Una scrittrice e il politico insieme alla proiezione del documentario sul fine vita “La natura delle cose” di Laura Viezzoli. Ne nasce questo dialogo. Su Welby, Cucchi, dj Fabo. E “l’altruismo interessato”

Gli scafandri, gli astronauti, il silenzio del cosmo, galleggiare nell’acqua…

Disarmati di fronte all’inconoscibile, a quello che accade alle persone affette da malattie neurodegenerative - il corpo che si trasforma in uno strumento di contenzione - usiamo sempre le stesse metafore. La nostra immaginazione produce associazioni che rimandano alla leggerezza, la sospensione. Quando, forse, si tratta di una pesantezza insostenibile, cemento nei muscoli e nelle vene.

Anche Laura Viezzoli nel documentario “La natura delle cose” alterna il racconto della vita di Angelo Santagostino, filosofo, ex sacerdote, malato di Sla, a immagini di assenza di gravità. Il film è stato al festival di Locarno e ha vinto il premio Corso Salani. Lo hanno presentato in Senato Luigi Manconi, presidente della Commissione Straordinaria diritti umani, insieme a Marco Cappato, dell’Associazione Luca Coscioni. “La natura delle cose” è intessuto nell’amicizia tra la regista e il protagonista, ed è accompagnato dalla voce dolcissima di Roberto Citran. Eppure, nonostante la grazia e l’intelligenza, le immagini di quella sofferenza muta a irredimibile sono quasi insopportabili.

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Manconi, rispetto alla battaglia che sta conducendo per ottenere una legge sul fine vita, ritiene legittimo, ma soprattutto utile, l’uso così spietato delle immagini dei corpi? Lo chiedo anche per capire che ruolo possiamo avere noi nell’accompagnare il cambio di mentalità necessario, noi che ci interroghiamo, che vorremmo sostenere la sua lotta.
«Questa è per me una questione centrale. Rispetto al mostrare le foto di Stefano Cucchi e il video di Franco Mastrogiovanni, ad esempio, io ho avuto un ruolo determinante. La scelta, fatta dopo lunga esitazione e profondo travaglio dai genitori e da me assecondata, sostenuta e infine gestita, era quella di dire: queste immagini indicano le precise e gravi responsabilità di chi ha contribuito a quella morte o l’ha addirittura determinata. Le foto di Stefano Cucchi all’obitorio sono state senza dubbio determinanti per creare attenzione nell’opinione pubblica, e il video di Franco Mastrogiovanni nel letto di contenzione dell’ospedale di Vallo della Lucania (pubblicato dalll'Espresso in esclusiva ndr), e poi il film di Costanza Quatriglio, certamente hanno tratto dall’oblio una vicenda destinata a essere ignorata. Qui la questione è del tutto diversa, ma si tratta, comunque, come lei diceva, di condurre una lotta, cioè una vertenza pubblica, una mobilitazione dell’intelligenza, dell’emotività, della sensibilità per tematizzare una grande questione, quella del fine vita. C’è una frase, che io ho scoperto tardivamente, e che trovo straordinaria di Pier Paolo Pasolini. In alcuni suoi taccuini di appunti ha scritto: “Ho gettato il corpo nella lotta”. Questo è quello che hanno fatto Piergiorgio Welby, dj Fabo, Angelo Santagostino col documentario di Laura Viezzoli. Ma la vera novità, a partire da queste vicende, è che le rappresentazioni di morte sono accompagnate dagli aspetti vitali, che addirittura prevalgono. Il fine vita non più come la fosca conclusione del tutto, concentrata sulla decadenza, la perdita, l’assenza, la solitudine, l’impotenza, ma come parte di un’esistenza che poteva esser stata e continuava a essere nel momento ultimo, piena, ricca. Il ruolo avuto da Mina, la moglie di Welby, è stato a mio avviso decisivo. Io l’ho sentita parlare decine di volte e in lei ha sempre prevalso non il racconto dell’agonia ma il racconto dell’amore».


