Nella capitale della Rivoluzione, tra le vie che hanno visto nascere lo stato occidentale moderno. E oggi sempre pù spesso protagoniste dei fatti di sangue legati al terrorismo

Parigi è la città delle luci e del sangue lavato dalla pioggia nelle rivoluzioni del 1789, del 1830-1834, del 1848, del 1871, del maggio 1968, durante la resistenza ai prussiani e ai nazisti. Nessuna città al mondo ha sopportato quello che ha sopportato Parigi dalla fine del diciottesimo secolo a oggi, crescendo in bellezza.

I turisti, gli stessi parigini che circolano a milioni ogni giorno nelle vene di ferro e cemento della metropolitana, passano davanti all’Hôtel de Ville o a place de la Concorde senza memoria della ghigliottina. Si sdraiano sull’erba ai giardini del Luxembourg dove per settimane i ribelli prigionieri vennero fucilati dalle truppe della guardia nazionale. Passeggiano fra la Bastiglia e il Père Lachaise dove la Comune è affogata nella Semaine Sanglante, con l’ultima difesa in rue de la Fontaine-au-Roi prima di una repressione che fece 20 mila morti. Non immaginano le barricate ai fianchi del Panthéon, appena sopra i bistrot della Montagne Sainte-Geneviève al quartiere latino, o in rue Saint-Antoine, che costeggia da sud i locali alla moda di place des Vosges.

In boulevard Beaumarchais, confine fra il Marais e l’undicesimo arrondissement, ci si prendeva a fucilate un secolo prima che nascesse il concetto di guerra urbana. «Gli insorti», racconta Victor Hugo nei suoi diari, «sparavano dall’alto delle case nuove. Avevano messo alle finestre manichini fatti con balle di paglia rivestite di maglie e berretti. Vedevo distintamente un uomo trincerato dietro una piccola barricata di mattoni costruita all’angolo del balcone del quarto piano dell’edificio di fronte alla rue du Pont-aux-Choux. Mirava a lungo e faceva molte vittime. I soldati e le guardie mobili si erano appostati sui tetti di boulevard du Temple e rispondevano al fuoco».

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Gli impresari funebri dello Stato islamico hanno colpito soprattutto in questa parte della città, il semicerchio orientale, instabile per tradizione, misto per ceto ed etnia, dove rivoluzione e reazione, integrazione e odio si scontrano da oltre due secoli. Hanno assaltato con i kalashnikov i ristoranti dell’undicesimo e del decimo arrondissement. Hanno assassinato a freddo nel raggio di cento metri al Bataclan in boulevard Voltaire, nella redazione di Charlie Hebdo in rue Nicolas Appert, in boulevard Richard-Lenoir all’altezza del quartiere Popincourt dove i fratelli Kouachi hanno sparato sul poliziotto di origine algerina Ahmed Merabet, steso a terra senza difesa accanto a un quadro elettrico che oggi è dipinto con il ritratto dell’agente in bianco rosso blu e la scritta Je suis Ahmed.

Non lontano di qua c’è la casa immaginaria dalla quale un altro poliziotto, il commissario Jules Maigret, usciva nelle mattine di bel tempo per andare a piedi, pipa in bocca, fino al suo ufficio in Quai des Orfèvres.
L’alter ego del suo creatore, Georges Simenon, avrebbe usato il suo “metodo spugna” per capire la nuova Parigi. Si sarebbe seduto in un bar con il bancone di zinco, avrebbe ordinato una birra o un cognac. Avrebbe assorbito le voci, gli odori, i volti. La realtà del quartiere lo avrebbe invaso.

Gli zombie che uccidono e si fanno uccidere sotto la bandiera nera di Daech non hanno contatti con il reale. Ancora meno sono eredi dei conflitti secolari evocati dall’islamofobia militante di Oriana Fallaci o Michel Houellebecq. Sono nichilisti, come dice l’orientalista Olivier Roy. Hanno un legame, momentaneo e pervertito, con la religione che li dovrebbe condurre a una vita eterna full-optional. Ma in qualche modo intuiscono che Parigi è il nemico numero uno nella corsa verso la tenebra.

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Il suo codice genetico porta l’impronta delle rivoluzioni organizzate a beneficio dell’umanità. Questa traccia vive nei cittadini, parola parigina per eccellenza, anche in quelli che sono arrivati da poco e vogliono assimilarsi, perché Parigi ispira il desiderio di dirsi parigini al più presto possibile.

Il processo di inclusione varia secondo i mezzi offerti dalla struttura economica.

Nel semicerchio occidentale dei “beaux quartiers” tutto sembra scorrere liscio. È l’ecosistema dei Guermantes proustiani e del nuovo presidente Emmanuel Macron, che ha tenuto il suo salotto nel bistrot La Rotonde, in boulevard Montparnasse. È l’habitat delle ricchezze d’importazione che hanno spinto i prezzi delle case oltre i 20 mila euro al metro quadrato.

Gli square, i giardinetti pubblici del settimo e del sedicesimo arrondissement, i parchi dei ricchi come Monceau e Ranelagh sono attraversati da bionde mamme post-sovietiche appena scese da una passerella di alta moda e da runners indemoniati che accudiscono il loro record sul chilometro come un parametro finanziario.

Nell’altra metà, soprattutto sulla riva destra della Senna salendo verso la cintura della banlieue, il metabolismo è più complicato.

Dal faubourg Saint-Denis, fra le due stazioni dell’Est e del Nord, si entra nel Subcontinente con i suoi odori di aromi bruciati, di curry e samosa, le oreficerie e i negozi di moda Bollywoodiana.

