensino le aziende a dare qualcosa ai lavoratori. Le imprese hanno quindi messo benefit e servizi al centro della contrattazione: anziché avere quei pochi, maledetti e subito, il dipendente può scegliere di impegnare parte o tutto del premio per l’assistenza sanitaria, la previdenza complementare, l’assistenza per i genitori anziani non più autosufficienti, le borse di studio e i centri estivi per i figli, il trasporto collettivo, gli asili convenzionati, gli alloggi in comodato d’uso.
Da quest’anno, l’incentivo fiscale alle imprese riguarderà anche i premi per i dirigenti. E per le aziende che coinvolgono i dipendenti nell’organizzazione del lavoro l’importo dei premi salirà fino a 4 mila euro. I numeri sembrano promettenti: secondo il laboratorio diretto da Maino, le oltre 100 società di mutuo soccorso che assicurano privatamente prestazioni socio-sanitarie, hanno coperto un milione di italiani e un milione e mezzo sono le famiglie con una polizza malattia. A questi vanno aggiunti oltre 3 milioni di aderenti ai fondi integrativi privati: un bacino di 6 milioni di italiani.
Nella stessa direzione, si muovono le casse degli ordini professionali, che hanno potenziato le forme di assistenza, sia per quella a lungo termine – ancora non prevista da tutte le casse – che per la maternità e il micro-credito. Le erogazioni per gli ammortizzatori sociali degli enti privati sono passate dai 10 milioni del 2007 ai 34 milioni del 2015.
L’Enpam, la cassa dei medici, ha esteso l’assegno di maternità anche alle mamme ancora all’università: 1200 euro mensili per cinque mesi, oltre agli aiuti per asili nido e baby-sitter. Conseguenza dell’aumento delle iscritte e anche del fatto che le giovani guadagnano il 50 per cento in meno dei colleghi uomini, spiega Alberto Oliveti, presidente di AdEPP, l’associazione che rappresenta diciassette casse di previdenza e due di assistenza, per un milione e mezzo di iscritti.
Una chiamata all’azione per i professionisti, le cui iscrizioni sono aumentate del 20 per cento dal 2005, ma anche una constatazione amara: se ti iscrivi avrai il tuo welfare; se resti fuori, é a tuo rischio e pericolo. E con il calo del 20 per cento del reddito medio degli iscritti (dal 2008 ad oggi), l’iscrizione è l’unica via.
E chi non rientra in un ordine professionale? Briciole di welfare e poche prestazioni. Per le partite Iva è vietato ammalarsi: dal 2007 al 2015, secondo i dati INPS, sono diminuiti da 2.076 a 1.297 coloro che hanno beneficiato dell’indennità di malattia (poca roba: 20 euro al dì per massimo 60 giorni l’anno). Numeri esigui e con la crisi ancora più allarmanti: se una partita Iva lavora meno di meno non ha il minimo di contribuzione previdenziale per accedere alle prestazioni.
I professionisti autonomi – circa 5 milioni per l’Istat, secondo i dati del 2011 – non hanno copertura per i buchi previdenziali, quando non versano, né possono evitare di pagare l’Iva se non incassano.
Una storia contributiva discontinua, che non garantisce l’accesso a infortunio e malattia: il minimo delle prestazioni. Come temuto dalla sociologa Saraceno: la delega al mercato, da parte dello Stato sul welfare, non farà che acuire le disuguaglianze tra i lavoratori. Tra chi avrà un’assistenza garantita dal datore di lavoro e fortificata con il welfare aziendale, e chi potrà contare solo sulle modeste prestazioni del pubblico, a meno di non stipulare una polizza privata.
Intanto, potrebbe arrivare una piccola svolta per le partite Iva: lo Statuto dei lavoratori autonomi, il Jobs Act 2. Il disegno di legge è ora alla Camera, dopo essere rimasto al Senato per nove lunghi mesi. Se passerà il guado della votazione, ci sarà l’estensione, anche agli autonomi, di alcune tutele dei lavoratori subordinati: la possibilità di congelare il versamento dei contributi per il periodo di malattia e la sua equiparazione alla degenza ospedaliera, per le gravi patologie. Il paradosso è che alcuni emendamenti che avrebbero migliorato sensibilmente lo Statuto, come l’estensione a 24 mesi della contribuzione minima per l’accesso alle prestazioni, sono stati ignorati: il Pd l’aveva proposto insieme ai pentastellati, salvo fare marcia indietro. Per la deputata del M5S Tiziana Ciprini, è un problema di coperture: per gli autonomi non ci sono soldi. Tanto che nei nove mesi di permanenza Senato, l’unica soluzione elaborata, per far fronte ai mancati pagamenti dei professionisti, è stata: fatevi l’assicurazione privata. Della serie, avanti welfare privato, c’è posto.