Rugarli, che è ingegnere strutturista e sviluppatore di software, ha pubblicato parte dello studio sul suo blog (http://castaliasrl.blogspot.com). Secondo i membri della commissione ispettiva del ministero delle Infrastrutture, che hanno potuto visionare alcuni filmati del crollo sequestrati dalla Procura di Genova, il collasso del viadotto potrebbe essere cominciato proprio dal cassone pluricellulare. Un ulteriore video, pubblicato su Youtube e segnalato dal nostro lettore Marcelo Claudio Steccanella, dimostra che il piano autostradale vincolato al pilone numero 9 aveva subito una forte variazione di livello già diciassette ore prima del disastro. Sintomo di una probabile modifica della struttura orizzontale, per una progressiva rottura dell'armatura interna o dei tiranti di acciaio che sostenevano l'autostrada o di una mensola di appoggio, oppure di una combinazione di tutti e tre i fattori.
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Cominciamo dal video. Alle 18.11 di lunedì 13 agosto la telecamera di un motociclista filma il passaggio sul ponte Morandi lungo la corsia Sud, direzione Genova. I punti di appoggio dei segmenti di autostrada che compongono il viadotto sono coperti da giunti metallici. Lo scooter li supera senza particolari sobbalzi. Ma quando passa sopra il giunto che collega il resto del ponte con il piano autostradale della pila 9, quella che la mattina dopo crollerà completamente, la telecamera registra un forte salto: come se le ruote stessero scavalcando un sensibile dislivello.
L'ampia fessura lungo il cordolo sinistro sotto la barriera laterale di cemento, che è anche lo spartitraffico tra le due carreggiate, suggerisce un abbassamento del piano stradale proprio in quel tratto. Poco più avanti, in corrispondenza dello strallo-tirante “lato mare-lato Genova” che sostiene parte del ponte, si nota anche una crepa longitudinale nell'asfalto di circa due metri: dalle riprese però non è possibile determinare se si tratta di un banale deterioramento del manto stradale o dell'effetto delle tensioni distruttive che probabilmente stavano già modificando la stabilità del viadotto, portandolo a superare il punto di non ritorno.

«Le foto lo indicano chiaramente che di acciaio ce n'era pochissimo, che i cassoni dell'impalcato erano sottilissimi», spiega Rugarli nella sua ricerca, scritta con linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori: «E il professor Riccardo Morandi di aver usato poco acciaio dà precisa notizia considerando questo, evidentemente, un buon risultato». La sua opera è invece crollata «come una costruzione di biscotti, spezzati uno dopo l'altro».

Questo non significa che i limiti progettuali del ponte sul torrente Polcevera assolvano la società di gestione "Autostrade per l'Italia" di fronte al dovere di garantire un'adeguata manutenzione. L'inchiesta della Procura è tuttora in corso e i documenti pubblicati da “L'Espresso” hanno dimostrato presunte gravi lacune. «Da questo crollo», continua però Rugarli, «noi dobbiamo trarre tutti i necessari insegnamenti... Abbiamo il dovere di dire che nello spingere il risparmio di materiale al massimo e nel concepire sistemi così fragili, Morandi era suo malgrado un cattivo maestro e la sua ingegneria nel viadotto Polcevera era, suo malgrado, una pessima e mal riuscita ingegneria. Nessuno deve progettare in questo modo».
I tiranti-stralli di calcestruzzo del pilone crollato non erano quattro, come spesso è stato detto, ma due: un unico fascio di cavi di acciaio a monte e uno a valle li attraversava per tutta la lunghezza del “sistema bilanciato”. «Il fatto che vi fosse continuità su ciascun lato voleva dire che un qualsiasi problema a un trefolo (i fili di acciaio che compongono i cavi), in qualsiasi punto lungo i suoi 180 metri di sviluppo, si sarebbe trasformato nella totale inattivazione del trefolo. Quindi tutto il vitale sistema che sorreggeva il ponte-biscotto era un unico sistema e un danno in un qualsiasi suo punto avrebbe inattivato la parte attaccata lungo tutto il suo sviluppo».

L'effetto della struttura è quello di un insieme arco-freccia: la freccia è la pila di sostegno conficcata nel terreno novanta metri più sotto, l'arco il piano autostradale, la corda tesa il sistema dei tiranti. Un effetto molla che, come il crollo ha confermato, nel caso di un singolo cedimento non garantisce margini di sicurezza: «Le fotografie delle rovine», spiega Rugarli, «mostrano che le gambe a V capovolte che formano la pila erano pochissimo armate e per di più cave. Erano, a loro volta, degli enormi biscotti compressi o forse, meglio, dei giganteschi grissini. Se per qualche motivo avessero dovuto resistere a un po' di flessione, per esempio per un tiro sbilanciato degli stralli, ebbene, si sarebbero rotte come giganteschi grissini: come infatti è avvenuto».
Il link allo studio