Mass media ridotti al silenzio. Centinaia di giornalisti in carcere. Torture fisiche e psicologiche. E la paura che si è impossessata di tutti. La scrittrice racconta all’Espresso 
la trasformazione autoritaria del suo Paese

Porta lo stesso cognome del Presidente della Turchia, ma rappresenta nettamente l’altra faccia del Paese. Asli Erdogan ha 49 anni, è scrittrice, giornalista e attivista turca. Per 136 giorni è stata rinchiusa in carcere solo perché le sue armi sono la scrittura e il ragionamento ed è accusata insieme ad altri venti fra giornalisti ed editori del quotidiano filocurdo Özgür Gündem di propaganda terroristica a sostegno e in favore del Pkk, il partito curdo dei lavoratori. Durante la detenzione un procuratore turco ha chiesto ai giudici la condanna all’ergastolo.

Poche settimane fa Asli è stata scarcerata e da allora si è rifugiata a casa della mamma, poco fuori da Istanbul. È una donna che ha bisogno di raccogliere le forze e le energie che il carcere le ha sottratto. Da questa abitazione, sommersa dalla neve dopo la pesante ondata di maltempo che si è abbattuta sulla Turchia, risponde alle domande dell’Espresso. I genitori di Asli Erdogan sono stati attivisti e per questo motivo durante i colpi di stato del 1980 e 1990 hanno subito torture in carcere. Erdogan è laureata in Fisica ed ha studiato al Cern di Ginevra.

Per gli studi e la ricerca sulla Fisica ha girato il mondo. Ma la scrittura è la sua vita. I suoi libri sono stati tradotti in dieci lingue. È stata ospite dell’anteprima di Tempo di Libri, la nuova fiera (in programma a Fiera Milano Rho dal 19 al 23 aprile 2017), durante la quale si è riflettuto sui contesti e i regimi che negano la libertà di pensiero e di stampa.

Asli Erdogan, lei è una scrittrice, pubblica romanzi e poi commenta, anzi commentava i fatti del suo Paese sul giornale Özgür Gündem. Proprio perché lei usa la scrittura e la parola, che a quanto pare in Turchia sembrano essere diventate armi, è stata arrestata, e per 136 giorni è stata chiusa in carcere. Come è possibile?
«Onestamente sono rimasta scioccata e probabilmente lo sono ancora. Mi occupo di letteratura, ho scritto otto romanzi. Ho lavorato per giornali e riviste negli ultimi diciotto anni, e nessuno dei miei articoli è mai diventato un caso giudiziario, neanche quelli pubblicati per Özgür Gündem. A un certo punto però mi hanno arrestato con la scusa che il mio nome risultava nella lista dei “consulenti” del giornale. Il mio nome era in quella lista da cinque anni, non c’erano problemi secondo l’avvocato del giornale, i consulenti non hanno responsabilità legali rispetto al giornale. Era puramente simbolico».
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Come ha vissuto la sua prigionia insieme alle altre detenute? Quali sono le condizioni delle carceri?
«Sono stata tenuta in isolamento per i primi cinque giorni, la cella era indescrivibilmente sporca. Sono stati i giorni più difficili. Dopo essere entrata nella sezione dei prigionieri politici, sono riuscita ad adattarmi con l’aiuto e la solidarietà dei detenuti con maggiore esperienza. Eravamo ventidue donne nella sezione, la più giovane aveva vent’anni, la più vecchia sessanta. Nonostante fossi in una delle prigioni più “morbide” della Turchia, le condizioni peggioravano di giorno in giorno, con l’introduzione di nuove regole e nuove restrizioni. Più di 50 mila persone sono state arrestate dal mese di luglio, le prigioni sono al collasso, 220 mila detenuti tutti insieme, quando la capacità di accoglienza è di 180 mila. La Turchia è stata esentata dal rispetto dei diritti umani basilari per i detenuti, e chi è in carcere non ha alcuna difesa legale contro le torture fisiche e psicologiche».

