L’Europa attuale è stata costruita dai leader cattolici che volevano unire Chiesa e democrazia. Oggi vacilla di fronte all’attacco dei sovranisti

Uno spettro si aggira per l’Europa, la vecchia sinistra socialdemocratica, in picchiata ovunque nei consensi e in crisi di identità. La sua versione italiana, raccolta sotto le bandiere del Partito democratico, non riesce da mesi neppure a raccontare a se stessa e agli italiani le ragioni di una perdita di milioni di voti ed è arrivata a dividersi perfino sugli inviti a cena. È accaduto in occasione dell’improvvida idea di Carlo Calenda, invitare a tavola un ristretto club di primi della classe, Matteo Renzi, Marco Minniti, Paolo Gentiloni, che alla fine hanno lasciato cadere scatenando l’ira dell’ex ministro. L’opposizione continua a discutere di formule e contenitori, mentre la coalizione di governo M5S-Lega litiga, si accapiglia, si divide sulle cose da fare: misure, soldi, risorse per la legge di Bilancio. Occupa tutte le zone del campo (destra, sinistra e centro) e continua a crescere nei sondaggi, malgrado la confusione.

Ma c’è un altro fantasma, molto meno analizzato e raccontato, che spiega quanto sta succedendo in Italia e nel resto d’Europa. Attraversa i paesi che ricalcano i confini dell’antico Impero carolingio, Francia e Germania, e gli Stati oggi uniti dal patto di Visegrad e poi l’Austria e il Lombardo-Veneto, culla della Lega prima indipendentista e oggi sovranista: i territori che furono dell’Impero asburgico. È una faglia che a Ovest e a Est dell’Europa spacca i popoli che furono la culla della cristianità europea nel Medioevo, nell’età moderna e nei cinquant’anni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale, dopo il 1945.

L’Europa unita, sognata dal laico Altiero Spinelli nell’isola di Ventotene, ben più che dalle sinistre socialiste è stata inizialmente costruita dai tre leader dei paesi fondatori: il francese dell’Alsazia-Lorena Robert Schuman, il tedesco della Renania Konrad Adenauer, l’italiano venuto dal Trentino, già deputato del Parlamento asburgico, Alcide De Gasperi. Tre leader venuti da regioni di frontiera, testimoni degli eccidi e delle tragedie del Novecento, tre cristiani interpreti di una potente idea politica: l’incontro tra i cattolici e la democrazia, dopo secoli di guerre di religione, di alleanze tra trono e altare e di separazioni sanguinose. E dunque la fine della lunga stagione aperta in Europa dalla rivoluzione francese del 1789, con la Chiesa e i cattolici relegati all’opposizione della modernità, sul fronte della restaurazione. L’Europa e la democrazia erano i due volti di un progetto ambizioso, insieme politico e religioso, perché richiedeva una Chiesa non più arroccata sul fronte della reazione, anticipava le conclusioni del Concilio Vaticano II. In Italia significava la lunga egemonia del partito-Stato dei cattolici, la Democrazia cristiana, in una logica non confessionale ma di autonomia tra le due sfere, l’ordine temporale e l’ordine spirituale. La garanzia che la democrazia italiana e l’orizzonte europeo avrebbero avuto una base di massa, popolare: contadini, operai, ceti medi, l’immenso bacino dell’elettorato cattolico.

Il processo di costruzione dell’attuale Unione europea e l’allargamento ai paesi dell’Est fu completato dagli ultimi esponenti di quella tradizione: l’italiano Romano Prodi, il tedesco Helmut Kohl, cui va aggiunto il più anziano Jacques Delors, che da giovane si era formato nella gioventù operaia cattolica e nella rivista “Témoignage Chrétien”, prima di aderire al partito socialista. Era stato il papa polacco Giovanni Paolo II a coniare lo slogan dell’Europa a due polmoni, uno orientale e uno occidentale, ben prima della caduta del Muro. E alla fine del Novecento e nei primi anni Duemila il progetto era sembrato trionfare.

