"Non se lo aspettava che fosse così grandioso, svegliarsi a New York. Come, più che ricordare la sensazione che si prova quando si arriva a metà esatta del Brooklyn bridge, cioè quando si piomba nel conosciuto, nell’immaginario, nel già visto, rappresentato, disegnato, detto". Prosegue il nostro viaggio nelle città viste dagli autori

Se ci pensa adesso, dice che è stata la zuppa di cipolle più buona che avesse mai mangiato, e la migliore zuppa di cipolle che avrebbe mai mangiato negli anni a venire, finché non ha smesso di mangiarle perché è diventato troppo angosciante doverla digerire. Se si concentra, riesce a ricordare perfettamente il leggero scricchiolio che la crosta di formaggio fece sotto il colpo del suo cucchiaio. Come un guscio dischiuse l’aroma caldo delle cipolle, il loro colore bruno. Ricorda la birra che ci ha bevuto su, ma soprattutto, più di tutto e per sempre adesso ricorderà la sensazione perfetta: essere felice senza pensarlo.

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Sorride, forse sorride impercettibilmente, sia chiaro: poco poco si increspano gli angoli della bocca, ma dentro di sé sorride compiaciuto. Si dice “sostituire le madeleine con la zuppa di cipolle è dei migliori” , ed è soddisfatto, perché vantarsi fa bene alla salute. Ma subito, appena pensa questo: come se l’intelletto fosse la peggiore delle insidie, la trappola: si intristisce. Allora no, presto: scaccia via questo compiacimento e torna ad affondare il cucchiaio nella zuppa, alza gli occhi: accanto a lui c’è il suo migliore amico, Nico. Questo lo aveva capito con il tempo, perché poi chi è più signore di tutti? Chi è se non il tempo che davvero può incidere sulla targa d’ottone della nostra porta l’onorifico affianco al nome delle persone? Allora adesso lo può dire, e lo ricorda bene: sollevò gli occhi e alla sua destra rideva l’amico che non l’avrebbe mai lasciato negli anni, pure con lunghe pause, quello che ci sarebbe stato, sarebbe accorso, e gli avrebbe mandato ogni tanto, senza nulla in cambio, un saluto: perché le persone, quando si vogliono bene, ogni tanto devono dirsi: guarda che ci sto. E lui c’era quella sera e rideva, se lo ricorda: colorato di blu dalle luci del Blue Note .
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Era stato per un caso: la persona che li ospitava sulla seconda ne capiva di musica, e aveva scovato quella mattina stessa la notizia del concerto su Time out . Cercava una cosa qualunque da fare e aveva trovato la cosa migliore da fare, aveva riservato loro i biglietti, e li aveva spediti a ritirarli prestissimo. Era la loro ultima notte a New York, ma non c’era stato mica il tempo di contare le ore. Le ore a Manhattan non si contano, come gli incroci delle strade, si attraversano finché non si arriva all’angolo giusto, e quando si dice giusto, lì: significa l’angolo giusto del mondo. Non serve a nulla dire dello skyline la prima volta che compare uscendo con il taxi dal Midtown tunnel, forse è meglio ricordare l’alba del primo giorno, quella del jet leg: si erano abbattuti, appena arrivati, su due lettini gemelli in una bella stanza. Lui era distrutto, e stendersi lungo su un letto gli parve un miracolo, prendere posizione supino dopo tutto quel rattrappirsi sul seggiolino dell’aereo. E si era addormentato subito, sentendo scorrere incessanti le auto e le sirene lì giù, nonostante fossero al diciottesimo piano, dappertutto era New York. Nico aveva preso le gocce, e bene aveva fatto. Dormiva ancora. Lui invece era lucido e sveglio incomprensibilmente, come se avesse dormito otto ore. Erano solo le cinque e a piedi nudi si era accostato ai grandi vetri della stanza: e allora aveva visto la corona bianca dell’alba apparire sull’Hudson. I grattacieli stagliarsi in controluce, ma i grattacieli della prima : quelli di mattoni cotti, con i contorni a zig zag, quelli che non devono sfidare il cielo, bensì la fisica, non verso l’alto ma verso la fantasia. I grattacieli umani e bellissimi fatti dagli uomini per gli uomini erano lì davanti a lui nell’alba, e una lingua lucida d’acqua si snodava tra di loro. Non se lo aspettava quel momento che sarà per sempre solo suo, l’amico fidato a dormire nella stanza, e tutta una giornata che promette davanti. Non se lo aspettava che fosse così grandioso, svegliarsi a New York. Come, più che ricordare la sensazione che si prova quando si arriva a metà esatta del Brooklyn bridge, cioè quando si piomba nel conosciuto, nell’immaginario, nel già visto, rappresentato, disegnato, detto, forse vale la penna, ora, di ricordare il tramonto atteso da Dumbo, su una panchina di un parco pubblico che quasi vibra per il flusso di auto e camion e metropolitane da qui e da lì, da una sponda all’altra. E invece starsene con una birretta fermi a guardare. Luce, birra, stare, Manhattan bridge, Brooklyn bridge, Nico.

