Viaggio nei Balcani sulle orme di Pedrag Matvejević e del suo 'Breviario Mediterraneo' (Illustrazioni di Eric Pujalet-Plaa)
Dobrodošli. È bastata una parola. È bastato leggerla su un cartello - leggerla a Zara - per ricordare. Avevo studiato una lingua, vent’anni fa! Ma era come se l’avessi cancellata, rimossa. Dove sono andati a nascondersi i rudimenti di serbocroato - appresi nella stanzetta spoglia di un’associazione culturale a Ciampino? Dove erano finiti, in quale pozzo delle dimenticanze, dobar dan, dobro ve?e, buongiorno, buonasera, molim vas, per favore, grazie, prego, arrivederci? Sapevo leggere e dire frasi, sapevo chiedere “come stai?”, e mi faceva ridere: kako si? “Dobrodošli, Dalibor”. “Kako si, Dalibor?”. Un saluto che si utilizza quando arriva qualcuno: dobrodošli. “Benvenuto”. Così, era stato scritto in serbocroato e in italiano, a grandi lettere rosse, su uno striscione. Era per lui, per loro: quando sono scesi dal pullman, in uno spiazzo vicino alla stazione. Un gruppo di ragazzini senza famiglia, o con famiglie spezzate, dimezzate dalla guerra.
Dalibor! Se è vero che il tempo scorre allo stesso modo per tutti, ora dovrebbe essere più o meno mio coetaneo. Ho assistito a un solo segmento della sua vita; lui allo stesso della mia – un’estate, un mese e mezzo dell’estate del 1995. Poi, più niente. Poi non l’ho cercato, non gli ho scritto, non ho chiesto sue notizie a nessuno. Al momento, non saprei nemmeno dire perché. Non riesco a determinare la ragione di una immediata indifferenza. Eppure, per quel mese e mezzo, si può dire che fossimo diventati amici, amici come lo diventano a dodici anni due maschi che, dal non essersi visti mai, passano a vedersi tutti i giorni, a condividere – da colazione a cena – il tempo vuoto delle vacanze da scuola; e anche la cameretta, la mia, e i vestiti, quando serviva. Potrei cercarlo su Facebook, ma non mi va. Ricordo il suo cognome e, benissimo, il suo viso – un certo modo di stringere gli occhi e di piegare la testa, di lato, quasi a toccare con il mento la spalla destra.
Né l’ho cercato nei luoghi. Non avrei potuto – e non ero partito per quello. Ficcate in valigia magliette, mutande e un paio di libri, ho scoperto la Croazia come la scopre un turista balneare. Un treno che ferma a Rovigno, Rovinj, dove tutto pare una sghemba prosecuzione dell’Italia; e il cameriere istriano ti prende per il culo da subito. ’taliano? Bravo. Spostarsi in pullman a Pola – un piccolo albergo accanto all’arco romano ricorda il soggiorno di Joyce da queste parti: inizio Novecento, professore di inglese per ufficiali austro-ungarici. Da Pola a Zara in traghetto, partenza all’alba – avvolte in una foschia rosa, le cose non hanno ancora riguadagnato i contorni. Riprendi a dormicchiare con la bocca impastata, apri gli occhi, chiudi di nuovo, apri ancora, c’è solo mare. L’Adriatico – nominato all’inizio del breviario che ho portato con me. Le pagine si sono gonfiate di acqua salata, e questo mi piace. Breviario mediterraneo, Predrag Matvejevi?. Usciva trent’anni fa esatti, ci ha insegnato a guardare in modo diverso il mare che diciamo nostro. So che non ci pensano i miei rilassati, distratti compagni di viaggio – il ragazzone che si allunga sui sedili, strappa via un lembo di stoffa poggiatesta, se lo piazza sugli occhi, la fidanzata gli si stende addosso, la testa fra le gambe di lui. Più assonnata che sensuale. “È difficile indovinare il vero colore del mare”, leggo. “Ce ne sono tanti, vari, irraggiungibili. Lo definiscono solitamente azzurro, ma non lo è sempre”.
