Da Tzipi Livni a Bar Lev, gli oppositori di Netanyahu non abbandonano la battaglia per arrivare a due stati. Perché, a cinquant'anni dalla conquista dei Territori, i palestinesi "sono dei civili, non nemici da combattere"

Racconta Tzipi Livni: «Due giorni dopo la conquista della Cisgiordania, avevo nove anni, i miei genitori mi portarono in automobile in gita nei Territori. A un certo punto si fermarono e mio padre chiese a un palestinese delle indicazioni stradali. Mia madre ebbe l’impressione che nel tono della sua voce ci fosse una sfumatura razzista. Lo rimproverò. Mio padre reagì», prosegue il racconto, «dicendo che no, che lui usava un arabo rudimentale (era questo il rimprovero) perché non lo sapeva padroneggiare bene e che parlava lentamente (altro rimprovero) per non mancare di rispetto all’interlocutore».

A quei tempi, pochi giorni dopo la vittoria nella Guerra dei sei giorni decine di migliaia di israeliani andarono a visitare le città palestinesi: per curiosità e per guardare in faccia il nemico. Quello che ha di particolare la narrazione di Livni è il contesto politico familiare. Livni deputato alla Knesset, avversaria del governo Netanyahu («il più di destra nella nostra storia»), è stata ministro degli Esteri, ma soprattutto suo padre Eitan è stato attivista dell’Irgun ai tempi del mandato britannico. Gli uomini dell’Irgun propugnavano una Grande Israele e cantavano: «Due sono le sponde del Giordano, ambedue le nostre». Commenta Livni: «Ma in quella visione del mondo gli arabi dovevano essere cittadini a pieno titolo».
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E oggi? «La parola Stato dovrebbe coincidere con la parola confine, perché il confine determina l’identità, ma a 50 anni dalla guerra e con Netanyahu al potere non è così. Se vogliamo mantenere il carattere ebraico e democratico di Israele dobbiamo rinunciare alla Cisgiordania». Livni non è una pacifista (insiste nel dire che Israele è un Paese con molti nemici e quanto la sicurezza, sinonimo di azioni militari dure, sia fondamentale), ma stabilisce il nesso tra l’occupazione e qualcosa che assomiglia a una deriva antidemocratica. In concreto: il premier attuale cerca di sottomettere ai suoi voleri i media e considera una specie di quinta colonna le organizzazioni che raccolgono le testimonianze sui misfatti dei coloni e dei militari nel territori occupati. «I miei genitori di destra sognavano un Israele diverso», dice Livni alludendo anche a una certa demagogia contro gli arabi cittadini di Israele usata dal premier.

Omer Bar Lev è collega di Livni, ha 63 anni, è uno dei leader del partito laburista, ex comandante di Sayeret Matkal, l’unità d’élite dell’esercito e figlio di Haim Bar Lev, vicecapo dello Stato maggiore nel 1967. L’appuntamento è in un quartiere Nord di Tel Aviv: un caffè dall’aria familiare in una strada linda e sembra di stare a Zurigo. Accanto, un’agenzia immobiliare: nella vetrina, offerte di appartamenti in vendita. Si parte da un milione di euro per un alloggio di 90 metri quadri. E basta fare due passi per vedere decine di grattacieli in vetro, dalle forme più immaginifiche possibili, e accanto selve di gru, nei cantieri dove si costruiscono altri e simili palazzi. Anche i prezzi dei ristoranti assomigliano (come la strada dell’incontro) a quelli di Zurigo. Ma poi, accanto a una crescita dell’economia del sei per cento l’anno, del Pil pro capite di 36 mila dollari e a un tasso di disoccupazione che non supera il quattro per cento, un bambino su quattro vive in povertà e gli indici di diseguaglianza sono tra i più alti fra i Paesi dell’Ocse.

Il padre di Omer Bar Lev era nato a Zagabria, in una famiglia borghese (proprietaria di una fabbrica); nonni di origini austro-ungariche. Nel 1939 i genitori lo spedirono (via Trieste) in Palestina. Frequentava una scuola di agricoltura, militava nelle organizzazioni della sinistra, divenne soldato. «Anche quando era un generale, vivevamo in una casa modesta. Nessun lusso; nessun privilegio; non si parlava dei soldi. Nel 1967 eravamo a Parigi (mio padre era in missione). Fu richiamato. Poi, a guerra iniziata, l’abbiamo raggiunto; mia madre non si immaginava che potessimo restare all’estero mentre la patria era in pericolo». Sorride: «A guerra finita, mio padre come tutti i generali era considerato un eroe. Comprensibile, ma come se ci fosse un delirio collettivo».

