A 70 anni dalla nascita, è un Paese hi-tech, ricco 
e postmoderno. Ma 
ha perso le sue origini. Colloquio con Dan Diner (Illustrazioni di Emanuele Fucecchi)

ISRAELE_WEB
Un Paese benestante, una nazione di startup, la patria di scrittori eccellenti, una potenza regionale dotata di un esercito fortissimo e di bombe atomiche. È tutto questo Israele a settant’anni dalla fondazione: l’anniversario - secondo il calendario ebraico - cade il 19 aprile. Eppure, basta che Hamas, l’organizzazione fondamentalista al potere nella Striscia di Gaza, dichiari una mobilitazione, chiami la gente a tentare di attraversare il confine “per tornare alla propria terra”, come recitano gli slogan, perché gli abitanti dello Stato degli ebrei si sentano così poco sicuri nella loro esistenza, da indurre l’esercito a sparare e uccidere i manifestanti.

L’ipermodernità di Israele non ha risolto un conflitto di caratteri arcaici che riguarda la terra e comporta sangue e primordiale violenza. E anche, in un Paese tra i cui miti fondativi ci sono le vicende tragiche dei profughi ebrei che nessuno voleva accogliere, il premier Benjamin Netanyahu ha prima cercato di espellere i rifugiati africani, poi dopo le proteste della società civile (in testa i kibbutz e i superstiti della Shoah), ha avuto l’idea di chiedere all’Onu di ricollocarli altrove (nel caso degli eritrei in Italia che l’Eritrea la colonizzò).

Quando, nel 1948, David Ben Gurion dichiarava la nascita dello Stato ebraico, in Israele vivevano circa 750 mila ebrei (oggi ce ne sono sei milioni e mezzo, cui vanno aggiunti un milione ottocento mila palestinesi cittadini israeliani), il capitalismo era considerato un sistema economico sbagliato e l’ideale era una povertà condivisa, come avveniva nei kibbutz dove tutto, perfino la biancheria intima, era di proprietà collettiva. L’esempio da seguire non era un uomo d’affari che da dietro un tavolino (oggi un computer) sposta ingenti somme di denaro oppure inventa tecnologie alla cui base sta l’astrazione, ma al contrario: un contadino, un ebreo dedito al lavoro manuale; meglio se di poche parole. Insomma, il sospetto è questo: Israele oggi sta bene perché ha rinnegato i principi dei padri fondatori; e al contempo sta male perché il conflitto coi palestinesi, a volte sopito, periodicamente riesplode come la lava da dentro un vulcano.

Dan Diner, docente all’Università ebraica di Gerusalemme, è uno dei massimi studiosi della storia del Novecento e del Medio Oriente. Tedesco e israeliano, figlio di genitori scampati alla Shoah, divide il suo tempo tra Berlino e Tel Aviv. Con lui abbiamo tentato di tracciare un bilancio provvisorio dei successi e fallimenti dello Stato ebraico, felici e meno felici ironie della storia comprese. Il discorso non può che cominciare con gli eventi di questi giorni a Gaza. «Abbiamo a che fare con tre aspetti del conflitto che si mescolano tra di loro, sul piano sia simbolico sia materiale», dice Diner. «Il primo: la “giornata della terra” (questo il nome dato alla protesta) evoca la questione dei palestinesi cittadini d’Israele che il 30 marzo 1976 scesero in piazza contro la confisca delle loro terre, appunto, e ci furono delle vittime. Il secondo, riguarda quello che i palestinesi considerano il diritto di ritorno; la stragrande maggioranza degli abitanti di Gaza è composta da profughi e discendenti dei profughi della guerra del 1948; infine c’è la questione dell’occupazione (anche se indiretta), a sua volta frutto della guerra del 1967. Tutte le istanze dei palestinesi sono simbolicamente presenti a Gaza. E Hamas sta facendo leva su quelle».

