Oltre 150 giornalisti arrestati, in migliaia licenziati senza motivo: ormai basta un tweet contro il governo per finire in carcere per mesi. «La situazione è destinata a peggiorare drammaticamente ma con questo referendum abbiamo capito che sta perdendo consenso e per rimanere al potere sarà obbligato a fare sempre maggiore ricorso alla forza»

Molto più che un referendum cruciale ma lontano, corrotto dai brogli, è stato l'arresto ingiustificato del giornalista Gabriele Del Grande a rendere noi italiani consapevoli di quanto il leader turco Recep Tayyip Erdogan abbia trascinato ormai la Turchia dalla parte “dei cattivi”. Di quei Paesi in cui le libertà civili e di espressione sono negate, facendo soffrire milioni di persone, con il solo obiettivo di mantenere al potere un uomo e il suo clan. «La Turchia è diventata la più grande prigione del mondo», scrive la ong “Reporter senza confini”. Oltre 150 giornalisti in carcere e migliaia licenziati da un giorno all'altro senza motivo. E senza speranza di essere mai assunti da nessun altro.

«Il golpe è stato utilizzato da Erdogan per far fuori tutti i suoi nemici, vicini e lontani, e per sbarazzarsi di chiunque possa mettere a nudo la sua retorica», racconta al telefono una giornalista di Hurryet che non vuole essere citata per paura di ritorsioni: «La parola chiave è “terrorista”». In Turchia è un terrorista chiunque dia fastidio al potere: i militanti di sinistra, alcuni ecologisti, i curdi, i giornalisti che non seguono le direttive di governo. Sono tutti terroristi o amici di terroristi. Una ragione sufficiente, durante questo periodo di legge marziale, per essere sbattuti in prigione senza un'accusa precisa e senza limiti temporali. E, difatti, anche il nostro Del Grande è stato accusato da Ankara di parlare con terroristi.
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Il clima di terrore si sta facendo sempre più cupo in Turchia. «Stiamo assomigliando ogni giorno di più alla Russia e alla Cina dove i giornalisti sono servi o morti», continua la giornalista turca. La censura sui social media ha raggiunto livelli mai visti prima al punto che navigando su Internet senza un VPN (Virtual private network) si potrebbe credere di vivere in un Paese paradisiaco. E invece la Turchia di Erdogan è un Paese in cui basta un Tweet contro il governo per finire in carcere per mesi. I giornalisti stranieri cominciano ad essere seguiti se escono dalle grandi città. Ogni loro contatto tenuto sotto stretta osservazione, con i loro collaboratori turchi che, aiutandoli, rischiano il carcere a vita. «Alzando i toni della propaganda nazionalista dentro e fuori il Paese Erdogan non può tollerare una stampa straniera che offra una versione diversa della realtà e la presenta come “corrotta e male intenzionata”». Reiterando, come avviene in tutte le dittature del mondo, la retorica della lotta contro l'Occidente corrotto e malvagio. Talmente grande è al fissazione di Erdogan contro i giornalisti che, subito dopo aver vinto il referendum, ha annunciato che fin tanto che lui rimarrà presidente, il giornalista turco-tedesco Deniz Yucel, un giornalista di Die Welt, nato e cresciuto in Germania da genitori turchi e dunque possessore di doppia cittadinanza, non uscirà di prigione. La sua colpa? Avere filmato alcuni scontri tra attivisti curdi e polizia nella roccaforte curda di Diyarbakir.
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Eppure, in questo panorama desolato, nelle redazioni che ancora sopravvivono alla scure di Ankara non si rinuncia a vedere il lato positivo. «La situazione peggiorerà drammaticamente nei prossimi mesi ma con questo referendum abbiamo capito che Erdogan non ha più il consenso che aveva prima e che per rimanere al potere sarà obbligato a fare sempre maggiore ricorso alla forza», racconta un'altra fonte che vuole rimanere anonima.

Le città hanno votato tutte “no” al referendum con Erdogan aveva cercato e ottenuto (tramite due milioni e mezzo di voti dubbi) poteri assoluti. Anche il dieci per cento degli elettori dell'AKP, il suo partito, avevano votato contro. Si tratta di una situazione inedita che potrebbe indicare l'inizio della fine del consenso naturale del Sultano, ottenuto per anni con la promessa (spesso mantenuta, soprattutto nelle aree rurali più depresse ma anche nelle grandi città) di investimenti infrastrutturali ingenti per ammodernarne lo stile di vita e di un miglioramento delle condizioni economiche dei più poveri.

Il fatto che Erdogan abbia vinto soprattutto in città è importante. «I turchi che vogliono trovare lavoro devono necessariamente migrare in città perché le campagne sono ancora drammaticamente povere, senza prospettiva», spiega la fonte. «E in città vengono in contatto con persone molto diverse da loro, più aperte al mondo, e spesso cambiano abitudini e modo di pensare». Si lasciano alle spalle parte di quell'ignoranza su cui ha fatto leva per anni Erdogan. «Per questo credo che il futuro più lontano, nonostante tutto sia roseo».