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Si concentra su questo, adesso, semisteso nella poltrona, mentre il medicinale cammina tra le sue vene.
Quel pomeriggio a Dumbo, in cerca di nulla. E più che quanto sia eccitante Times square gli viene in mente la sensazione di sicurezza profonda che dà Grand Central. È come essere al centro di un grande nodo, dove è possibile incontrare tutti, perché ognuno prima o poi passerà di qui. Dove tutto è contemporaneo: accade nello stesso istante in cui stai vivendo. Ha poco senso dire degli scaffali di Shakespeare and co o del pellegrinaggio, dovuto, su Coney Island, quando quello che vuole ricordare adesso è la gentilezza con cui gli davano le indicazioni, sforzandosi di farsi capire se il loro americano era accidentato. Anzi: il new yorkese non può mai essere accidentato perché arriva da tutto il mondo per incontrarsi: è già la koinè dell’umanità, come può essere un limite se la sua ragion d’essere è di superare i limiti? Ricorda quegli stessi uomini affrettati bloccarsi, come se avessero smesso il loro cammino, non dovessero più sbraciarsi a prendere il taxi, e dedicargli lunghi minuti per aiutarlo. Sì Harlem. Sì il Chrysler bianco rosso e verde - e non è una coincidenza che loro siano lì proprio in quella settimana - ma più di tutto: scoscendere una roccia confitta a Central park, un meteorite? (Sitting alone in the dark of night I was most afraid to the light How many times do you see a shooting star From earth and wonder who you are I saw an asteroid fall and hit the ground I was there and it didnt make a sound )* per piazzare la macchina fotografica all’altezza giusta, far partire l’autoscatto e poi, in dieci secondi nove, otto, risalirla sette sei, per restare intrappolati nell’immagine: lui, Nico, e sopra di loro il cielo di New York, click.

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E fu così vagabondando che dalla sesta erano arrivati al Village: l’unico posto che rinuncia all’ortogonalità per precipitare in Europa. Casette basse, giardinetti, tavolini sui marciapiedi all’ombra per bere il caffè, un negozio di seconda mano dove per 50 dollari ha comprato una bella borsetta in bachelite alla sua fidanzata del momento (in pensione come lui, perché questo viaggio è stato solo una dozzina d’anni fa), e quella fila ordinata fuori al Blue Note per ritirare i biglietti, confermare il tavolo, con così tanto anticipo che ci fu il tempo di andare nel sexy shop di fronte, ma solo per guardare e capire, riderne un poco, di tutta quella dipendenza, costosa anzi, e dirsi che per fortuna la liquidazione arriva quando tutti quegli ammennicoli non ingolosiscono più. Tutto ai figli, e per sé aveva tenuto solo trentamila euro.

E se uno lavora una vita sana e non ha neppure trentamila euro da spendere per morire.
- dici che sono un privilegiato? - chiede a Nico, mentre assaggia il vino
- cazzo ma da quando in Svizzera fanno il vino?- risponde Nico, poi gli risponde davvero: - credo che la morte ti metta in uno spazio di ingiudicabilità, quindi da domani nessuno potrà dire più se è un privilegio o meno avere trentamila euro per morire. Però adesso sì: sei un cazzo di privilegiato di merda, e offri tu. -
Quando l’infermiere arriva li trova con i bicchieri di vino in mano, si sorridono divertiti, parlano della morte di Seneca dandosi l’un l’altro del megalomane.
- Hai già deciso cosa penserai? - gli chiede Nico, e sarà l’ultima cosa che si dicono per sempre
- Improvviserò-
- Allora sarà un pensiero jazz-

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Milano è un cortile che ha visto tutto
10/7/2017
Finita la zuppa di cipolle ritirarono i piatti: da adesso si poteva solo ordinare da bere. Erano seduti in basso rispetto al palco, ma molto vicino, era una buona posizione, le luci sui tavoli si spensero, restò accesa solo la scritta a neon blu, ed entrò Carla Bley: sembrava disegnata. I capelli corti, foltissimi, immobili biondo platino, quasi una scultura sulla testa, entrò con un fare antico, come una che mette la chiave nella serratura della porta di casa e rientra nelle stanze che ha arredato, aspettandosi di trovare ciò che trova. Spiritosa e informale come la gente di New York presentò la Liberation Orchestra, e poi, senza dire altro si sedette al pianoforte. Steve Swallow somigliava a Moravia. Comandava lei. Parlava lei, decideva lei, la musica l’aveva scritta lei: aveva davanti è un’intera partitura: entro quello spazio di libertà che lei concede loro, sono liberi. Ogni tanto Nico alzava la macchinetta fotografica e scattava nell’aria, anche se non si sarebbe potuto - gli artisti erano stati chiari - anche se non sarebbe venuto niente senza flash, e infatti poi non ne venne fuori nulla, solo una macchia di neon acceso blu in cui loro - ma nessun altro - riuscirono sempre a leggere.

Gli scrittori
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14/7/2017
A desso l’orchestra aveva ripetuto il tema già abbastanza volte perché perfino Nico avesse capito e riuscisse a seguire, adesso anche lui si aspettava la nota successiva, e invece proprio adesso si alzò in piedi la prima tromba e cominciò a suonare la sua parte senza nessun altro attorno e la suonò uguale e nuova, regolare eppure intima. E quando sembrava la fine non era la fine perché poi si alzò in piedi il sassofono e rifece la stessa musica di prima, solo che già era diversa e continuarono così tutti, finché perfino il batterista scavò nelle percussioni, affinché cacciassero la stessa aria con l’unica possibile variante concessa dai piatti e dai timpani. E quando poi fu il momento del contrabbasso pensò che tutto nella vita era ancora possibile.

Sorride, forse sorride impercettibilmente, sia chiaro: poco poco si increspano gli angoli della bocca, ma dentro di sé sorride compiaciuto. Resta accesa solo la scritta a neon Blue Note.

Valeria Parrella è nata a Torre del Greco. Autrice di romanzi, racconti e testi teatrali, il suo ultimo libro si intitola “Enciclopedia della donna” (Einaudi).

Copyright 2017 Valeria Parrella / Agenzia Santachiara