Zara, Zadar, quando arriviamo, è un corridoio di luce bollente che si sviluppa lungo il porto. La temperatura sfiora i quaranta. Ti trascini dietro il trolley e ondeggi – un’ubriacatura solare che falsa le prospettive, e rende più lunga l’attesa: il proprietario dell’appartamento non arriva. Viene quasi da pensare male, la facciata dello stabile è malmessa, i vetri alle finestre, pieni di crepe, specchiano il palazzo di fronte in totale abbandono – erbacce e rampicanti si sono presi la stessa libertà che su un rudere. Il proprietario arriva, ciondola con il casco in mano e due bottigliette d’acqua fresca. Il bagno è piccolo, mette le mani avanti nel suo inglese spezzato, giocoso, ma fate conto di stare in barca. Nel cortile comune passa una donna vecchissima, trascinandosi in pantofole, praticamente piegata in due. Stende i panni con lentezza esasperante, poi sparisce. Ridiamo fintamente spaventati, poi facciamo l’amore con l’ansia che riappaia, o bussi ai vetri, o chissà.
Il Breviario me lo riporto al molo, riprendo da dove ho lasciato, e guarda caso dice – pagina 26, ho lasciato il segno poco prima – che i moli sono i più fedeli difensori dei porti. “I moli mostrano, fra l’altro, come il semplice deposito, il luogo dello scarico e del carico, gli attrezzi e gli altri servizi non costituiscono l’intero porto. Le bitte che vi si trovano, logorate dall’azione delle funi, sono testimoni degli avvenimenti portuali: degli arrivi e delle partenze, delle operazioni di attracco e di scioglimento”. Mi tuffo, è il primo bagno. L’acqua sembra pulita, non lo è. Un chilometro più avanti, il suo movimento determina un suono curioso, un gorgoglio che diventa musica. Lo chiamano Organo marino, trentacinque canne che le onde fanno suonare notte e giorno. La folla aspetta il tramonto – uno dei più belli al mondo, c’è chi dice; i telefonini, in cima a braccia tese, catturano luce. Un ragazzo si inginocchia e chiede a lei di sposarlo, le offre l’anello, si alza, si inginocchia di nuovo. C’è una tale confusione che in pochi ci fanno caso. Era da tanto che ci pensavo, dice lui in spagnolo. Dall’abbraccio pare che lei abbia accettato. A cena, quando leggo - sui menù piantati all’ingresso - la parola dobrodošli, all’improvviso mi ricordo.
Così mi porto dietro la pulce nell’orecchio, mi porto questa parola fino a Spalato, Split. Il Breviario offre un’immagine del vecchio porto e del palazzo di Diocleziano in una stampa del diciottesimo secolo. Sono alle pagine, bellissime, in cui Matvejevi? parla di nomi - i nomi del mare. Gli slavi del sud continuano a chiamarlo more, nome neutro. Incontrando i greci hanno sentito chiamarlo thalassa: “e in questo modo cominciarono a chiamare le onde, il mare quando è agitato”. Come lo è oggi pomeriggio, scuote il traghetto che ci porta sull’isola di Hvar. Anche le isole cambiano nome, dice il mio breviario. L’autore si definisce “insulomane”, è una malattia che la scienza medica non ha classificato: colpisce chi anela all’esistenza insulare, chi non resiste a questi piccoli mondi circondati dall’acqua. A Stari Grad, Hvar, accanto a giapponesi giovani che mangiano pesce fuori orario, ordino una rožata, una sorta di budino chiaro. Sfoglio ancora il Breviario, mi accorgo che l’autore è nato a Mostar, non ci avevo fatto caso. Madre croata, padre russo, anagrafe bosniaca. Scrive di mare anche se è nato lontano dal mare. Dopo la sua morte, nel febbraio scorso, il Ponte di Mostar l’hanno illuminato con una luce blu, un blu mediterraneo, mentre un trombettista suonava le note malinconiche di Delo Jusi?.
