Sfruttamento, condizioni da miseria, ricatti; dove i braccianti sopravvivono a stipendi da fame stipati come bestie da soma in una ex caserma del Comune. Viaggio tra i migranti di Saluzzo

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Il peccato originale è una mela. Rotolata fin qui dall’Australia, o forse lasciata scivolare da un dio dispettoso per ingarbugliare le stagioni. È ancora estate, nonostante il mese, i colori delle foglie gialle e arancioni, nonostante il vento tagliente, la pioggia, il ghiaccio, la neve. È ancora estate: è tempo di raccolta. Un eterno agosto che aggiunge un'altra tappa a questo Giro d’Italia, e nuove maglie, gialle e arancioni: sono il nuovo rosa.

Saluzzo, provincia di Cuneo, anno 2019, stagione chissà. Se la mela che vi guarda dalla tavola è di origine italiana, potrebbe venire da qui. Siamo in Piemonte, uno dei più grandi punti di raccolta di frutta dell’intero Paese: 12mila ettari coltivati, oltre 4500 aziende attive. Qui tutti sanno come si coglie una mela, sempre con il medesimo gesto, quello della lampadina, che nel linguaggio italiano dei gesti significa pazzia, oppure furto, o anche solitudine, se lo fai stringendo le dita. Sì, chi qui lo ripete, dall’alba al tramonto, rischia di impazzire, derubato di ogni dignità, lasciato solo, in una battaglia persa.

«Partiamo tutti i giorni all’alba in bicicletta, facciamo molti chilometri prima di arrivare al nostro campo, poi stiamo lì a raccogliere fino a sera, e ritorniamo a Guantanamo», così hanno ribattezzato il centro in cui stanno stipati a centinaia. Mamadou in effetti è tutto arancione, anche i pantaloni, è fluorescente dalla testa ai piedi e qualcuno scherzando lo chiama il Pompiere. Ma per queste dritte strade che tagliano le coltivazioni sconfinate, è meglio stare attenti e rendersi il più possibile evidenti. Anche se per quanto sfrecci con la fretta del Nord, è difficile non vedere queste colonne umane di ciclisti che ogni mattina ricominciano la gara, senza vincitori.
Non immigrati, ma migranti. Perché da quando sono arrivati non hanno mai smesso di pedalare, da Rosarno a Saluzzo, inseguiti da un clima bastardo. È l’esercito dei cosiddetti “braccianti”, ma muovono un sacco anche le gambe. Arrivano qui d’estate per coltivare pesche, mele, kiwi e, da qualche tempo, piccoli frutti, prevalentemente mirtilli. E ogni volta che qualcuno si inventa una nuova varietà più resistente, la stagione si allunga. Così oggi si raccoglie anche fino a novembre, quando a queste latitudini nevica.
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Per Coldiretti «i raccoglitori di frutta in Provincia di Cuneo sono poco meno di 10.000, tra italiani e stranieri, di cui 4.000 di origine africana». E poi aggiunge: «Il loro lavoro, di tipo stagionale, è indispensabile per il Made in Cuneo della frutta che, senza il contributo di migliaia di lavoratori stranieri, sarebbe a rischio».

«Il loro lavoro di tipo stagionale» è in realtà un tour che inizia d’inverno al Sud, la tappa di Rosarno è quella delle arance e dei mandarini, poi passa nel Cuneese, d’estate, per le pesche e le mele, ma la stagione si allunga. E per qualcuno nelle Langhe c’è la vendemmia per vini che verranno venduti fino a 50 euro a bottiglia, mentre il bracciante, quando gli va bene, ne prende meno di un decimo l’ora. E si ricomincia, senza mai finire.
«Che ti devo dire? La vita non è facile, ma almeno qua non mi ammazzano», ecco l’impeccabile sintesi di Max. Come il nome che si dà: se gli chiedi quello completo aspetta che sbarri gli occhi e poi ti ripete “Max”. Vent’anni, gambiano, cuffiette agli orecchi, al collo una medaglietta della sua Africa e il cappello rosso sempre in testa. Dice che non se lo toglie mai, neanche per dormire. Non se l’è tolto neanche la notte dei fuochi d’artificio per la festa patronale di San Chiaffredo, men che mai le cuffiette collegate al telefono teso a riprendere lo spettacolo pirotecnico.

