È partito in Cina il primo esperimento di classificazione delle persone. A ogni essere umano viene dato un punteggio a seconda dei suoi comportamenti. Con premi e punizioni (Illustrazioni di Sr. Garcia)
Da poche settimane l’aeroporto di Shenzhen, in Cina, ha iniziato la sua prima sperimentazione basata sul Sistema di Credito Sociale. I passeggeri che fanno parte del programma hanno una card che ne definisce l’affidabilità e la reputazione. Chi ha un punteggio alto avrà un canale preferenziale nei controlli e al check-in; chi ce l’ha basso, sarà sottoposto a controlli più approfonditi. Il punteggio viene dato, nel tempo, dalle autorità aeroportuali e dalle compagnie aeree che hanno aderito all’iniziativa. Si perdono punti litigando in aereo, ad esempio; se ne guadagnano attraverso azioni virtuose, come indicare alla sicurezza dello scalo un bagaglio incustodito.
L’esperimento fa parte di un programma molto più ampio annunciato da Pechino già nel 2014 e che ha come obiettivo il 2020, quando dovrebbe essere esteso a tutti i cittadini della Repubblica popolare - e non soltanto per gli aeroporti.
Un esempio è quanto sta già accadendo nella cittadina di Rongcheng, poco meno di 700 mila abitanti, 800 chilometri a est di Pechino, sul mar Giallo. Qui la macchina del rating individuale è partita l’anno scorso e riguarda una serie di comportamenti civici: ad esempio si perdono punti se non ci si ferma con la macchina alle strisce pedonali, se ne guadagnano facendo volontariato nel quartiere. Si parte tutti da mille punti, poi si può scendere o salire. Chi scende, per esempio, non potrà acquistare biglietti aerei o del treno ad alta velocità: per uscire da Rongcheng dovrà accontentarsi del vecchio autobus; oppure viene bannato dagli acquisti di alcuni generi di consumo. Chi sta in alto con i punti invece avrà sconti sulle bollette del riscaldamento e un trattamento di favore nella concessione di prestiti bancari.
I punteggi di ciascuno sono attribuiti da un combinato tra dati oggettivi (ad esempio, se si ritarda un pagamento dovuto o si prendono multe) e di valutazioni sulla base di informazioni raccolte da funzionari della pubblica amministrazione. I risultati complessivi sono pubblici, perché la comunità sappia quali suoi concittadini sono più virtuosi e quali meno; e affinché si inneschi nelle persone la vergogna del pubblico ludibrio o l’orgoglio del pubblico elogio.
Chi scende nella classifica può risalire in vario modo: ad esempio facendo beneficenza, donando sangue, svolgendo del lavoro gratuito per la collettività o con altre azioni meritorie come ospitare in casa propria parenti in difficoltà economica. La tv americana Vice News, in un reportage del mese scorso, ha raccolto la testimonianza di un cittadino di Rongcheng che non aveva più il punteggio sufficiente per prendere il treno ma, dopo varie azioni considerate virtuose, è riuscito a risalire da rating B a rating A: «Finalmente sono tornato una persona normale», ha spiegato sorridente alla telecamera.
I meccanismi punitivi variano a seconda delle 12 diverse zone in cui il credito sociale viene sperimentato: oltre al ban su trasporti e acquisti, si può incorrere nell’esclusione da determinati hotel (quelli più di lusso), nel rallentamento della connessione a Internet e nell’esclusione dei figli dalle migliori scuole. Per contro, tra i premi ci sono facilitazioni nell’assegnazione degli alloggi e nella concessione dei permessi di viaggio; e niente caparre per noleggiare un’automobile.
Non è ancora chiaro come dalle zone di sperimentazione locale il sistema si estenderà dal 2020 a livello nazionale. I ricercatori cinesi che ci stanno lavorando escludono, almeno per ora, un unico “grande fratello” accentrato a Pechino: il Credito sociale, dicono, sarà piuttosto un ecosistema costituito da più piattaforme di varie dimensioni e portata, gestite da città, ministeri, fornitori di servizi online, quartieri, biblioteche e imprese.
Si sa già invece che diverse corporation digitali cinesi sono coinvolte nel progetto, sempre sotto il controllo del governo: tra queste Alibaba, Baidu e Tencent Holdings, la proprietaria di WeChat. Quest’ultima è nata e ha sede proprio a Shenzen, il cui aeroporto - come si diceva - è il primo a sperimentare il Credito sociale.
Non è esattamente un caso se a guidare la ricerca e l’applicazione nel Credito sociale sono le compagnie digitali, quelle che da tempo operano in Rete. Prima di tutto perché sono queste a raccogliere i big data su persone fisiche e giuridiche, quindi sono già una sorta di panopticon, come del resto Facebook, Google e le altre over the top elettroniche. Già oggi, per esempio, queste aziende sanno se acquistiamo on line innocui pannolini e cibo per gatti o brani di trap diabolica, superalcolici e scommesse.
