Dopo la nostra inchiesta sui problemi dei tribunali italiani, l'intervento di due garanti dei detenuti. Che puntano il dito sulla presenza di norme che intasano le Aule e un sistema carcerario che non svolge il suo compito

Caro direttore,

abbiamo apprezzato la scelta di dedicare la copertina dell’Espresso del 24 settembre alla questione della giustizia, alla sua crisi e ai possibili rimedi. Il nodo, che ha a che fare con la democrazia e con lo stato di diritto, non è nuovo.

Da decenni, da diverse posizioni di responsabilità e di impegno, siamo sensibili alle ragioni del diritto penale minimo e del garantismo. Posizioni tacciate di illuminismo e di astrattezza mentre in questi anni prevaleva un sostanzialismo giuridico che ha prodotto giustizialismo panpenalistico.

Le ragioni hanno radici profonde e vengono da lontano. Ci piace ricordare due volumi fondamentali del giurista democratico Achille Battaglia pubblicati da Laterza, “Processo alla giustizia” nel 1954 e “I giudici e la politica” nel 1962.

InGiustizia
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28/9/2017
Il baco, avrebbe detto Ernesto Rossi, sta nella incomprensibile (o comprensibilissima?) scelta della Repubblica di non cancellare il Codice penale del 1930, il più fascista dei codici, secondo la definizione del guardasigilli Alfredo Rocco. D’altronde c’è poco da stupirsi se pochi anni fa nella Aula del Senato la ministra della Giustizia Severino poteva impunemente tessere l’elogio di Rocco, teorico dello stato etico e autoritario.

Sono cambiati i problemi? Certo, ad esempio se gli omicidi nel 1949 erano 2770, l’anno scorso erano meno di 500. La percentuale di impunità negli anni cinquanta si attestava sull’80 per cento.

La lunghezza dei processi nel penale e nel civile è un dato di fatto che sembra irrisolvibile, nonostante razionalizzazioni tecniche che non paiono essere risolutive, dall’istituzione del giudice di pace all’accorpamento delle sedi di tribunale. Neppure l’introduzione di riti alternativi e di alternative al processo hanno risolto le difficoltà e hanno sciolto la montagna di arretrato. Sarebbe necessaria una analisi approfondita soprattutto nel civile, scavando sulle abitudini del settore pubblico di alimentare cause inutili e seriali per vertenze sugli stipendi e sulle pensioni.

Comunque alcune questioni devono essere prese di petto, dalla prescrizione alla materia cautelare, dal giudizio di legittimità alle intercettazioni. Ma, nel penale la verità è che la situazione è così grave perché in questi anni vi è stato un aumento abnorme di norme incriminatrici, di fattispecie criminali legate alle continue emergenze. Altro che riforma del codice penale!

Tra tutte, la più importante, la legge sulle droghe che dal 1990 quando fu approvata la legge Iervolino-Vassalli, fortemente voluta da Bettino Craxi, aggravata dalla Fini-Giovanardi nel 2006 ha intasato le aule di giustizia.

Basta leggere i dati che abbiamo pubblicato con la Società della Ragione e molte altre associazioni negli otto Libri Bianchi sugli effetti della legge proibizionista. I numeri dei carichi pendenti, delle denunce, degli ingressi in carcere, delle presenze nelle galere, delle segnalazioni ai prefetti danno l’idea plastica di una repressione di massa e di processi che troppe volte sono finiti in suicidi di giovani che non hanno retto la stigmatizzazione o in tardive assoluzioni come nel processo agli organizzatori del festival reggae Rototom.

È un peccato che la lettera che Lirio Abbate ha voluto rivolgere al ministro Orlando non sfiora neppure la complessità di questi problemi, quelli della realtà del carcere e dell’esecuzione penale, ma che ponga come centrale un problema poco più che corporativo, come quello di una ennesima riforma della polizia penitenziaria.

Una proposta che confonde l’esecuzione della pena con le funzioni e i controlli di polizia e che, giustamente, non ha avuto alcuna considerazione negli Stati generali dell’esecuzione penale cui ha partecipato l’intero mondo che si occupa di queste cose in Italia. Addirittura Lirio Abbate propone l’ampliamento di competenze dei GOM, il reparto dedicato alla gestione dei detenuti in regime di 41bis, come se fossimo in uno stato di polizia con un sistema carcerario interamente improntato alla massima sicurezza.

Per riformare il carcere c’è bisogno di direttori capaci e adeguati allo spirito degli Stati generali, di educatori e di assistenti sociali negli uffici dell’esecuzione penale esterna.

Al contrario di Abbate, noi siamo consapevoli che vi è un legame tra la giustizia e il carcere, nel senso che la galera è la discarica sociale che raccoglie le scorie prodotte da una giustizia di classe, formate da consumatori, di droghe tossicodipendenti, poveri, stranieri, emarginati, ma la risposta non può che essere la limitazione della risposta carceraria e l’affermazione dei diritti, civili e umani per gli ultimi.

Come garanti e come rappresentanti delle associazioni che si battono per l’abolizione dell’ergastolo e la modifica del 41bis, siamo disponibili a organizzare con L’Espresso, erede della tradizione laica e della cultura democratica, un convegno per ripartire da Cesare Beccaria e non da Bava Beccaris.

Stefano Anastasia è il garante dei detenuti del Lazo e presidente della Società della Ragione. Franco Corleone è un blogger dell'Espresso sui temi della giustizia ed è garante dei detenuti della Toscana

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