Oggi, invece, c’è il vuoto. Non ci sono due polmoni, ma l’asfissia. L’Europa non respira, soffoca, ha le porte e le finestre sbarrate, all’esterno e all’interno. La stagione di quella che lo storico Timothy Snyder ha definito in “La paura e la ragione” (Rizzoli, 2018) «la politica dell’eternità»: il ritorno alla politica del suolo, della terra degli avi, contrapposto alla «politica dell’inevitabilità», il culto dei parametri economici come volto finale della liberal-democrazia. Due visioni entrambe anti-storiche, scrive Snyder: «I politici dell’inevitabilità insegnano che i dettagli del passato sono irrilevanti, perché qualunque cosa succeda è acqua per il mulino del progresso. I politici dell’eternità saltano da un momento all’altro, tra i decenni e i secoli, per costruire un mito di innocenza e di pericolo». Oggi l’Economist si interroga sul superamento di un liberalismo inteso come puro vincolo e austerità. Ma intanto il vuoto si è aperto, nel cuore dell’Europa, e nel vuoto tornano di moda parole antiche: Patria, Nazione, Identità. Radici. E il cattolicesimo democratico e europeista è stato spazzato via.

Al suo posto c’è un’ideologia, cristianista più che cristiana, che si candida a guidare culturalmente il fronte del sovranismo alle prossime elezioni europee, in Polonia, Ungheria, Austria, Italia. Con un doppio obiettivo: abbattere non solo l’Europa di Maastricht e di Schengen, ma anche l’Europa dei diritti, che è stata una sorta di virtuoso vincolo esterno. In nome della rivincita sulla modernità, la restaurazione, il ripristino della Tradizione immutabile, contro quello che viene considerato un interminabile catalogo di errori. L’Ungheria di Viktor Orbán è l’apripista. Il premier ospitato nel vecchio Ppe, i democristiani europei, in questi anni ha stravolto la Costituzione del suo paese inserendo riferimenti continui al re Santo Stefano, all’identità cristiana della Nazione, alla famiglia «basata sull’unione volontaria tra uomo e donna», con il divieto di aborto e la difesa del feto «fin dal concepimento». È la politica dell’eternità, che aggredisce un’Europa svuotata dai suoi valori fondativi.

L’Espresso racconta come sta avvenendo questa metamorfosi anche in Italia. Può far sorridere o inquietare, o entrambe le cose. Di certo è uno dei motori del sovranismo italiano. Un movimento che raccoglie un partito, la Lega, un gruppo trasversale di 150 parlamentari, il gruppo Famiglia e Vita appena nato, un ministro, Lorenzo Fontana, per cui è stato appositamente creato un ministero della Famiglia, di nessuna capacità di spesa ma di ampio potere declamatorio, il leader Salvini che ha sventolato una copia del Vangelo e una corona del rosario nel comizio finale della sua campagna elettorale in piazza Duomo, nel silenzio imbarazzato della gerarchie ecclesiastiche. Il movimento conta su potentissimi appoggi in Vaticano, nell’ala curiale anti-Bergoglio, e su quella rete internazionale che ruota attorno all’enigmatico ex consigliere di Trump Steve Bannon.

C’è una storia italiana che ci porta qui. La fine del partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, che raccoglieva la gran parte dell’elettorato dei credenti e dei praticanti alla messa domenicale, ma aveva combattuto ogni deriva clericale o sanfedista. La chiusura della Dc, avvenuta esattamente un quarto di secolo fa, avrebbe dovuto lasciare spazio, nella speranza dei sostenitori del bipolarismo, alla presenza di cattolici in entrambi gli schieramenti, a far da lievito con la loro cultura. Era questo il senso più profondo dell’operazione Ulivo: un patto tra laici e cattolici pensanti, come li chiamava il cardinale Carlo Maria Martini. Cattolici aperti alla modernità, laici curiosi del fatto religioso. Quel patto è saltato quasi subito. Perché la gerarchia ecclesiastica italiana, guidata con il pugno di ferro dal cardinale Camillo Ruini, preferì puntare sullo schema opposto: la trasformazione della Chiesa in una lobby, con l’inserimento in Parlamento e nei nuovi partiti della Seconda Repubblica, da Forza Italia alla Margherita, di figure politicamente sbiadite ma docili ai disegni della Conferenza episcopale. Paola Binetti e Eugenia Roccella, per dire.
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Un disegno che presupponeva la riduzione del mondo cattolico a pura massa di manovra, da spingere in piazza come nel caso del primo Family Day del 2007 contro il disegno di legge sulle unioni civili del governo presieduto dal cattolico Prodi, e da rispedire a casa a piacimento se il momento richiedeva trattative lontane dai riflettori. Il bilancio finale è stato disastroso: l’episcopato, finita l’era Ruini, si è presentato senza leadership e capacità di lettura della nuova realtà italiana, oscillante tra un populismo pasticciato e le buone intenzioni, incapace di proporre nei conclavi del 2005 e del 2013 un candidato all’altezza del papato. Il serbatoio dell’associazionismo, dei movimenti, del sindacato (la Cisl) che forniva i quadri di una classe dirigente diffusa e popolare, con i suoi personaggi di spicco nell’establishment, i Bazoli, gli Andreatta, i Prodi, e gli intellettuali ascoltati dalla cultura laica come Pietro Scoppola, si è esaurito nel conformismo, nella ripetizione delle formule astratte (ieri i principi non negoziabili, la vita e la famiglia, oggi un certo appoggio di comodo alle indicazioni di papa Francesco di cui si coglie l’aspetto più edulcorato, il meno impegnativo), nella distanza dalla sfera della politica, considerata nella stagione precedente lo sbocco privilegiato dell’impegno nella storia, forse obbligato, di certo il più nobile.