Spiega, da figlio, ma anche da politico che aspira a vincere le elezioni e formare (con Livni e altri) un nuovo governo: «Per mio padre i territori conquistati erano una specie di carta da giocare, un biglietto, non vinto alla lotteria, ma ottenuto con sangue e coraggio, da scambiare con un accordo di pace con gli Stati arabi». Illusione? «Non so», è la risposta, «ma so che subentrò un elemento messianico, che trasformò ciò che doveva essere transitorio (l’occupazione militare) in permanente (400 mila coloni)». Spiega: «Sono un militare. E da militare so che quasi tutti gli insediamenti non servono alla nostra sicurezza. Sono stati costruiti con l’idea di redimere “i luoghi sacri” e per sottrarre la terra al nemico. Ecco, penso invece che gli abitanti della Cisgiordania siano dei civili, non nemici da combattere».

Tradotto in termini politici? «Separarsi dai palestinesi. Arrivare a una situazione in cui i due popoli possano vivere in due Stati. Mi sembra un’idea razionale e di vantaggio per tutti quanti», sorride ironico: «E, del resto, i 50 anni di occupazione hanno fatto male pure agli israeliani».

Separazione, confini, guarigione, identità. Parole impegnative, che cozzano contro l’apparente normalità di un Paese preoccupato più per l’andamento della Borsa e delle startup all’avanguardia che dal futuro dei territori (nei media ma anche nei caffè se ne parla pochissimo). E tuttavia uno scrittore come David Grossman, da anni sostiene quanto gli israeliani soffrano di una specie di patologia: mancanza di limiti (anche nei rapporti personali) dovuta al fatto che da due generazioni non sanno cosa sia un confine. Non hanno tutte le colpe. Il suo stupendo romanzo “Come il cerbiatto è il mio amore” comincia con la guerra dei Sei giorni: i tre protagonisti, ragazzi, sono ricoverati in un ospedale; sospesi tra la speranza della guarigione e la paura della morte. Ma, soprattutto, abbandonati a se stessi (i medici e gli infermieri sono spariti). Ecco, abbandonati dal mondo e scissi tra il timore dell’annientamento e la speranza di farcela, erano pure i due milioni e mezzo di ebrei che vivevano allora in uno Stato che esisteva da appena 19 anni ed era abitato in maggioranza dai nuovi immigrati, molti dei quali sopravvissuti alla Shoah.

Il primo ministro Levi Eshkol aveva 72 anni; nato in Ucraina, arrivò in Palestina diciannovenne. Sua figlia Ofra Nevo, in un ristorante sul lungomare di Haifa («guardi questo locale, ebrei e arabi insieme; il mio sogno e l’incubo invece di Netanyahu»; ride) racconta: «A casa nostra si parlava solo di politica; di come costruire lo Stato. Mio padre stava in un appartamento in affitto: prima un monolocale a Gerusalemme e poi tre stanze a Tel Aviv. Non si andava nei ristoranti; diceva che erano posti da borghesi. Non eravamo poveri: mio padre guidava un’automobile sua». Riflette: «Non è mai stato razzista. All’Università gli chiesi: e se mi sposassi con un arabo? Lui rispose: temo che avresti delle difficoltà, purtroppo».

Eshkol amava parlare lo yiddish, la lingua della Diaspora, della ambivalenza (in yiddish ogni espressione contiene almeno due significati opposti); e non sapeva che farsene dei territori conquistati. In un’intervista, ricorda Ofra, disse: «Il fatto che Sara e Lea (mogli di Abramo e Giacobbe) facessero la bella vita a Hebron non mi obbliga a niente». Pochi giorni dopo, il suo governo cadde.

Alla guerra arrivò in seguito a una serie di eventi: lo scontro tra Israele e Siria sui confini; il fatto che Nasser, presidente dell’Egitto, chiese in solidarietà con Damasco il ritiro delle truppe Onu che stazionavano nel Sinai, richiesta accolta dal Segretario delle Nazioni Unite (che invece avrebbe potuto tergiversare); l’ingresso del re Hussein di Giordania nella coalizione che proclamava (Nasser in testa) di «voler buttare gli ebrei a mare»; l’appoggio dato dai russi agli arabi. Ecco, in quella situazione, i generali israeliani, tutti sabra nati in terra santa, belli e biondi, sentirono che il tergiversare di Eshkol (ed Eshkol tergiversava) fosse segno di una mentalità yiddish, da Diaspora. Lo deridevano; lo minacciarono di un putsch. Comunque, alla fine, lui si convinse che non c’era altra scelta che combattere. Così a giugno conquistò il Sinai, la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e il Golan.

L’allora ministro degli Esteri, Abba Eban, disse che i confini d’Israele erano quelli di Auschwitz. «Voleva dire una cosa semplice», spiega lo storico Dan Diner, «che la legittimità internazionale dello Stato degli ebrei si basa sulla memoria dell’Olocausto». Le sacre pietre della Cisgiordania, conquistate cinquant’anni fa non c’entrano. 

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