Come lui tutti, smartphone alla mano, sono collegati con le famiglie per mostrargli che belle feste si fanno in Italia. I saluzzesi in realtà si tengono a debita distanza da loro, ma che importa, un motivo per festeggiare lo trovano lo stesso. “Ciao Salvini!”, “Italia 1, Salvini 0”, e giù esplosioni di fuochi e risate. E immortalano quei disegni artificiali mentre con artificio nascondono quello che c’è alle spalle. Letteralmente.
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Si chiama PAS, ovvero Prima Accoglienza Stagionali, ovvero Guantanamo. Un campo recintato, con una caserma convertita in dormitorio per contenere l’ondata di stagionali. Ma trabocca, e appena fuori dal PAS c’è anche un campeggio di fortuna, le tende strette l’una all’altra: è il Foro Boario. «Sempre meglio qui che a Rosarno – dice Max – là per qualsiasi cosa devi chiedere il permesso alla criminalità».
Dentro però sono organizzati. Due grossi specchi sono l’arredamento senza stanza di due barbieri concorrenti: la sera c’è spesso fila e tante teste da sistemare. Poi c’è il sarto per rammendare i vestiti usurati dal lavoro, il bibitaio per chi vuole concedersi il lusso di una bevanda fresca, persino uno sciamano, per chi vuole controllare se il suo futuro sta migliorando. E poi c’è Sissoko, copricapo bianco e ossa troppo rotte per stare ancora sui campi: qualsiasi cosa puoi immaginare lui può vendertela, o almeno così dice, e offre addirittura uno strano intruglio per notti focose. Ma qui di donne non ce ne sono.

«Quando rientrano la sera, tutti i negozi sono chiusi. Si sono organizzati così, con un grande spirito di comunità», spiega Fabio Chiappello, educatore della cooperativa Armonia che ha in gestione la struttura. Loro sanno che le condizioni non sono adeguate, ma almeno è qualcosa. Nella caserma c’è spazio a malapena per camminare tra i 368 posti per dormire, letti a castello naturalmente. Nel piazzale c’è qualche container con dentro le docce e i bagni, pochissimi, spesso intasati, perché qui vengono per lavarsi e per i propri bisogni almeno altre 350 persone da fuori dal PAS.

L’ex caserma è stata ristrutturata nel 2018 dal Comune di Saluzzo, con il contributo della Regione Piemonte. L’acqua, il gas e gli altri servizi vengono coperti dalle donazioni volontarie delle aziende e da una quota fissa, 20 euro al mese, versata da ogni migrante. Gli ospiti sono solo maschi, la maggior parte under 35 e originari dell’Africa subsahariana. Quasi tutti musulmani, si radunano nel piazzale del dormitorio, dove hanno allestito un’area per la preghiera con i tappeti rivolti alla Mecca, e ai cessi del PAS. Pregano tra i vestiti messi ad asciugare a terra, perché sui fili non c’è spazio per tutti.

Eccole qua le ruote dell’economia agricola del Saluzzese, ma nessuno vuole concedergli in affitto la propria casa. E comunque, in molti non potrebbero permettersela. «Prima gli imprenditori erano obbligati per legge a trovare un tetto ai lavoratori stagionali - dice il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni - Ora che non è più così si è generato il caos: immaginate cosa significhi per una cittadina di 17mila abitanti l’arrivo di mille persone che non sanno dove andare a dormire la sera». Un’impasse che negli anni ha spinto i braccianti a occupare strutture dismesse, poi smantellate.

L’area del Foro Boario, fuori dal centro, era diventata l’unico rifugio possibile per centinaia di persone. Una baraccopoli di tendoni, teli di plastica e materiali di fortuna, sprovvista di acqua e ogni altro servizio. Così è nato il PAS, da un Tavolo di lavoro tra i rappresentanti di diverse istituzioni locali, sindacati e terzo settore. Ma non è sufficiente. E ancora oggi in molti si trovano a dormire fuori, lungo il vialone del Foro Boario, nelle tende fornite da Caritas, Cgil e Cisl.

