Reggio Calabria, arresti e perquisizioni contro la guida comune di 'ndrangheta e mafia

L'inchiesta di Dda, Ros e Sco, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco ai carabinieri fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Tra gli arrestati Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone

La Dda di Reggio Calabria, il Ros e lo Sco stanno portando a termine gli arresti legati alla strage dei carabinieri del febbraio 1994 lungo l'autostrada fra Bagnara Calabra e Scilla.

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L'inchiesta, anticipata dall'Espresso in gennaio, colpisce la direzione strategica integrata fra Cosa Nostra e 'ndrangheta, unite nel decidere l'attacco all'Arma a cavallo fra la fine del 1993 e l'inizio del 1994, in una fase delicatissima della storia della Repubblica italiana: il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.

In territorio reggino le aggressioni ai carabinieri furono tre, dal dicembre 1993 al febbraio del 1994, con un bilancio di due morti (Fava e Garofalo) e due feriti gravi (Musicò e Serra).

Il passaggio successivo avrebbe dovuto essere ancora più devastante con la strage dello stadio Olimpico a Roma, fallita per un malfunzionamento del telecomando.

Fra le tre richieste di arresto il nome più famoso è quello di  Giuseppe Graviano, palermitano di 53 anni. Il mafioso di Brancaccio, insieme al fratello maggiore Filippo e all'affiliato Gaspare Spatuzza, sono da anni al centro delle inchieste che cercano di fare luce sulla stagione delle stragi. Della sua statura criminale non è lecito dubitare.
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Gli indagati calabresi (Rocco Santo Filippone e il figlio Antonio), invece, sono meno conosciuti, nonostante la lunga anzianità di servizio. Rocco Santo Filippone, 77 anni, è nato ad Anoia, un paesino di 2 mila persone nell'entroterra di Rosarno confinante con Melicucco dove Filippone è stato arrestato.

È la culla della 'ndrangheta, la piana di Gioia Tauro, dove le affinità strutturali fra crimine calabrese e mafia siciliana dei feudi sono assolute. Il volto contadino di questa 'ndrangheta non deve ingannare. I clan della Piana sono in prima linea quando si tratta di rapporti con la politica e di esportazione dell'impresa mafiosa verso il nord.

Negli anni Settanta, il trentenne Filippone si fa strada nelle gerarchie partendo dalla guardiania di un terreno del Bosco in contrada Acquabianca. Il Bosco è la grande zona verde di ulivi e agrumeti fra Rosarno e Gioia Tauro dove il governo Colombo, a seguito dei Moti di Reggio del 1970-1971, ha deciso di impiantare il quinto centro siderurgico.
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Filippone si trova coinvolto come mediatore nella principale saga criminale di quel periodo. È la faida di Cittanova fra il clan Facchineri, già sbarcato nella capitale dove ha stretto rapporti con il cassiere della Banda della Magliana Enrico Nicoletti, e il gruppo rivale Gullace-Raso-Albanese.

La furia dello scontro è però inarrestabile. Ci saranno oltre 30 morti.

Nel frattempo, le vicende politiche si evolvono. Il centro siderurgico viene abbandonato per la crisi dell'acciaio e sostituito con il progetto del porto di Gioia Tauro sul quale presiedono gli uomini della famiglia Piromalli, la cosca più potente della zona, se non la più potente in assoluto.

Con il beneplacito dei re della Piana Filippone organizza il suo gruppo che controlla l'area di Cinquefrondi con i Bianchino e i Petullà e si federa con i Bellocco di Rosarno. È una cosca satellite, non di primo piano, una delle tante che reggono quel territorio con una dittatura feroce e che, come dimostrano gli arresti di un mese fa ordinati dalla Procura di Roma, sbarca il lunario con il traffico di droga.

Il dinamismo di Filippone si esercita anche attraverso i nipoti, figli della sorella che vivono a Reggio. Sono Giuseppe e Francesco Calabrò. Il primo diventa un pistolero: è lui che aprirà il fuoco sui carabinieri Fava e Garofalo. Il secondo si dà all'edilizia insieme al primo cugino, Giovanni detto il marchese, e finirà sepolto con la sua macchina in fondo al porto di Reggio.

Di Filippone non si avranno tracce fino al 2011 quando l'operazione Artù della Dda di Reggio, guidata al tempo da Giuseppe Pignatone, manda in carcere un gruppo di 'ndranghetisti che avevano tentato di cambiare un certificato di deposito falso da 870 milioni di dollari al Credito Svizzero.

Filippone viene arrestato e poi rilasciato. Il processo è trasferito a Bologna per competenza territoriale, visto che il consorzio finanziario-criminale aveva centro in Emilia. Alla fine del 2016 ci sono stati i rinvii a giudizio, con Filippone a piede libero.

Nella riunione plenaria delle 'ndrine all'hotel Sayonara, quando i mafiosi calabresi decisero di ritirarsi dalla strategia stragista, Filippone avrebbe svolto un ruolo di tipo logistico ricevendo i siciliani sbarcati in Calabria per discutere con i colleghi della 'ndrangheta l'attacco allo Stato.

La parte qualificante dell'inchiesta sta però nei contatti con il mondo dell'eversione unificata fra massoneria segreta (loggia P2), servizi di informazione e quell'eversione nera che, dagli ordinovisti fino alla Falange Armata, prese la laurea proprio con i Moti di Reggio del 1970 e divenne, a braccetto con la 'ndrangheta, un interlocutore di spessore per chi desiderava pregiudicare il processo democratico nella fase della strategia della tensione.

È questa la cosiddetta componente riservata della 'ndrangheta dove i confini fra criminali e uomini dello Stato sono troppo spesso spariti.

L'operazione della Dda di Reggio, da questo punto di vista, è ancora incompleta, come gli stessi magistrati lasciano trapelare. Per mettere le mani sui traditori, gli uomini dell'intelligence che hanno aiutato i criminali a insanguinare l'Italia, si rimanda a una fase successiva dell'indagine.

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