I figli degli jihadisti morti sono dispersi tra campi profughi ?e prigioni. Nel riformatorio di Ebril sono rinchiusi 122 minorenni, accusati di aver combattuto nelle milizie dello Stato Islamico. Ma ci sono anche storie a lieto fine

«Una granata! Una granata!», urla Abdul Bari. Tutti si girano a guardarlo, ammutoliti dal suono della sua voce, così raro da quando il piccolo è tornato a casa. Più giù, oltre la collina, la musica dirige i festeggiamenti di un matrimonio alla periferia di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Abdul Bari strattona le sorelle che provano a calmarlo, inutilmente: quel drone in cielo gli ha ricordato Mosul e gli ultimi anni nella città liberata dall’Isis lo scorso luglio.

Abdul Bari e le tre sorelle Senduz, Yusra e Marwa sono stati i primi figli di combattenti dell’Isis a essere riuniti alla famiglia dopo la morte dei genitori. Il loro destino sembrava già scritto: sarebbero finiti in un campo profughi insieme ad altri centinaia di orfani. Lì, nella migliore delle ipotesi, avrebbero imparato a leggere e scrivere. Altrimenti sarebbero entrati a far parte di qualche milizia che gli avrebbe insegnato a uccidere.

I quattro, messi in salvo qualche giorno dopo la fine dei combattimenti, a chi gli chiedeva se avessero qualcuno che poteva prendersi cura di loro hanno fatto il nome dei nonni materni. Grazie all’intervento congiunto di un’organizzazione non governativa, dell’Unicef e delle forze di polizia, dopo quasi quattro mesi i bambini hanno ritrovato i nonni. Il nonno Hamadamin e sua moglie Athia li hanno accolti senza riserve. «Come avremmo potuto rifiutarli?», domanda tra le lacrime Hamadamin.
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La nuova casa che i due coniugi hanno preso in affitto è più grande e costosa, perché ha una stanza in più dove i nipoti possono sentirsi protetti. Nonostante il trasloco, il ricordo della figlia Sirwa, la madre dei piccoli, e dell’altro figlio Askendar, entrambi uccisi nelle file dell’Isis, non dà loro pace. «Se non sai dove sono», commenta Athia, «non li puoi seppellire». Come il fratello, Sirwa se ne è andata a combattere con l’Isis senza lasciare nulla dietro di sé, non una fotografia come ricordo, nessun numero di telefono né un bigliettino. «Un venerdì eravamo invitati a pranzo dai parenti», ricorda l’anziana, «ma lei non è venuta con la scusa di stare poco bene. Non l’abbiamo più sentita per tre giorni. Poi ci ha chiamati dalla Turchia e ci ha detto che stava per entrare in Siria». Da lì Sirwa sarebbe entrata con i figli in Iraq, a Mosul, da dove si sarebbe sentita spesso con i genitori. «Non menzionava mai dove si trovava, né che fine avesse fatto suo marito Hemen, responsabile di averci portato tutti dentro questa maledetta guerra», conclude Athia.

È stata la nipote più grande Senduz, undicenne, a raccontare a nonna Athia la morte della madre. «A Mosul soffriva di mal testa. Un giorno più del solito e si è accasciata a terra e ha smesso di respirare». Delicata come una farfalla, Senduz ha imparato a non guardare gli uomini negli occhi, a rifiutare i regali, a camminare senza attirare lo sguardo. Lei come suo fratello Abdul Bari ogni tanto si risveglia dall’apatia e impreca contro la nonna, rimpiangendo quando la mamma era viva e le preparava il suo dolce preferito. È sempre nei suoi pensieri, ne ritma lo scorrere, l’aiuta a prendere sonno. Quando ha ritrovato una cassa con dentro i suoi vestiti ha pianto ininterrottamente per un giorno intero. Marwa, la più piccola di appena quattro anni, riesce a illuminare gli occhi tristi della nonna quando si sveglia con appetito: «se mangio volo come un uccello insieme a mamma e papà», dice sottovoce, mentre lo zio paterno, cieco e quasi gemello del padre morto, le si siede accanto. La piccola, credendolo Hemen, gli bacia le mani in segno di rispetto.