Intanto parliamo di Israele. In principio il cibo era razionato. E gli israeliani si lamentavano: gli arabi hanno il petrolio, noi la sabbia del deserto. Oggi il Prodotto nazionale lordo pro capite israeliano è di quasi 40 mila dollari; l’economia cresce quasi del quattro per cento l’anno; le industrie hi-tech sono le migliori del mondo; a Tel Aviv ogni giorno sorge un nuovo grattacielo...
«Era un Paese povero che viveva grazie alle donazioni dei filantropi americani e alle riparazioni economiche che arrivavano dalla Germania. Il benessere ha le sue origini negli anni Ottanta. In quel periodo una rivoluzione tecnologica ci ha traghettati dalla modernità nel cuore della post-modernità non solo in termini filosofici, ma concretamente, nella vita sociale e personale. Israele ha scoperto allora di avere un capitale enorme: la capacità di sviluppare un sapere astratto, digitale, maggiore rispetto al resto del mondo. L’arrivo dall’ex Unione Sovietica di un milione di persone istruite, le dimensioni ridotte del Paese e, infine, la mancanza di industrie moderne dovuta alla scarsità delle risorse naturali, hanno reso la rivoluzione post-industriale più facile».
La mancanza di petrolio si rivelò una benedizione. Ma c’è stata anche una rivoluzione antropologica. I pionieri dicevano di essere venuti in Palestina per «costruire il Paese e ricostruire se stessi». La modernità di chi costruì Israele significava: lavorare la terra e bando all’individualismo.
«La modernità israeliana era contraddittoria. Israele, fino a metà anni Ottanta era una società basata sui principi collettivisti. Il sindacato era proprietario di imprese industriali. La popolazione continuava però a seguire i costumi improntati a un grande individualismo, come facevano gli ebrei nella Diaspora. L’integrazione degli ebrei - il passaggio dalla condizione premoderna a quella moderna - significava che l’ebreo diventava cittadino, come gli altri. E questo passaggio avveniva su base individuale; da qui l’individualismo degli ebrei, mai sconfitto in Israele. C’era una parola in slang: “iltur”. Definiva colui che sapeva aggiustare le cose, ma senza metodo, improvvisando. Nella società collettivista questa dote non era apprezzata. Oggi sappiamo invece quanto il bricolage trasformato in pensiero astratto sia alla base della civiltà digitale. Così, quello che era considerato negativo, segno della Diaspora, è diventato capitale umano e ricchezza d’Israele».
Perde lo spirito sionista, vince la Diaspora e rende Israele ricco. Ironia della storia?
«Vorrei citare una sentenza del Talmud: “La legge dello Stato è legge”. Con questa frase i rabbini stabilirono che gli ebrei sono tenuti a rispettare le leggi del principe, cristiano o musulmano. Ciò significa che nella Diaspora gli ebrei sono senza potere. E allora, qual è lo spazio abitato dagli ebrei? È lo spazio del testo. Gli ebrei sono una collettività testuale e non tellurica, non appartengono alla Terra. I sionisti volevano rovesciare il testo; volevano che gli ebrei fossero una collettività dotata di un potere sulla terra. Israele è questo».
Come nasce lo Stato d’Israele?
«Da un insieme di eventi. Nel febbraio 1947, il premier Clement Attlee annuncia che la Gran Bretagna dovrebbe ritirarsi dalla Birmania e dalla Palestina; significa uscire dall’India e smantellare l’Impero. David Ben Gurion, il massimo leader sionista, coglie quello che i greci chiamavano “kairos”, il momento in cui le cose si compiono. E organizza politicamente e dal punto di vista militare la proclamazione dello Stato, che avviene nel 1948».
La guerra del 1948 porta all’esodo di 700 mila palestinesi: interi villaggi vengono distrutti. Questa vicenda, per quanto atroce, si inserisce in altre vicende analoghe di quel periodo; la spartizione dell’India con i conseguenti sanguinari “scambi di popolazione” tra indù e musulmani; l’espulsione dei tedeschi dai territori della Polonia e dalla Cecoslovacchia.
«I palestinesi sono stati gli unici a restare profughi senza patria. Quello che succede oggi a Gaza, ripeto, ne è sintomo e testimonianza. Ma fermiamoci alla Polonia e ai Paesi dell’Europa centrale...».
Dalla Polonia, in seguito al pogrom nella città di Kielce (luglio 1946, quaranta ebrei uccisi), fuggono 200 mila persone. Finiscono nei campi di rifugiati in Germania, assieme ad altre centinaia e migliaia di ebrei che l’Europa non vuole, l’America non desidera. Possono solo andare a combattere in Palestina.
