Per salvare il pianeta impegniamoci tutti: cosa possiamo fare noi, cosa devono fare i governi
Un movimento di giovani ha svegliato le coscienze. Ma non basta elogiarlo: servono azioni forti e cambiamenti nella vita di ciascuno. Anche in Italia, uno tra i paesi dove il riscaldamento globale si manifesta più rapidamente
Abbiamo perso un altro anno e il clima del pianeta viaggia inesorabile verso il punto di non ritorno. Ma non tutto quello che è accaduto nel 2019 è da buttare. Da un lato c’è il fallimento di Cop 25, la “Climate change conference” organizzata a dicembre dalle Nazioni Unite a Madrid: un’occasione mancata per la decisione dei grandi inquinatori, a cominciare da Cina e Stati Uniti, di non applicare l’accordo di Parigi 2015 sulle quote di emissione di diossido di carbonio, la CO2 che in eccesso è responsabile dell’effetto serra.
Dall’altro, per i governi e i cittadini europei potrebbe cominciare oggi un percorso verso un’economia climaticamente neutra: il Green deal, il patto verde annunciato dalla presidente della Commissione Ue, Ursula van der Leyen, che vuole portare l’Europa ad azzerare entro il 2050 il bilancio tra gas serra prodotti e quelli eliminati. Una sfida da almeno cento miliardi su cui costruire un nuovo sistema industriale, commerciale e culturale più rispettoso dell’ambiente: perché è l’unica salvezza per i nostri bambini, perché lo chiedono gli studenti del movimento mondiale “Fridays for future” lanciato dalla protesta di Greta Thunberg, ma soprattutto perché ondate di calore, alluvioni, innalzamento del mare e venti oltre i cento chilometri orari stanno già anticipando il volto spietato che potrebbe avere il futuro della Terra. E noi, affacciati sul Mediterraneo, siamo in prima linea. [[ge:rep-locali:espresso:285339260]] Con questo numero speciale, facciamo un giro del mondo e d’Italia per raccontare le crisi climatiche e ambientali che, una dopo l’altra, richiedono decisioni immediate. Dall’America Latina all’Asia, dall’Amazzonia al fiume Brahmaputra, dalla risalita dell’acqua di mare nel Po alla diffusione di scorpioni e ai rovesci tropicali sulle montagne della Lombardia. Il clima sta presentando il suo conto e poco importa dividersi ora, come fanno alcuni scienziati, sulle cause effettive del progressivo riscaldamento. Che sia l’effetto risaputo della combustione di idrocarburi e carbone, o dell’immissione naturale in atmosfera di gas serra prodotti dall’attività vulcanica e dalle rocce sedimentarie durante i forti terremoti, oppure di una maggiore radiazione solare, o complessivamente di tutti e tre i fattori, è necessario intervenire per mitigare l’aumento di diossido di carbonio. Lo hanno ribadito poche settimane fa 11.258 studiosi, che hanno aderito all’appello dell’americano William J. Ripple, professore di ecologia dell’Università dell’Oregon, e di altri colleghi riuniti nell’Alleanza degli scienziati del mondo (Alliance of World Scientists): «Abbiamo l’obbligo morale di mettere in guardia con chiarezza l’umanità su ogni minaccia catastrofica e di dire le cose come stanno», comincia così la lettera che ha fatto il giro di Internet, accompagnata dai grafici sullo stato di pessima salute della Terra e dalle proposte per invertire il conto alla rovescia: «La crisi climatica è arrivata e sta accelerando più rapidamente di quanto la maggior parte degli scienziati si aspettasse. È molto più grave di quanto previsto e minaccia l’ecosistema naturale e il destino dell’umanità. Particolarmente preoccupanti sono i punti di non ritorno potenzialmente irreversibili e le reazioni aumentate dalla natura (atmosferiche, marine, terrestri) che potrebbero portare a un catastrofico pianeta serra, ben oltre il controllo dell’uomo».