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La libertà di stampa nel suo paese è di fatto abolita. Qual è la condizione dei giornalisti in Turchia, delle tv e dei giornali?
«Al momento, in prigione, ci sono almeno 150 giornalisti, tra cui scrittori famosi come Ahmet Altan e Ahmet S?k e 12 editor del Cumhuriyet, il giornale socialdemocratico. Per un ordine speciale del governo, sono stati chiusi circa 140 tra radio, canali televisivi, giornali e agenzie di stampa. Rimangono ancora due o tre giornali di opposizione le cui attività sono soggette a una pressione incredibile. Perfino i giornalisti più blasonati della stampa più accreditata passano nottate insonni aspettando la polizia».

Quanto fa paura in Turchia, in particolare al presidente Erdogan, un giornalista o uno scrittore libero?
«Oggi i media sono completamente ridotti al silenzio, come anche le università, i circoli e le associazioni (sono state chiuse circa 1.300 Ong, inclusi sindacati e associazioni di avvocati). Più che dalla paura, probabilmente tutto questo è dettato dall’odio e dal rancore personale, dall’intolleranza contro la minima ombra di sensibilità civica».

Il suo arresto, insieme a quello di centinaia di altri scrittori e giornalisti ha provocato tanta indignazione. La notizia della sua scarcerazione come è stata accolta dai turchi?
«Erano in molti a essere davvero felici, ballavano e cantavano nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Io intanto piangevo in una stanza buia, tra i militari, dove rimangono i prigionieri prima e dopo l’udienza. C’era invece chi voleva ostinatamente una condanna per me, perché secondo loro, sono una traditrice».
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Cosa pensa della mobilitazione internazionale di rappresentanti del mondo della cultura che hanno fatto appelli per farla tornare libera?
«Sono rimasta sorpresa e immensamente commossa. Senza il sostegno internazionale, mi avrebbero volentieri lasciato marcire in una cella. E sono infinitamente grata per il miracolo che avete fatto, la gratitudine è un sentimento difficile da esprimere, anche per uno scrittore».

Nei suoi confronti a Istanbul si sta svolgendo un processo, il 14 marzo ci sarà la terza udienza e nel frattempo è obbligata a non lasciare il paese, quali sono le accuse nei suoi confronti?
«I consulenti a titolo simbolico di Özgür Gündem erano sei, Necmiye Alpay (linguista e traduttore), Bilge Contepe (fondatore del partito dei Verdi), Rag?p Zarakolu (editore e candidato al Nobel per la Pace nel 2012), Ayhan Bilgen (parlamentare del HDP e suo portavoce), tutti sono stati incriminati per il peggior crimine della legislazione turca: l’accusa è di aver fondato un’organizzazione terroristica, di esserne membri e di fare propaganda per l’organizzazione e per l’articolo 302: operare per la distruzione o la separazione dello stato turco. Per quest’ultimo reato in passato si veniva condannati alla pena di morte, oggi all’ergastolo in isolamento (Öcalan è stato condannato per l’articolo 302)».

Tutto questo le fa paura a restare in Turchia?
«Nessuno è più al sicuro in Turchia. Io ho capito la lezione che mi hanno dato: possono giocare con me come il gatto con il topo, in qualunque momento lo desiderino. Dato che non mi sono mai occupata di politica, non sono abituata ad avere costantemente paura della polizia. Ma ora, ho imparato tra le altre cose che la paura può essere il peggiore dei guardiani».

Le parole che usa nei suoi libri possono aiutare a trovare la forza per resistere alla mancanza di democrazia?
«Sono solo una scrittrice. Spesso, mi sono persa nell’immensa vastità delle parole, nel loro vuoto, Ma non ho altro a cui aggrapparmi se voglio rimanere in piedi. Sono zoppa, senza parole».