La deviazione, a questo punto, è decisa. Affittiamo una macchina, una mattina dopo avere dormito poco e male. Un lunghissimo tratto di autostrada deserta. Due o tre controlli alla dogana. Un paesaggio collinare, di campagna – passano i pullman di pellegrini diretti a Medjugorje. La vacanza cambia volto in due ore, i turisti balneari parcheggiano all’asciutto sotto lo scheletro di un palazzo. Camminiamo per Mostar senza una direzione. Poi cerchiamo il Ponte, e sbagliamo strada. E Mostar è questa strana città di ruspe e cantieri che sembrano fermi. È la terrazza dell’Hotel Bristol con i tavolini tondi pronti per prendere un caffè affacciati sul niente, su quello che resta di un palazzo sventrato, una carcassa di mattoni. Una donna tossisce di fastidio quando fotografiamo macerie. Un’altra, invece, si sposta, sorride, lascia fare – come fosse un parco a tema, una Disneyland della storia di fine Novecento. “Don’t forget ’93” dice un murale – ma, pure volendo, come si fa a dimenticarlo? Un piccolo cimitero accanto a una moschea è fitto di lapidi che hanno per data di morte tutte la stessa. 1993. I fratellini Alena e Smajo avrebbero la mia età. Sono morti quando ne avevano appena dieci.
Così, dal pozzo della dimenticanza, torna fuori Dalibor. Coetaneo loro e mio, sopravvissuto alla guerra di cui Mostar porta ancora i segni. Ogni volta che vedeva sul giornale o in televisione la faccia paffuta di Miloševi?, Dalibor faceva il gesto di imbracciare il fucile e sparare, e con la bocca il rumore di una mitragliata. Non sapevo, non capivo quasi niente di quella carneficina, erano nomi slavi e città sfasciate, facce annichilite di bambini nei campi profughi. Dalibor era venuto per passare l’estate con una famiglia italiana. La prima sera non diceva niente, si era chiuso subito in bagno, gli ho bussato per entrare, si stava facendo la doccia vestito. Perché l’ho dimenticato? Perché per così tanto tempo non avevo più pensato a lui? Il suo piccolo e magro corpo snodato, i salti sul letto, le cuscinate, la richiesta di sapere le parolacce in italiano. E io che gli mentivo. E io che a volte sentivo salire la gelosia di condividere con lui le attenzioni dei miei. Poi, me ne vergognavo.
Si può arrivare in un luogo senza cercare nessuno, per poi accorgersi che qualcuno lo stiamo cercando. Tra i campanili e i minareti di Mostar, tra le donne velate intorno al Ponte – uomini in costume si tuffano chiedendo soldi. Le bandiere dicono ancora “Mostar croata”. Certi portafogli di stoffa, in vendita nei baracchini, hanno l’immagine del maresciallo Tito. L’acqua del fiume è verde smeraldo. Dai manifesti, donne seminude promettono qualcosa. Dalibor, su questo, dava l’impressione di sapere qualcosa in più - in più rispetto a me di sicuro: lo capivo dal modo malizioso come rideva.
Si può arrivare in un luogo senza sapere di cercare qualcuno. Vedo, seduto a un angolo di strada, un bambino che si muove a scatti e parla da solo, emette un suono strano, senza sosta, pa-pa-pa-pa. Non ho idea di dove sia Dalibor, forse nemmeno più in Bosnia. Che si ricordi o no di me, non voglio saperlo. Sarebbe triste la risposta? E d’altra parte, io l’avevo quasi dimenticato, insieme a quel poco di lingua appresa al solo scopo di parlargli. Non mi torna mezza parola, e penso che è strano ritrovare un lampo dei propri dodici anni a settecento chilometri da casa. Ho rifatto al contrario il suo viaggio - a vuoto, fuori tempo massimo, nel mio privilegio stupido di turista balneare finito per caso fra le colline brulle di Mostar.
Lasciando Spalato, per mare, risento come nelle orecchie la voce scritta di Matvejevi? – quando dice che l’età del molo si misura dallo stato delle bitte, o da quanto ne è rimasto. E poi quando dice che la città restituisce al porto un po’ di quel che ne ha ricevuto, “per poter essere qualcosa di più di quanto sarebbe senza di esso”. Funzionano così gli incontri della nostra vita? E tuttavia, anche un porto da carico, dice, può diventare il porto dell’oblio.
Paolo di Paolo è nato nel 1983 a Roma. È autore tra l’altro dei romanzi “Dove eravate tutti”, “Mandami tanta vita”, “Una storia quasi solo d’amore”, tutti nel catalogo Feltrinelli. È tradotto in diverse lingue europee.