A differenza di altri coetanei, Abdul Bari, Senduz, Yusra e Marwa non hanno seguito ancora nessuna terapia né vanno a scuola. «Ad alcuni cambia persino il colore della pelle, che diventa più chiara», commenta Hanifa, psicologa che lavora con diverse organizzazioni non governative in supporto dei bambini vittime di violenze e accusati di terrorismo . «Quando iniziano un percorso di psicoterapia li aiutiamo a superare il trauma delle visioni a cui hanno dovuto assistere, che sono tra le principali cause di ansia e stress. Ricordo un ragazzo di quindici anni costretto a raccogliere i corpi dei morti in battaglia. Viveva nella paura costante di essere lui stesso vittima di un’esplosione. Oppure un altro obbligato tutti i giorni a vedere il corpo del padre impiccato in piazza sulla strada di scuola. Ci sono state persino due ragazze yazide che per mesi hanno costruito bombe per l’Isis».

Nel riformatorio di Erbil, supervisionato da Human Rights Watch e Unicef, sono rinchiuse oltre cinquecento persone: 160 sono i minori e tra questi 122 sono accusati di aver combattuto con Isis e varie milizie (Al- Shabi e Ashairi in primis). Tra questi 122 ci sono quattro ragazze. Qui non solo ricevono sostegno psicologico, medico e ludico, ma «anche un giusto trattamento legale», spiega la responsabile della prigione Diman Muhamed Bayiz, «perché a differenza dell’Iraq dove i casi di terrorismo sono condannati all’esecuzione, in Kurdistan nel 2010 la legge è stata modificata a tutela dei diritti dei minori».

Dal 2014, anno della presa di Mosul da parte di Isis, a oggi, il numero dei prigionieri è raddoppiato. «Le valutazioni si basano su un formulario di venti domande in cui viene rilevata la pericolosità del soggetto», spiega Khaled, «alcuni hanno subìto torture, con altri non possiamo neppure nominare Isis tanto è grave il trauma». Ci sono problemi di sovraffollamento, ma la questione più importante è stata la formazione degli operatori, chiamati a gestire un nuovo problema senza avere la preparazione per farlo.

Non è possibile incontrare i prigionieri nelle loro celle perché da parte della direzione c’è una grande ostilità a lasciare documentare luoghi e persone. Così, nell’ufficio di Khaled viene fatto entrare Omar, diventato maggiorenne da poco, che ammette di aver combattuto con Isis a Mosul per tre mesi nel 2014. «Quando l’Isis ha tentato di uccidere mio padre perché era un giudice, mi sono consegnato alla polizia. Ho visto quello che faceva e ho pensato che fosse sbagliato. Con loro non ho imparato un bel niente, neanche a sparare. Ma mi hanno torturato tre volte». Per i ragazzi come Omar le strade sono due: morire ammazzati o finire in prigione. Lui tra tre mesi sarà di nuovo libero perché ha scontato la sua pena, e la vera scommessa sarà ripartire. Dal nulla, ma vivo. «Voglio stare in pace», conclude Omar , «studiare il Corano e diventare un mullah. Non so ancora dove andrò. A Mosul, la mia città, non posso tornare».

Attraverso i corridoi colorati dai ragazzi, tra nuvole e margherite pastello, dopo aver superato un paio di celle con i vestiti stesi di sbieco attraverso le grate, si arriva in biblioteca. Qui, seduto su una sedia rotta, c’è Sari Abdulla, diciassettenne di Kirkuk, che scrive una lettera al padre. Gli operatori del riformatorio si occuperanno di spedirla. Sari è rinchiuso da dieci mesi con l’accusa di essere un terrorista. Lui rifiuta di definirsi tale, addossa la colpa al cugino, membro dell’Isis che avrebbe fatto il suo nome per incastrarlo. Poi però ammette: «Non c’era nulla da fare, nessun lavoro. Guadagnavo 200 dinari al giorno servendo in un ristorante d’asporto. Non sarei potuto restare in città se non avessi appoggiato l’Isis. Ma non li supportavo», precisa, «seguivo soltanto tutte le loro regole. Ecco perché non mi hanno mai toccato».

Prima di tornare in cella, Sari piega la lettera al padre, tentenna prima di infilarla nella busta e poi decide di leggerla a voce alta all’operatore: «Lettera a mio padre. Come stai, se Dio vuole, bene, se Dio vuole tornerò dalla mia famiglia. Se Dio vuole in due mesi sono fuori dalla prigione, se Dio vuole, e tornerò da te».