Ma il compito è “naturalmente” affidato alle big digitali anche perché il sistema del rating nasce proprio in internet: da più di vent’anni eBay funziona così, a stelline, e allo stesso modo la valutazione reputazionale è alla base di tutti gli altri servizi commerciali on line, da Airbnb alle piattaforme di mobilità. È l’economia della reputazione: per capirci, quella che recentemente ha convinto Dolce e Gabbana a un video di contrizione per non perdere il mercato asiatico.
Dalle aziende e dai marchi, l’economia della reputazione tracima già oggi sui singoli, sui cittadini - e da qui le tante controversie sul cosiddetto “diritto all’oblio”, o più semplicemente la misurazione della nostra autorevolezza sulla base dei follower nei social network o sui like e le condivisioni che otteniamo con un singolo post. La persona diventa così un prodotto - o un brand - che ha un suo rating come ogni altro brand: una catena di hotel, un marchio della moda, un sugo pronto.
In altre parole, il Sistema di Credito Sociale cinese non nasce dal nulla, ma da una prassi che ormai è consolidata nella società contemporanea: quella in cui ciascuno di noi è continuamente sottoposto a valutazione reputazionale e al conseguente rating, come fornitore o cliente di servizi, ma anche come persona a tutto tondo. Fino alle conseguenze più estreme come quelle raffigurate da una recente pubblicità on line di The Inner Circle, sito di “dating selettivo” (come si autodefinisce) che per fare concorrenza a Tinder si rivolge così ai suoi potenziali clienti: «You’re a ten so date a ten» (sei un dieci, perciò esci con un dieci). Un’applicazione insomma del rating sociale al campo seduttivo-sessuale, almeno nelle promesse pubblicitarie (cit. Fabio Chiusi, autore del recente libro “Io non sono qui”, edizioni DeA, che affronta diversi di questi temi).
Più genericamente, anche una semplice ricerca su Google con il nostro nome è già una valutazione reputazionale. Non a caso googlare un nome è la prima cosa che fa un capo del personale nel valutare un candidato - o un single nel valutare un possibile partner.
Il Sistema di Credito Sociale voluto da Pechino non fa quindi che universalizzare e sistematizzare il mantra globale del “rate and be rated”, creando una sorta di patente a punti della buona o cattiva persona. Quella cinese è un’enfatizzazione e accelerazione della dinamica basata sulla valutazione continua delle persone che nel gigante asiatico è più estremizzata, forse anche grazie all’incontro con la cultura confuciana dell’armonia sociale e con quella autoritaria, pervasiva e securitaria del partito comunista.
È tuttavia interessante osservare come la case history di Rongcheng - e altre simili - mescoli aspetti elettronici (telecamere, algoritmi, internet etc) ad altri che invece sono del tutto fisici: i funzionari che valutano le persone girano per le strade a piedi, chiacchierando con i passanti, osservandoli, raccogliendo informazioni e segnandosi il tutto su un quadernetto di carta. Digitale e analogico insomma che marciano divisi per colpire uniti, all’interno della stessa visione, in un cerchio che parte dal virtuale per tornare al fisico e reincluderlo.
In Occidente le reazioni alla sperimentazione cinese sono molto diverse tra loro, divise tra quelle degli apocalittici e quelle degli integrati. I primi vi leggono la fine delle democrazie liberali e trovano questo passaggio dolorosamente coerente con la diffusione delle “democrature” autoritarie, con la trasformazione del soft power in “sharp power” digitale (cit. Paolo Messa). I secondi non vi vedono altro che un confortevole strumento di stabilizzazione delle società complesse, in cui ognuno ha un impatto sugli altri e quindi deve risponderne: se il vicino di casa non fa la differenziata e anzi lascia il materasso accanto ai cassonetti, cosa c’è di sbagliato se perde un po’ di punti sulla sua patente di cittadino ne paga le conseguenze? È giusto così.
Le reazioni più comuni rimandano però alle serie tv che hanno già ipotizzato questa deriva con toni distopici: il celebre episodio “Nosedive” (Caduta libera) di Black Mirror, che immaginava una società in cui a ogni persona era associato un punteggio da 1 a 5 in base alla sua reputazione pubblica, con premi e punizioni corrispondenti; ma anche la puntata “Majority Rule” della serie The Orville, in cui gli astronauti atterrano in un pianeta dove ogni cittadino schiaccia like o dislike sul petto dell’altro e i peggio quotati finiscono in un processo-talk show dove vengono condannati o assolti dai telespettatori via internet.
Fiction di successo che sembrano tuttavia avere una funzione più che altro apotropaica, scaramantica: le guardiamo e pensiamo che possa succedere solo lì, in quei mondi fantascientifici, non certo da noi. Così come guardando gli esperimenti cinesi siamo portati a ritenere che il sistema di credito sociale riguardi soltanto quel Paese, il suo assetto autoritario e il suo partito-Stato. Non sono cose che coinvolgono noi, pensiamo: pur essendo tutti ogni giorno indicizzati, taggati e sottoposti a rating; pur consegnando alle major digitali tutti i nostri dati, i nostri gusti, i nostri desideri, le nostre simpatie politiche, le nostre preferenze sessuali, i nostri volti, i nostri comportamenti quotidiani e qualsiasi altra cosa che ci riguardi. Noi non c’entriamo, noi siamo salvi.
O no?