Ex Ilva, le voci di Taranto: «Noi siamo l’esempio lampante della violazione dei diritti umani»

La città è stata presa per sfinimento. Tra lo Stato, i veleni, i Riva e infine Arcelor Mittal. E tra gli operai il clima di sconforto è montante

ilva-jpg
Il sole bagna Taranto, in questo inizio novembre di pioggia dappertutto. Ma è un sole surreale, con il mare grosso e il vento in faccia. E si capisce che sta di nuovo cambiando il tempo. Sotto l’ombra dell’acciaieria che tutti vogliono e nessuno guarisce. Quella che rischia di chiamarsi ex Arcelor Mittal, dopo essere stata per qualche mese ex Ilva. E comunque qui, per tutti, è ancora l’Italsider. Come a ricordare che è stata la mano pubblica ad accendere la danza macabra. L’acciaieria più grande d’Europa, cassaforte di futuro per migliaia di operai di mezza Puglia. E però anche la fabbrica dei tumori e del minerale avvelenato. E allora, mentre Arcelor Mittal se ne va, qualcuno dice che forse adesso basta: lo stabilimento riposi in pace, la guerra è finita. Chiusura, bonifica, riconversione.

«L’immunità penale è un alibi, una semplice scusa», dice Luca Contrario, coordinatore della rete Giustizia per Taranto, quella dei braccialetti gialli, che ha tentato il dialogo con Luigi Di Maio e poi è passata alla dura contestazione nell’estate del 2018. «Quella fabbrica non è economicamente vantaggiosa. Produrre a quelle condizioni - 5 milioni di tonnellate l’anno, con 10 mila operai e le prescrizioni ambientali - non conviene». Mittal cerca di andare via o di contrattare col governo ulteriori condizioni migliorative. Due su tutte: la riduzione del canone e proroghe ulteriori sul piano di investimenti ambientali», prosegue Contrario. Che lamenta una cosa su tutte: «Manca una exit strategy, nessuno ha mai lavorato fino in fondo a un piano di riconversione ecologica della nostra economia».

Intanto scotta la questione di AFO2, l’altoforno che insieme al 4 è il cuore della zona a caldo dell’Ilva, quella delle colate. Secondo la magistratura dovrebbe essere spento entro il 13 dicembre, perché insicuro. «La facoltà d’uso di Afo 2 è stata consentita a patto che si facessero interventi. E Mittal se ne va perché non è in grado di attivare le prescrizioni che le sono state imposte», spiega ancora Simona Fersini,presidente del Comitato dei Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, quelli dell’apecar che riaccese le proteste cittadine qualche anno fa, durante l’amministrazione Vendola e la crisi dei Riva. «Perché il destino di Taranto non può essere quello di Genova, dove hanno spento l’area a caldo incompatibile con la vita umana?». E continua: «Si sono presi un bidone. Una fabbrica economicamente insostenibile, piena di amianto da bonificare. Dopo l’ultimo incidente le cose sono peggiorate anche nella zona a mare, visto che non si può più usare lo sporgente 4 per lo scarico del minerale. Si sta usando un altro sporgente, non adeguato, sostenendo costi ulteriori».

Anche i sindacati sono esasperati e chiedono una soluzione giusta, definitiva. «Con l’abolizione dello scudo penale è stato concesso un alibi all’azienda e per questo chiediamo di ripristinarlo. Non si possono sottoscrivere accordi e poi tirarsi indietro dopo pochi mesi», spiega Pino Gesmundo, segretario regionale della Cgil, che non elude la questione ecologica. «Tenere in vita la fabbrica è forse l’unico modo per intervenire con bonifiche in quell’area e con azioni di risanamento ambientale necessarie e costose, che altrimenti abbiamo difficoltà a immaginare». Ma non crede nella strada della chiusura: «Con questo accordo c’era un patto fragile tra la città e il sito produttivo. Ora crollerebbe tutto, si rischia una bomba sociale».

Tra gli operai il clima di sconforto è montante. «Prima di Arcelor Mittal alcuni di noi erano delusi, altri illusi, altri ancora già disillusi. Qualcuno è andato via, altri sono stati messi da parte», racconta Giuseppe Aquaro, operaio all’officina meccanica, membro del Collettivo Morricella, gruppo degli amici di Antonio Morricella, morto a 35 anni investito da una colata di ghisa il 12 giugno 2015. «Con il passaggio a Mittal, la situazione è stata chiara da subito. Hanno riparato i vetri rotti di qualche finestra, sistemato alla meglio i bagni, ma non ci hanno dato strumenti e pezzi di ricambio per svolgere il nostro lavoro. Nessuna azione incisiva sul piano sicurezza. Ora siamo tutti disillusi. Presi a calci tra chi ci considera complici del killer e chi ci disegna come ansiosi di farci mantenere dallo Stato. Uno Stato che ancora non ci ha detto se il nostro lavoro serve all’Italia e come si esce da questa ennesima crisi».

Intanto la fabbrica resta una minaccia fumante sempre accesa per gli abitanti del quartiere Tamburi, in cui nei mesi scorsi sono state chiuse le scuole a causa dell’inquinamento e in cui continuano le ordinanze-coprifuoco nei wind days. «Noi siamo l’esempio lampante della violazione dei diritti umani, a partire dalla salute fino allo studio dei bambini», incalza Celeste Fortunato, che insieme ad altre donne e mamme ha dato vita al movimento Tamburi Combattenti. E sulla fuga di Mittal incalza: «Siamo persone comuni. Non siamo politici, sindacalisti, economisti. Ma non accettiamo che Mittal ci prenda in giro. Dietro questo abbandono c’è una strategia economica. La crisi dell’acciaio, l’Afo 2, il degrado degli impianti: Mittal sapeva tutto prima di partecipare alla gara. È tutta una questione di soldi, ma in mezzo ci siamo noi e i nostri figli».  

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso