Nell’era dei dati resta poco o nulla del contratto sociale. Quello concepito dalla tradizione del pensiero politico, da Hobbes a Kant e Rousseau, fino a Rawls, serviva infatti a stabilire una serie di diritti e doveri reciproci. Era fondato essenzialmente sulla fiducia tra le parti contraenti. Richiedeva, ricorda la Stanford Encyclopedia of Philosophy, un punto di partenza ?e un processo equi e imparziali.
A negoziarlo, infine, erano tradizionalmente governati e governanti. Il suo mutarsi in contratto “social” ha però rovesciato il tavolo: a gestire le nostre vite online sono oggi non veri e propri accordi contrattuali, ma loro simulacri, le “condizioni di utilizzo” arbitrariamente dettate dai colossi privati che raccolgono, immagazzinano e analizzano senza sosta ogni nostro pensiero o preferenza, per mutarli in pubblicità personalizzata e, insieme, preziose informazioni a uso governativo. Anche la fiducia, dopo innumerevoli scandali a base di violazioni di massa della privacy degli utenti, è un ricordo lontano. Oltre nove americani su dieci, documenta il Pew Research Center, sostengono di avere ormai perso il controllo delle informazioni personali in rete. Lo stesso padre del web, Tim Berners-Lee, ne ha fatto a marzo, in occasione dei 28 anni dalla sua formulazione originaria, il primo punto dei tre da affrontare immediatamente per “salvarlo”.
Quanto a equità e imparzialità, niente di più lontano dal vero. I “Terms of Service”, o “Tos”, mutano continuamente, in modo arbitrario e spesso senza che gli utenti ne vengano a conoscenza. Kristene Unsworth, docente alla Drexel University di Philadelphia, scrive in un recente saggio: «Ci si è chiesti, tra gli accademici e nel mondo degli affari, se l’influsso e l’uso dei Big Data mutino il contratto sociale».
La risposta è affermativa. Raggiunta dall’Espresso, Unsworth sostiene di non essere sicura sia però necessario riscriverlo ?o rigettarlo: «di certo», tuttavia, «c’è bisogno di rivederne gli assunti». E non solo nei confronti di governi e social media, ma «di tutte le organizzazioni che raccolgono, condividono e spesso vendono le nostre informazioni». Con l’avvento dell’Internet delle Cose, in cui ogni oggetto diventa connesso, significa includere strade, città, fabbriche, interi settori industriali che sempre ?più fondano sui dati il loro funzionamento. Basterà qualche correzione in corso d’opera a riguadagnare la fiducia degli utenti? La studiosa è possibilista, risponde che «la fiducia ?è sempre un work in progress». Ma altri sono meno ottimisti.
Secondo Aral Balkan, attivista per i diritti cyborg e spietato ?critico della Silicon Valley, è il modello di business basato sulla registrazione di tutto a rendere impossibile che si presentino le precondizioni per parlare di un contratto sociale, nell’era digitale. «Se consideriamo le tecnologie come una estensione del sé», dice, «ciò che perdiamo consegnandoci all’oligopolio dei colossi web è la proprietà e il controllo di parti di noi stessi». Quando miliardi di vite online diventano possesso di giganti come Google e Facebook, in altre parole, la vittima è la nostra “sovranità individuale”.
«E senza quella come possiamo anche solo parlare di contratto sociale?» A volte, si potrebbe ribattere, gli spossessati si ribellano. Quando WhatsApp, per esempio, ?ha annunciato - contraddicendo ogni promessa seguita all’acquisizione da parte di Facebook - che nomi e numeri di telefono sarebbero finiti d’imperio all’interno degli sconfinati database di Mark Zuckerberg gli utenti hanno protestato. E, facendolo, facilitato il lavoro dei garanti della protezione dei dati, che vi si sono opposti. Risultato? L’azienda si è vista costretta alla retromarcia. Lo stesso è avvenuto quando Google, con il suo assistente vocale Allo, ha cercato di conservare per un tempo indefinito le conversazioni con la app. E quando il servizio ?di musica in streaming Spotify, nell’agosto del 2015, si è improvvisamente accorto di avere bisogno di registrare immagini, file media, dettagli dei contatti e localizzazione dei propri utenti per - apparentemente - fornire loro playlist meglio personalizzate. La rivolta scaturita ha imposto al Ceo, Daniel Ek, un post di scuse, oltre all’impossibilità per Spotify di accedere a quei dati senza previo consenso da parte degli iscritti.
Ancora, c’è il caso di Max Schrems, l’austriaco che da solo ha messo in moto un processo legislativo che ha portato addirittura a ridisegnare le norme che regolano lo scambio dei dati tra l’Europa, dove spesso vengono prodotti, e gli Stati Uniti, dove invece vengono immagazzinati e trattati. Ma sono gocce in un mare in tempesta. Schrems sta lottando per potersi servire ?dello strumento della class action per impedire a Facebook di perseguire pratiche da lui definite illegali, come dimostrerebbe il coinvolgimento del social network nel programma di sorveglianza Prism, rivelato da Edward Snowden. Ma non è affatto chiaro se ?la legge glielo concederà. Ciò che invece le aziende possono già autoconcedersi, ricorda il docente di Digital Humanities a Parigi, Antonio Casilli, è prevedere che i propri utenti rinuncino alla possibilità stessa di ricorrere a class action, semplicemente aderendo alle condizioni di utilizzo dei loro servizi. Il caso paradigmatico è Dropbox, che lo fa da tre anni senza, ricorda, che la giustizia europea se ne interessi. Per Casilli è la dimostrazione che i Tos, contrariamente al contratto sociale, servono principalmente a un solo soggetto: alle aziende, per mettersi al riparo da ogni possibilità di azione legale nei loro confronti.
Un fenomeno non nuovo, ma che le piattaforme digitali spingono alle estreme conseguenze, al punto da rendere le condizioni di utilizzo più simili ai privilegi dispensati dal sovrano nel Medio Evo che a veri e propri contratti. Eppure Casilli non è pessimista: «Anche i privilegi», argomenta, «possono diventare un contratto, nel senso di una obbligazione reciproca, quando ?si inchioda la piattaforma alle proprie responsabilità - che sono indipendenti da quanto sta scritto nei Tos».
Ciò che serve, però, sono alleanze virtuose. L’esempio, qui, è il tentativo di Facebook di connettere l’India tramite il suo servizio Free basics. Un’idea che ha incontrato l’opposizione di una pletora di soggetti - comunità di blogger e youtuber, startup, la stessa autorità per le telecomunicazioni indiana - che insieme sono riusciti a fermare le mire espansionistiche di Zuckerberg. «In quel caso», ricorda Casilli, «non sono state rinegoziate ?le condizioni di servizio: è stato vietato del tutto il servizio». ?Se insomma gli utenti pretendessero davvero regole più comprensibili, partecipate, e maggiore trasparenza sullo scambio di dati tra aziende e governi, forse sarebbe ancora lecito immaginare un contratto social che sia davvero un contratto. Ma la strada è lunga. E ogni minuto si aggiungono ?400 ore di video su YouTube, 216 mila messaggi su Facebook messenger e 222 mila dollari di transazioni Amazon a rendere più difficile percorrerla.