Passati dieci anni, la storia di dj Fabo ripropone uno scenario che ha ancora una volta questo tratto.
«Attorno a lui una ricchezza di presenze, la vitalità dell’amore della madre e della fidanzata, e poi la sua capacità di esprimere desideri, le sue ultime parole dove c’è anche l’ironia. Questo è molto importante perché risponde ad alcune serie critiche, ad alcuni dubbi motivati, cioè il rischio che le scelte di fine vita, quali quelle che puntano alla sospensione delle cure, all’interruzione dell’accanimento terapeutico, la sedazione profonda e infine l’eutanasia, siano segnati dalla solitudine del morente. Bene, rispetto a questa critica seria noi abbiamo visto in queste morti diventate pubbliche, tendenze opposte, non la solitudine ma invece la ricchezza del legame sociale, la pienezza delle esperienze, della comunicazione, della relazione. Il tabù della morte che viene in qualche misura intaccato perché non è semplicemente una minaccia che incombe ma diventa un itinerario che conserva una sua vitalità. In questa nuova consapevolezza hanno un ruolo cruciale le donne».
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Per mobilitare, svegliare le coscienze, riflettere, per fare politica sui diritti e non solo, l’unica cosa che conta sono le storie, le biografie, le esperienze. Dov’è finito il ragionamento astratto?
«Lo slogan politico più intelligente, il più efficace degli ultimi trent’anni è il motto dell’associazione Luca Coscioni che dice “dal corpo dei malati al cuore della politica”. Che per me significa dei malati, degli esclusi, dei reclusi, dei migranti... Dal corpo, però. Io ho questa ossessione del corpo, perché penso che il corpo sia la sede della sofferenza e della dignità, della miseria fisica e della miseria economica, ma anche luogo dove si maturano le forze per resistere, le aspettative su cui puntare. La biopolitica, parola che non mi piace tanto, la politica che si basa sull’esistenza umana, sull’esperienza come giustamente lei sottolinea, quello per me è il cuore della politica. Ma contemporaneamente, come racconto nel mio libro (“Corpo e anima, se vi viene voglia di far politica” a cura di Christian Raimo, minimum fax) sono del tutto contrario all’immedesimazione. Io non mi immedesimo, perché ritengo l’immedesimazione un’operazione profondamente sbagliata, ipocrita e falsa. Io non sono Stefano Cucchi, ma non sono nemmeno il malato di Sla, quindi non posso fingere di esserlo, non posso provare quei bisogni e quelle emozioni».

Nel libro “L’avversario” Emmanuel Carrère fa un discorso simile, a proposito della legittimità dello scrittore di usare la prima persona per raccontare una vicenda efferata come quella del pluriomicida Jean-Claude Romand.
«Io cito spesso un brano de “L’avversario”, quello in cui Emmanuel Carrère dice che ha talmente pedinato l’assassino, l’ha talmente seguito, l’ha talmente osservato, che a un certo punto guardandolo nell’intimo gli è sembrato di affacciarsi sull’inferno. Affacciarsi sull’inferno significa io avrei potuto essere lui, ma non lo sono. Io dico: guardate che io non amo i detenuti, mi fanno schifo i rom ma difendo i diritti dei rom perché questo è l’unico modo per difendere i diritti dei miei figli. Lo faccio per egoismo, lo faccio per quello che io chiamo l’altruismo interessato, dove l’accento va sull’interessato non sull’altruismo. È vero, quasi tutto ciò che ho fatto politicamente nasce da una biografia. Da un nome e un cognome, una faccia, una storia, quindi da una dimensione narrativa. Non soltanto perché amo il metodo induttivo, ma perché ritengo che l’aspetto della narrazione, che accompagna il percorso esistenziale ed esperienziale, sia l’unico mezzo per aiutare il lettore, l’ascoltatore l’interlocutore, a scoprire i nessi tra quella esperienza e il sistema complessivo».