In Italia i dati pubblicati da Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, sono apparentemente positivi per quanto riguarda la produzione di gas serra: dal 1990 al 2017 è infatti diminuita da 518 a 428 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (di cui il diossido di carbonio contribuisce con l’81,6 per cento del totale, insieme con il metano e altre molecole). Il calo non è però dovuto soltanto all’impiego di energia da fonti rinnovabili e all’incremento dell’efficienza energetica. È soprattutto la crisi economica e la delocalizzazione all’estero delle fabbriche ad aver abbassato le emissioni italiane: -2,7 per cento nei trasporti, -23,6 per cento nella produzione di energia, -45,2 per cento nell’industria.
Una riduzione regionale dei gas serra, ovviamente, non influisce sull’andamento climatico mondiale. I nove anni più caldi del pianeta sono stati registrati dal 2005 in poi. Nel secolo dal 1880 al 1980 la temperatura globale raggiungeva un nuovo record positivo ogni tredici anni circa. Dal 1981 a oggi questo avviene ogni tre anni, con tre massimi di fila dal 2014 al 2016. E nel 2018 l’anomalia della temperatura media mondiale rispetto al periodo 1961-1990 ha raggiunto +0,98 gradi. Ma l’Italia è tra le nazioni in cui il riscaldamento si manifesta più rapidamente, con l’anomalia record di +1,71 gradi rispetto allo stesso periodo di riferimento. In aumento anche la temperatura superficiale dei mari italiani, con una media di +1,08 gradi e un picco nel 2018 in agosto di +2,2 gradi.
Le mappe di Ispra mostrano al Nord un incremento ancor più marcato che comprende la regione centrale della Pianura Padana, con le Prealpi lombarde, la provincia di Milano e il Piemonte meridionale fino ai confini dell’Appennino Ligure. Mentre nel resto d’Italia l’aumento termico è di 0,38 gradi ogni dieci anni, in queste aree la temperatura media è cresciuta di un grado ogni dieci anni sul periodo 1981-2010, con un’accelerazione di circa due gradi dal 2015 a oggi. Un andamento confermato dall’estate 2019 che ha mostrato anomalie di +3,9 gradi per le massime e di +3,6 gradi per le minime.
Più calore nell’atmosfera provoca perturbazioni sempre più violente, oltre al rialzo dello zero termico e la drastica riduzione dell’accumulo di neve sui ghiacciai alpini. Una ricerca dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera, guidata dal meteorologo Federico Grazzini, ha scelto proprio l’Italia centro-settentrionale come area di indagine, poiché è una delle regioni europee con la maggiore frequenza di eventi estremi. I “monsoni” padani diventano così un laboratorio con cui affinare le previsioni meteo e studiare gli effetti su larga scala: in caso di aumento di 3 gradi della temperatura media mondiale, in Europa si prevedono perdite annue di 190 miliardi di euro.
La transizione resta la fase più delicata. I governi devono infatti evitare che accelerazioni troppo repentine provochino crisi e disoccupazione, nei settori più penalizzati da eventuali tasse sulla produzione di CO2 o sull’impiego di combustibili fossili. A questo proposito, la Commissione europea ha presentato il suo Green deal con un grafico e una didascalia rassicuranti: in Europa «tra il 1990 e il 2018 le emissioni di gas a effetto serra sono diminuite del 23 per cento, mentre l’economia è cresciuta del 61 per cento».
Nell’attesa dei governi, i cittadini possono fare molto: sostenere la piantumazione di alberi ad alto fusto che meglio assorbono il diossido di carbonio, premiare le etichette che identificano i prodotti più efficienti sotto il profilo energetico, consumare meno carni da allevamento intensivo. L’accordo di Parigi (Cop21) impegnava gli Stati a mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre industriali, come obiettivo a lungo termine. Il traguardo per il momento è lontano. Ancora nel 2017 l’Unione Europea ha rilasciato nell’atmosfera 4,323 miliardi di tonnellate di gas serra: nell’ordine, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Polonia e Spagna i primi sei Paesi produttori. Ma senza la partecipazione agli accordi di Cina, Stati Uniti, India, Russia, Giappone e Brasile, che insieme superano i 27 miliardi di tonnellate all’anno, il nostro mondo non potrà salvarsi.