«Noi ce la mettiamo tutta ma da soli non ne usciamo vivi, non possiamo stare con l’ansia che appena piove per più di un giorno la situazione degeneri», si sfoga il primo cittadino, evocando quanto successo lo scorso luglio, quando dopo due giorni di pioggia incessante, un corteo di migranti ha bloccato il traffico nelle strade del centro per rivendicare a gran voce il diritto a una sistemazione degna.
C’è anche però chi preferisce dormire per strada piuttosto che in uno stanzone da condividere con altre centinaia di persone. Issa, lo chiamano Il Ciclista, ogni anno allestisce un’officina arrangiata davanti alla sua tenda: qui è il medico di un migliaio di biciclette, il mezzo fondamentale attorno a cui tutto gira, indispensabile per raggiungere i frutteti, e lui è capace di resuscitare ogni ferro vecchio. Ciascuna ruota gli ricorda la sua famiglia in Gambia, dove aveva un’officina insieme ai suoi fratelli. A Saluzzo adesso lavora nei campi il minimo per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. E proprio questo pezzo di carta è allo stesso tempo scopo e cappio al collo dei migranti: basta un giorno in meno e non hai più diritto di stare in Italia. E non contano quelli che hai effettivamente lavorato, ma solo quelli che figurano.

«Magari lavori 26 giorni al mese, ma nella busta paga ne risultano 13, che fai? Ti ribelli e passi per il rompicoglioni di turno così poi nessuno ti prende più a lavorare?», cosa rispondere al Ciclista? Issa è solo uno dei tanti a denunciare il sistema del lavoro “grigio” ormai consolidato in molte aziende del Saluzzese: finti contratti che sulla carta rispettano i parametri degli accordi sindacali locali, ma nella realtà mascherano orari di lavoro molto più lunghi per retribuzioni da fame.

«Lo sfruttamento avviene quando il datore di lavoro deve dichiarare il numero di giornate di lavoro svolte dal bracciante: qui non abbiamo mai visto una busta paga in cui fossero segnate tutte», racconta Virginia Sabbatini, operatrice legale del Progetto Presidio, avviato nel 2014 dalla Caritas di Saluzzo. «In media nei campi si lavora tra le nove e le dieci ore al giorno, contro un massimo di sei previsto dal contratto».
Ma da Coldiretti negano che esista uno sfruttamento diffuso della manodopera e puntano il dito contro i “comportamenti pesantemente sleali lungo la filiera frutticola”, che impongono ai produttori saluzzesi “tempi di pagamento lunghissimi e prezzi in caduta libera, insufficienti persino a coprire i costi di produzione”. Da qui, secondo la maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell'agricoltura italiana, il rischio che il comparto subisca “infiltrazioni da parte di soggetti che sfruttano la drammatica situazione”, con titolari di cooperative non ben identificate che si presentano nelle aziende frutticole offrendo manodopera a basso costo. Insomma il problema, per Coldiretti, viene dall’esterno, dai “caporali che rischiano di insinuarsi nel nostro territorio”, terra invece di “imprenditori onesti”.

«Nel 2010 ho partecipato alla grande rivolta dei braccianti scoppiata a Rosarno, ma ho capito che è inutile - sostiene Issa - se ti ribelli al padrone puoi vincere una causa in tribunale, ma perdi per sempre il tuo lavoro». E quando nel profondo Nord, come nel Cuneese, le prestazioni vengono regolate da un contratto, denunciare i “padroni” diventa ancora più difficile. Su tutto prevale la certezza che senza un lavoro verrebbe negata automaticamente la possibilità di soggiornare in Italia. Senza contare che il contratto lavorativo spesso non basta.

Mamadou, il Pompiere, ha trent’anni e viene dal Mali, il suo piatto preferito è la pizza, Margherita. Mentre entra nella questura di Cuneo ha con sé una grande pila di fogli e un bel sorriso. Quando esce, dopo pochissimo, non parla. Seduto in auto, piega il capo in avanti e con i polpastrelli fa pressione sulla fronte. Gli occhi chiusi. Non parla. Lui non ha la forza neanche di dirlo: per la quinta volta gli è stato detto di tornare all’ambasciata del Mali a Roma per chiedere, sapendo che non l’avrà, una copia del suo passaporto. “Passaaapooortooo!”, gli ha urlato ripetutamente in faccia il funzionario di Cuneo. Come se fosse una sua dimenticanza. Niente passaporto, niente rinnovo. Non importa per quante ore al giorno ti spacchi la schiena a quattro euro l’ora. Ma nell’attesa si deve tornare a cercare di riposare per una nuova giornata di lavoro. Anche Mamadou è ospite del PAS: «Siamo in troppi lì dentro, non riusciamo a dormire».

