Nella trincea del Donbass, dove si continua a combattere come cento anni fa
Dopo quattro anni, la guerra ai confini tra Russia e Ucraina non si arresta. Senza tecnologia, come un conflitto che rimane nel limbo. E come conviene ai leader di entrambi i paesi (Foto di Edouard Elias)
La crudeltà non coglie di sorpresa nel Donbass. La zona sul confine del confine, perché Ucraina significa “sul confine” e il Donbass corre lungo la frontiera con la Russia, è da quattro anni un’area di guerra. Di violenza fisica e psicologica quotidiana. Zona di esclusione, diplomaticamente parlando, dall’attuale madrepatria ucraina, e, storicamente, dalla ex “grande madre Russia”, in realtà matrigna per buona parte degli ucraini. Nonostante le parole e le azioni, le finzioni e le reali intenzioni dei contendenti - Kiev e Mosca a livello locale, Casa Bianca e Cremlino a livello geopolitico- il Donbass è volutamente tenuto sospeso. Una zona via via più opaca, che neanche i campi di girasole riescono a colorare.
Dall’annessione della vicina Crimea, nel marzo del 2014, realizzata dai cosiddetti “omini verdi” (i soldati e i riservisti russi senza distintivi sulle mimetiche e mossi dal Cremlino), questa vasta zona che si estende sulle regioni di Donetsk e Luhansk oggi non è altro che un limbo. Un luogo, meglio, un tempo sospeso, dove le esplosioni delle artiglierie pesanti prima, e il lavorio ai fianchi dei civili da parte dei cecchini negli ultimi due anni, hanno dimostrato che la guerra, anche la più sofisticata (non è questo il caso, però) è sempre e solo sangue e disperazione. Come durante la Grande Guerra. Come in tutte le guerre. Anche in questa, che si svolge nell’Europa del Terzo Millennio. Perché sì, certo, hai voglia, a dire che non è più come una volta, ora che ci sono i droni, ma alla fine c’è sempre qualcuno che preme un joy stick o un grilletto. E c’è sempre un altro, o altri, soldati o civili, che viene ferito, mutilato o che muore tra spasmi e sofferenze atroci.
Le fotografie scattate da Edouard Elias nel Donbass, in parte nella zona sotto il controllo dell’esercito ucraino, in parte nelle “repubbliche popolari” di Donetsk e Luhansk, conquistate dai separatisti manovrati dal Cremlino, mostrano questa sospensione tra eccezionalità violenta e ordinarietà della violenza nei conflitti che si trascinano. Finendo per diventare guerre di trincea, poi di attacchi a bassa intensità, infine di cecchini. Anche nell’era della robotica e delle sonde su Marte. I soldati ucraini costretti come topi dentro ai camminamenti e rischiarati dalle candele accese per ricevere, secondo la liturgia locale, la benedizione dei Pope uniati, non sembrano diversi dalle statue per commemorare i caduti dei precedenti conflitti. Divelte dai bombardamenti dell’esercito ucraino, queste statue raccontano di una terra contesa da centinaia di anni. Distrutta dai mortai, dalla corruzione e dall’indifferenza. Qui la violenza, esplosiva o subdola, è diventata la normalità. Prima, ai tempi degli zar, quindi di Stalin, oggi di Putin.
Poroshenko, il miliardario magnate del cioccolato ed editore televisivo, pro domo propria, diventato quattro anni fa presidente dell’Ucraina dopo la “rivoluzione della dignità” di piazza Maidan a Kiev, sembra ancora convinto che la Crimea e le repubbliche popolari autoproclamate dai separatisti filo russi nel Donbass non possano staccarsi dal resto del Paese. In realtà, anche lui agisce non per il bene della popolazione, ma per convenienza politica e personale alla destabilizzazione del Donbass. Per nascondere con il velo spesso del nazionalismo il drastico calo di popolarità dovuto a una gestione ondivaga e per nulla trasparente della cosa pubblica, Poroshenko ha sostenuto, due mesi fa, una legge proprio sul Donbass. I legislatori hanno messo a punto una norma «circa il ripristino della sovranità statale dell’Ucraina sul territorio temporaneamente occupato delle regioni dell’Ucraina di Donetsk e Luhansk». Il provvedimento, che definisce la Russia un paese «aggressore», è passato con 280 voti a favore su un totale di 450 seggi presenti nella Camera. [[ge:espresso:attualita:1.319801:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.319801.1521554302!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/articolo_480/image.JPG]] Nel testo non vi è alcun riferimento agli accordi di Minsk, stipulati nel 2015 sotto la regia di Russia, Germania e Francia, e delle conseguenti disposizioni. Esse stabilivano che lo Stato ucraino dovesse varare un nuovo statuto allo scopo di concedere, non solo de facto, un’autonomia genuina per le regioni separatiste e un’amnistia per i combattenti ribelli. Poroshenko, che non ha mai trasferito le sue fabbriche di cioccolato in Russia, come promesso durante la campagna elettorale, ha definito il voto «un segnale per il Donbass e la Crimea: siete una parte inseparabile dell’Ucraina». Ha quindi sottolineato che «continueremo a seguire la strada della reintegrazione delle terre ucraine occupate attraverso passi politici e diplomatici». Non attraverso azioni militari. [[ge:espresso:attualita:1.319799:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.319799.1521554275!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/articolo_480/image.JPG]] Questa affermazione, tuttavia, ha fatto infuriare Mosca, che non ha mostrato alcuna intenzione di accollarsi i pensionati e i disoccupati degli oblast ribelli, da almeno due anni rimasti senza risorse. Per poter ottenere la pensione, gli anziani dei villaggi e delle città della zona ribelle gestita dai separatisti devono affrontare estenuanti viaggi oltre la “frontiera”. Devono salire su bus più o meno scassati per raggiungere la linea di demarcazione. Per oltrepassarla, provenendo dalle municipalità separatiste, ed entrare più profondamente nella parte Ato, sotto il controllo di Kiev, bisogna aver espletato estenuanti procedure burocratiche. Solo così i vecchi possono sperare di avere il denaro che spetta loro. E tra la fine dell’anno e l’inizio del nuovo, i separatisti hanno reso anche le telecomunicazioni un’arma di ricatto per i propri concittadini - indipendentemente se pro Mosca o pro Kiev- disattivando la rete telefonica mobile per poi ripristinarla dandola in gestione a un provider connivente e introducendo nuove Sim a prezzi esorbitanti. I simboli per antonomasia della rivoluzione digitale a portata di tutti, smartphone o semplici cellulari, sono rimasti per settimane muti. Il Coltan, per il cui approvvigionamento si combattono altre guerre, specialmente nella zona orientale del Congo, e la plastica, ossia le materie che compongono i telefonini, sono stati ridotti a pietre senza anima, come i monumenti violati dai mortai. La linfa vitale del pianeta Terra, ovvero l’acqua, l’oro blu di questo secolo e di quelli a venire, per il cui rifornimento si stanno già combattendo e si combatteranno nuove guerre, invece è stata trasformata in veleno.
Dai rubinetti delle case semidistrutte di Sinkholes e di altri centri delle Repubbliche Popolari - non riconosciute dalle Nazioni Unite, né dalla maggior parte degli Stati- esce già una sostanza vischiosa e torbida che è difficile associare alle chiare, fresche e dolci acque che fluivano prima dell’inizio di questo ennesimo grande gioco sporco sulla pelle del common people ucraino, compreso quello russofono delle regioni orientali. Da quando le miniere di metalli pesanti di cui è ricco il Donbass sono finite sotto il tiro dell’artiglieria pesante dei soldati ucraini e dei paramilitari separatisti guidati dagli ufficiali dell’intelligence militare di Mosca, non solo hanno smesso di essere una magra opportunità di sopravvivenza per la maggior parte degli abitanti di quelle zone. Sono diventate serbatoi di rifiuti tossici. Cancerogeni. A causa delle piogge estive e invernali di anno in anno più forti per l’effetto del cambiamento climatico, il portato dell’estrazione, non più contenuto dalle infrastrutture danneggiate, ha contaminato molte falde acquifere.
Secondo alcuni studi, già entro quindici anni ben due milioni e mezzo di persone saranno costrette a lasciare il Donbass per mancanza di acqua potabile e per la contaminazione dei raccolti irrorati da queste acque mortali. Intanto, più di un milione di civili ha lasciato queste terre durante i quattro anni di conflitto. L’Ucraina ha in tutto 45 milioni di abitanti, di cui circa sei milioni residenti negli Oblast di Donetsk e Luhansk. Il tasso di natalità ha il segno meno per le condizioni sempre più difficili. Gli ospedali non hanno scorte e i malati aumentano perché pochi possono permettersi di pagare le cure, specialmente gli anziani, ai quali il collasso dell’Urss ha lasciato in eredità pensioni da fame: l’equivalente di 50 euro al mese di media. Il costo della vita intanto aumenta di giorno in giorno e la grivna, la moneta locale, è quasi carta straccia. Il rublo adottato nel Donbass separatista non è poi tanto meglio. Sono tutti infelici in Ucraina e nel Donbass, tranne i mercenari.
Nel suo commovente libro “La Frontiera”, pubblicato nel 2015, Alessandro Leogrande ci illuminava su “La violenza del mondo” e sul ruolo dei fotografi nei conflitti. Attraverso l’analisi di uno dei capolavori di Caravaggio, il “Martirio di San Matteo”, commentando l’autoritratto del Merisi alle spalle del carnefice del vecchio discepolo, Leogrande spiegava: «A differenza degli altri spettatori Caravaggio non fugge, guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere... Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor di più il genio dell’arte, non arresteranno il massacro. Può solo provare pietà».