E, quel che è peggio dal punto di vista della ragione sociale della Chiesa, l’annuncio del messaggio cristiano nel mondo, c’è stato un arretramento vistoso: le chiese vuote, l’ignoranza religiosa, l’incredulità pratica, il silenzio di Dio. La riduzione del cattolicesimo dalla dimensione del mistero della vita, del dolore e della Resurrezione alla estenuante difesa quotidiana sui preti pedofili, le beghe curiali che trasforma la Chiesa in una multinazionale corrotta e in disarmo.


In questo vuoto si è compiuta la secolarizzazione, «il salto nel vuoto etico», come l’ha definita Scoppola. Quell’attitudine contemporanea a non credere in un dio o in una religione che è finita per capovolgersi nel nichilismo, ovvero nell’impossibilità o nell’incapacità di credere a qualcosa. E, sul fronte opposto, la crescita della reazione. Un cristianesimo dell’eternità, ben rappresentato dal ministro Fontana e dalla sua guida spirituale don Wilmar Pavesi, raccontato da Elena Testi. Un’eternità, però, che ignora il trascendente, perché la partita si gioca tutta qui e ora, su questa terra, in questa Europa e in questa Italia, nella politica, una sfera non più distinta dalla religione. Un processo lungo: già all’inizio degli anni Novanta il Centro Lepanto attaccava il Trattato di Maastricht, «la più grave minaccia contro gli Stati nazionali europei, e dunque contro la stessa Europa, in questo dopoguerra», lo definiva il professor Roberto De Mattei, animatore del centro che aveva promosso l’attacco contro la moschea di Roma e la veglia di preghiera contro il Gay Pride del Duemila: «L’omosessualità è un vizio infame. Ci auguriamo che Sodoma, la città della depravazione, non sia il modello del Parlamento europeo». Già allora il Centro Lepanto aveva intrecciato una serie di importanti relazioni con l’Heritage Foundation, una delle culle del pensiero neo-conservatore Usa, ma restava minoritario e isolato.

Oggi, invece, tra i fedeli solo il 33 per cento è critico con Salvini, il 57 per cento è d’accordo con il capo della Leg a, nonostante la predicazione di papa Francesco e le ripetute prese di posizione del quotidiano Cei, Avvenire. E concetti fino a poco tempo fa impresentabili risuonano dalla bocca di un prete che un ministro della Repubblica frequenta ogni mattina. C’è una semplice domanda per il ministro Fontana che ha giurato fedeltà alla Costituzione repubblicana: condivide quanto ha detto all’Espresso il suo consigliere spirituale e politico, perché per i neo-reazionari la distinzione tra le due sfere non esiste? Se sì, Fontana sarebbe un ministro che considera le donne incapaci di studio, l’omosessualità un frutto del diavolo e l’alleanza trono-altare un progetto possibile. Un caso unico in Occidente, almeno per ora.

All’interno della Chiesa si muove una lobby potente di mezzi e di relazioni, spara i suoi cannoni dalla stampa di destra o da siti influenti e militanti. Nell’indifferenza della cultura laica, ormai insensibile al fatto religioso. Ma è un errore, perché è da questa nuova frattura tra cristianesimo e modernità, tra cattolici e democrazia che nasce il più feroce attacco ai diritti di tutti. Quelle chiese deserte rappresentano un vuoto più profondo che riguarda tutti. In cui avanza un cristianesimo in fondo ateo. Senza Dio perché senza l’uomo, senza l’altro.