«I Paesi dell’Est Europa si definiscono “democrazie popolari”. Dove per popolo si intende etnia. Non c’è posto per gli ebrei. Ma non è tutto. Nel 1948 l’Onu proclama la convenzione contro il genocidio e la Carta dei diritti umani. Ora quale è la natura dei diritti umani? È l’individuo. E la convenzione contro il genocidio, cosa è? È una misura per proteggere le minoranze nazionali. Ed è in quell’anno che nasce Israele. Ma c’è una discrasia: mentre il mondo procede verso l’affermazione dei diritti individuali, Israele è invece l’affermazione di una collettività basata su un territorio. Il problema è che gli ebrei avevano già sperimentato, nel passato, le soluzioni individuali e la protezione in quanto minoranza, ma senza successo. Ecco, perché erano entusiasti per la nascita dello Stato d’Israele. Ma poi, non ci credono più di tanto».
Aggiungiamo che gli scrittori israeliani, mentre con le loro opere contribuiscono alla costruzione dell’identità nazionale, con gli stessi testi la mettono in questione.
«Identità? Preferisco parlare di segni e simboli di appartenenza. E le appartenenze sono plurali e complesse. Diceva Hannah Arendt: “Per gli ebrei la questione non è essere o non essere, ma appartenere o non appartenere”. Per questo gli scrittori israeliani esprimono così bene le angosce dell’uomo contemporaneo, post-moderno, anche le angosce dei non ebrei».
Torniamo allora a parlare del conflitto. L’esercito israeliano vince sempre in guerra....
«Sì. Ma regna l’incertezza. Il dubbio e la forza, in Israele, sono gemelli. Nelle sue memorie Nahum Goldman, all’epoca presidente del Congresso ebraico mondiale, riporta queste parole di Ben Gurion: “Non so se fra un paio di generazioni gli ebrei vivranno ancora da queste parti. Non c’è ragione perché gli arabi riconoscano il nostro diritto a stare qui. Noi diciamo che Dio ci ha promesso questa Terra, ma è il nostro Dio, non il Dio degli arabi”. Ora, nella narrazione israeliana la forma della legittimità più forte, più popolare dello Stato ebraico è quella biblica. Ma c’è un problema: i portatori di questo tipo di legittimità sono i coloni, la destra estrema. Faccio un esempio. Dopo gli accordi di pace con i palestinesi nel 1993, l’allora premier Itzhak Rabin va in tv. Il giornalista gli dice: ha rinunciato all’integrità della Terra d’Israele. Rabin risponde: “Non ho rinunciato, sono un pragmatico. Faccio un compromesso”. E così che Rabin, assassinato poi da un colono oltranzista è passato per un traditore, perché si è presentato come un uomo che rinunciava a un pezzo della Terra d’Israele».
Però c’è la legittimità che deriva dalla Shoah. Israele esiste perché sei milioni di ebrei sono stati ammazzati e non ci fu nessuno a difenderli.
«È così che il mondo percepisce la legittimità d’Israele».
E in fin dei conti uno Stato è legittimo semplicemente perché esiste.
«Però tra gli ebrei emerge spesso una specie di angoscia da minoranza che teme per il futuro, mentre gli arabi cittadini di Israele, che sono una minoranza, hanno l’idea di essere maggioranza».
Sta dicendo che da un lato sono egemoni i fautori del “Grande Israele”, dall’altro i palestinesi non vogliono rinunciare all’interezza del loro Paese. E poi, dicono i demografi, che se si sommano gli abitanti della Cisgiordania, di Gaza e gli arabi israeliani, il numero dei palestinesi tra il Giordano e il Mediterraneo è quasi pari a quello degli ebrei. Forse la soluzione sarebbe uno Stato binazionale, dove ognuno può vivere dove vuole.
«Una bella utopia. Ma parlare oggi di uno Stato binazionale significa dimenticare la situazione nella regione. Guardi la Siria. Sembrava un bastione di laicità. Oggi è in guerra tra le minoranze e la maggioranza sunnita. E pensi all’Iran. Gli sciiti, i musulmani eterodossi si stanno dimostrando più fondamentalisti dei sunniti. La dinamica è verso fondamentalismo e frammentazione, non verso integrazione nelle strutture laiche e riconosciute da ex nemici».
E allora che fare, oggi?
«Coinvolgere i Paesi arabi nell’amministrazione della Striscia di Gaza. Pensare a uno Stato palestinese accanto a Israele, oppure, per ora, a una specie di protettorato internazionale sulla Palestina. Occorre stemperare il conflitto. E lasciare tutte le opzioni aperte; da quella dei due Stati, alla Confederazione o uno Stato binazionale in un futuro».
Torniamo all’inizio. La prima città ebraica in Palestina è stata Tel Aviv. Oggi è una metropoli cosmopolita, laica, lontanissima dall’atmosfera cupa dei fondamentalismi. Può essere un modello del futuro?
«Tel Aviv racchiude l’universo: modernità e post-modernità; gender e transgender; studiosi seri e musicisti leggeri. Ma non è un modello, è soltanto un luogo in cui puoi dimenticare la guerra. Però, prima o poi, qualcuno te la ricorderà. A Gaza - un’ora di macchina da Tel Aviv - ci si accorge dell’arcaicità del conflitto».

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