Anche in Italia la parola sembra essere diventata una colpa. Se c’è una categoria che provoca discussione è proprio quella dei giornalisti, per il ruolo che svolgono e anche perché qualche volta la gente confonde lo specchio con la realtà. Su questo mestiere è stato detto di tutto, bene o male, e poi perché è un lavoro che si esercita nei pressi del potere, che tende sempre a condizionarlo perché talvolta al potere si oppone. E per questo ci sono giornalisti che vengono uccisi o imprigionati. Si può morire perché si sa o perché si parla...
«Viviamo in un’epoca in cui l’informazione è potere, il potere è informazione. Le democrazie liberali hanno una storia lunga di libertà di espressione sopita e appresa attraverso amare lezioni, il desiderio di monopolizzare la realtà conduce al disastro. Negli ultimi anni, governi e leader autoritari stanno prendendo il potere in tutto il mondo. I metodi più “sottili” con cui vengono “controllati” i media vengono lentamente rimpiazzati da metodi più crudi per ottenere il silenzio, dalla prigione all’omicidio. Questo è il dilemma del giornalismo oggi, di molti, noi rappresentiamo il sistema e il potere mentre il sistema e chi detiene il potere, si sentono minacciati dalle nostre frasi».

Lei ha scritto che “la recente crisi in Europa, conseguente al problema dei rifugiati e degli attacchi terroristici, non è soltanto una questione politica ed economica”, dunque di cosa si tratta?
«Forse si può riassumere come una crisi di identità. Lo splendido sogno di un’Europa unita ha cominciato a sostanziarsi, come se cercasse di trovare un appiglio nella realtà, un appiglio di ferro e pietra. Libertà, uguaglianza, fratellanza. I concetti più nobili tra tutti, ma elaborati da chi? Come possiamo rendere universali questi concetti in un mondo di disuguaglianza e ingiustizia? Che ruolo dovrebbe giocare l’Europa? Sono domande fondamentali. La tragedia che colpisce milioni di immigrati e rifugiati chiede una presa di posizione di carattere morale che molte persone non intendono prendere».

Pensa ci possa essere un modo per migliorare queste condizioni politico-sociali?
«La mia risposta probabilmente sarà ingenua. Noi viviamo tutti su un unico pianeta, un pianeta dalle risorse limitate. Chi ha di più ha un dovere nei confronti di chi ha di meno. Per me, “solidarietà” è uno dei concetti più sacri, la solidarietà ha senso solo se ci si mette dalla parte della vittima. Quando ci sono persone che sono state costrette a indossare una stella gialla, l’unico modo per rimanere liberi era indossare volontariamente quella stella».

Per questo motivo la democrazia in Turchia ha fatto passi indietro?
«Nessuno è davvero in grado di vedere o cogliere il quadro complessivo. Vediamo l’orrore. Non passa settimana senza attentati, omicidi di massa o assassini. Sembra che la Turchia sia stata spinta nel fuoco del Medio Oriente da forze interne ed esterne. Il terremoto più forte è stato il 15 luglio scorso, la terra però non si è ancora fermata e si sono aperte molte linee di faglia».

Nelle ultime settimane la Turchia è stata bersagliata da attacchi terroristici sanguinari, cosa sta accadendo?
«Mi piacerebbe avere una soluzione o una ricetta! Non uccidere! era il primo comandamento, il primo obbligo, ma per migliaia di anni, gli esseri umani non hanno fatto altro che inventare ragioni e concetti per cui morire o uccidere. Parlando da un punto di vista teorico, l’oppressione produce violenza e la violenza si traduce in maggior oppressione. E la libertà di espressione è l’unica via per combattere ogni tipo di fanatismo. Ma io non sono un politico che può trasformare queste affermazioni teoriche in prassi. In azioni concrete. Se avessi qualche potere politico al momento, farei tutto il possibile per fermare la guerra in Siria e stabilizzare il Medio Oriente, prima che il fuoco si propaghi ulteriormente».