A pochi chilometri dal dormitorio, c’è anche un’altra struttura, per i più fortunati. Una casa su due piani nei pressi del cimitero, lì sono “solo” in quaranta. A gestirla c’è sempre Fabio Chiappello: “Questa struttura è destinata a chi ha un contratto più a lunga scadenza - spiega - Ma non può bastare, ogni Comune dovrebbe averne una”. Eppure, solo altre tre cittadine oltre a Saluzzo hanno aderito al progetto “Accoglienza diffusa”, che prevede la messa a disposizione dei braccianti di strutture demaniali come questa. E l’emergenza abitativa è destinata a peggiorare. I lavoratori di origine africana aumentano di anno in anno: nel 2016 erano il 30% degli stagionali, l’anno successivo il 34, nel 2018 il 43. E intanto si allunga il periodo della raccolta con mele, una varietà australiana, che maturano anche fino a dicembre.

«Più migranti e più a lungo, senza alcun aiuto dalle istituzioni: è la tempesta perfetta», dice il Sindaco, parlando di una piaga che è anche la principale economia del territorio. Iniziano ad arrivare a Saluzzo da maggio e sul sellino vanno di azienda in azienda a chiedere di lavorare per la stagione. È una gara a chi arriva prima. «Il problema è che in questo territorio ci sono 7000 aziende e nessuno spirito di cooperazione: manca un sistema centrale di distribuzione della manodopera», lamenta ancora Calderoni.

Ma non ci sono solo lo sfruttamento e l’emergenza abitativa. Anche qui è arrivato il caporalato, seppure in una veste più ripulita: qui si tratta di erogatori di servizi, finanche sindacali. Come nel caso di Momo, un africano che, secondo la Procura di Cuneo, veniva pagato dai suoi connazionali per ottenere un posto in alcune aziende agricole. Ma anche dagli stessi imprenditori per un servizio di mediazione che facesse tenere la bocca chiusa ai braccianti sulle condizioni contrattuali.
“Era un amico, poi è finito in questa brutta storia e si è fatto sei mesi di custodia cautelare in carcere. Penso abbia pagato anche per colpe non sue”, sostiene Lele Odiardo, da anni impegnato sul territorio con il Comitato Antirazzista di Saluzzo. Dieci anni fa, lui e la sua associazione erano stati i primi a rompere il silenzio sullo sfruttamento dei migranti, oggi sono ancora ritenuti troppo radicali dai più.

Anche la Caritas è attiva da tempo per contrastare il fenomeno e dal 2016 ha avviato il progetto Saluzzo Migrante: uno sportello di ascolto, supporto e contrasto allo sfruttamento lavorativo. Due anni fa la sede è stata spostata nel centro di Saluzzo, nel tentativo di tenere viva l’attenzione dei cittadini sulle problematiche dei migranti. Qui, molti di loro arrivano la mattina e con una piccola cauzione prendono in prestito una bici, per poi restituirla la sera. Alessandro Armando, responsabile del progetto, lo definisce un antenato del “bike sharing”, visto che esiste ormai da dieci anni: «All’inizio non capivamo perché le prime richieste dei lavoratori fossero una coperta e una bici - racconta - Ora sappiamo che la bicicletta è lo strumento principale per fare le due azioni che motivano le persone a venire qui: la ricerca di un lavoro e lo svolgerlo nel momento in cui lo trovano».

Oltre al presidio fisso è a disposizione dei lavoratori un ambulatorio medico e un punto di assistenza legale, oltre che una doccia calda, per chi non avesse trovato posto altrove. Qui è un viavai di persone e di scarpe sporche di terra, che il mercoledì si mettono in fila per la “Boutique du Monde”, una stanza adibita a emporio che distribuisce abiti, scarpe e generi alimentari. Accanto c’è un’altra stanza, in cui è stata arrangiata una cappella interreligiosa. Ci sono i tappeti per pregare, c’è un’icona della Madonna e una del continente africano. C’è una croce con sopra scritto “misericordia” e qualcuno ci ha messo sopra una casacca arancione catarifrangente. È l’ultima e la prima tappa di questo eterno Giro d’Italia, una via Crucis da percorrere a pedalate, su e giù per lo Stivale.

*Lorem Ipsum è un collettivo di giovani giornalisti