Al primo incrocio oltre boulevard de la Chapelle si passa in Africa. A destra si arrampica boulevard Barbès con il quartiere della Goutte d’Or. Le strade sono invase di ambulanti. Vendono qualunque articolo, arachidi, sigarette, caricatori per cellulari. Arrostiscono pannocchie su griglie volanti.

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Nella corta stradina dedicata a Boris Vian l’attrezzatura abbandonata da un senza tetto viene ispezionata da un altro senza tetto, caso mai sia rimasto qualcosa di utile. Fra i money transfer e le agenzie di viaggio specializzate in viaggi alla Mecca, ci sono piccole aree dedicate a Zakat al Fitr, l’elemosina islamica che chiude il Ramadan con offerte a partire da 5 euro.

Qui i residenti della Vecchia Europa galleggiano con espressione incongrua. Sono i residui di una classe media migrata altrove, magari dove si possa circolare con una maglietta del Front National senza sembrare ridicoli. Se n’è andato da tempo il benzinaio razzista di “Tchao Pantin”, film monumento sulla Parigi dei primi anni Ottanta interpretato dal parigino di Parc de Montsouris Michel Colucci, in arte Coluche, comico che volle farsi presidente della Repubblica e che recitò con Beppe Grillo in “Scemo di guerra” di Dino Risi.

Sul marciapiede nella zona fra boulevard La Chapelle e boulevard Rochechouart è di scena la ricettazione. Qualche telefonino fresco di furto passa di mano in mano dalla stazione del métro aérien dove corre la linea 2 e dove c’è voluto un rinforzo nei controlli di polizia dopo un articolo di Le Parisien che denunciava molestie pesanti alle donne.

I soldati pattugliano le strade a gruppi di quattro, due in avanguardia e due in retroguardia. Salgono in formazione a quadrato verso rue de Clignancourt dove, semplicemente attraversando la strada, si torna in Europa, ai café-terrasse, alle librerie, ai pullman gran turismo di Montmartre.

Il semicerchio est e il semicerchio ovest della città hanno confini precisi. Ma la barriera più netta è l’autostrada del boulevard periphérique verso nord-est dove inizia il dipartimento di Seine-Saint-Denis, il famigerato 9-3. Ci sono le villette eleganti di Drancy, il paesino dove gli ebrei venivano concentrati prima di essere spediti verso i campi di sterminio, e poco più in là le stecche degli Hlm (case popolari), le donne velate, il ghetto ultima versione. Qui vivono gli esclusi dell’isolazionismo parigino, storico anche questo. L’archeologia parigina è una progressione di cinte murarie da Filippo Augusto a Carlo V fino ai bastioni dei Fermiers généraux.

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L’equivalente delle Corti dei Miracoli dove nel Seicento vivevano gli emarginati è il campo di raccolta degli immigrati a porte de la Chapelle. La bolla, lo chiamano. È l’unica zona di questo genere nella capitale, a immagine e somiglianza del girone infernale di Calais. Il noctilien, il bus notturno in arrivo dall’aeroporto di Roissy, naviga per qualche secondo dentro la bolla fra gente che mangia, vende, contratta, gioca, suona, litiga.

La pressione dei migranti suscita reazioni opposte. Ci sono gli aiuti dei volontari delle ong e la solidarietà di quartiere. C’è l’odio di chi, d’inverno, butta acqua davanti ai portoni per farla congelare e impedire ai senza tetto di sdraiarsi.

Servirà tempo, quel tempo che la politica non ha perché l’elettore vuole risultati subito, non nel processo eterno dell’integrazione fra umani.

È egoista, il cittadino. Se ne lamenta un vecchio di origine araba, alla stazione del metro Saint-Augustin. È già il terzo treno che non riesce a prendere perché la gente non lascia spazio. L’egoismo, appunto. A lui piaceva Hollande ma gli egoisti hanno preferito Macron che – non serve traduzione - «les enculera». Mentre è in arrivo il quarto treno, meno egoista o soltanto più vuoto, fa in tempo ad aggiungere che è pensionato e prende 924 euro al mese. Impossibile viverci, ma lui non ha mai rubato e non comincerà adesso.

Parigi è fiera perché la sua gente è fiera. È ostile, ospitale, egoista, altruista. Non cambia il suo modo di vivere. Ogni giorno i cittadini salgono sui treni. Usano la massa come un getto d’acqua per lavarsi dall’angoscia. Al Bataclan la musica continua. Tutto il quartiere Popincourt fino alla Bastiglia, rue Keller, rue de la Roquette, è affollato di locali. Il Bois de Vincennes, vicino al supermercato Kasher dove Amedy Coulibaly ha fatto strage di ostaggi, si riempie di tovaglie da picnic appena il tempo lo consente. Sul margine del grande parco orientale, bilanciato a ovest dal Bois de Boulogne, c’è il Museo dell’Immigrazione della Porte Dorée dove è di scena un’esposizione dedicata ai “ritals”, gli italiani venuti in Francia e a Parigi in cerca di lavoro. In principio erano minatori che il governo sabaudo, e poi repubblicano, vendevano al governo francese in cambio di 200 chili di carbone a persona.

Anche a loro storia è fatta di sangue e di contrasti violenti. L’accoglienza non era sempre amichevole. «Bisognava difendersi», ricorda in un video di trent’anni fa Lino Ventura, il lottatore di Parma diventato una leggenda del cinema francese a fianco di Jean Gabin.

Bisogna difendersi anche adesso da un nemico che tutti possono identificare. Sui muri di Belleville si legge “Paris est insoumis”. Parigi non si sottomette. Non lo ha fatto mai.

Gianfrancesco Turano è nato a Reggio Calabria. Scrive sull’Espresso ed è autore di saggi e romanzi. Il più recente è “Contrada Armacà” (Chiarelettere).