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Il successo di Sánchez non è solo una speranza che rinasce, nel quarto paese più importante dell’Unione. Ma può e deve rappresentare un insegnamento vitale per il Pd italiano e per la sinistra europea tutta, di fronte alla sfida dei nazional-populisti. Per l’idea di società che propone, la «narrazione»: il primo fra gli ingredienti che impastano la politica, e le leadership. Ma anche per la coerenza strategica e l’abilità tattica: le due gambe senza le quali non si va da nessuna parte, e qualunque orizzonte rimane un miraggio. Il tutto condito da un po’ di fortuna, che non guasta mai in questi casi (aiuta gli audaci).
Sull’idea di società, inutile girarci attorno: Sánchez fa risorgere il socialismo spagnolo su un terreno felicemente progressista. La sua Spagna è europeista, ambientalista, femminista. Plurale, perché cerca il dialogo con le autonomie anziché lo scontro. E sociale. Sánchez ha proposto di aumentare il salario minimo, di alzare le tasse sui redditi più alti e sulle grandi corporation, di introdurre una patrimoniale: insomma di affrontare il grande tema delle disuguaglianze. I diritti vecchi e nuovi che si tengono insieme, si rafforzano a vicenda, proprio come nella migliore tradizione della sinistra. La destra peggiore è venuta fuori anche in Spagna, certo: ma è stata sconfitta, in modo chiaro. Perché dall’altra parte ha trovato un paese democraticamente maturo, fatto di cittadini consapevoli e forse perfino ottimisti, che hanno visto nel Partito socialista e nel suo leader l’alternativa ai fantasmi del passato.Ora, sarebbe troppo facile dire che Sánchez ha vinto perché ha fatto tutto il contrario di quello che proponeva da noi il Pd a guida renziana: che infatti è sceso al minimo storico. In realtà nei governi Pd ci sono state diverse misure di orientamento progressista. Ma erano timide, ambigue, accompagnate da messaggi e interventi di natura opposta. Le norme contro il capolarato, assieme all’abolizione dell’articolo 18. Una buona legge sulle unioni civili (cui manca solo l’adozione), ma scarso coraggio sulla cittadinanza ai figli di immigrati. Il reddito di inclusione partito tardi e male, a fronte dell’abolizione indiscriminata delle tasse sulla prima casa, anche per i più ricchi. Più soldi in tasca per i ceti medi, gli 80 euro; ma la proposta di un salario minimo legale arrivata solo nel gennaio 2018, quando ormai si era in campagna elettorale. Il tutto condito da una narrazione e perfino da atteggiamenti, quelli del leader e dei suoi collaboratori, lontani dalla tradizione della sinistra. Difettavano perfino di europeismo, strizzando l’occhio ai populisti, ignoravano una questione tanto importante qual è l’ambiente. Guardava al centro, Matteo Renzi, in direzione opposta a quella di Sánchez. E del resto ancora oggi nel Pd alcuni preferiscono quella sponda, più che i socialisti e la sinistra europei.
Ma l’esito delle elezioni spagnole deve insegnarci qualcosa anche sul piano della coerenza strategica. E forse perfino della tattica. Pochi ricordano che quando Sánchez divenne per la prima volta segretario del Psoe nel 2014, veniva considerato poco più che un ingenuo belloccio: messo lì per soddisfare il grande pubblico, che tanto poi c’era la solita nomenclatura a comandare. Ebbene, da allora le cose sono molto cambiate. Sánchez ha vinto le sue battaglie proprio contro i maggiorenti del partito, che mai avrebbero voluto l’alleanza con Podemos o con i catalani (li chiamavano addirittura golpisti) e che acconsentirono alla nascita dell’ultimo governo Rajoy. Contro quella scelta Sánchez si dimise, nel 2016, anche da deputato. Sfidò apertamente la nomenclatura in nuove primarie (da notare: quella nomenclatura «centrista» aveva la sua roccaforte nell’Andalusia sussidiata e clientelare). La sconfisse, mobilitando nuove energie che pochi credevano esistessero ancora. In questo senso, la sua traiettoria è davvero la nemesi di quella di Renzi: lui era partito per rottamare, ha finito per allearsi con i cacicchi del Sud, o per candidare Casini a Bologna, mentre i giovani dirigenti più preparati (i migliori, spesso) venivano messi ai margini.
Nel giugno 2018 Sanchez diventava primo ministro, sfiduciando Rajoy, alla testa di una larga alleanza che includeva Podemos e gli indipendentisti. Lui che era stato solo secondo nelle urne, dieci punti dietro i popolari. L’asse della politica spagnola virava di 180 gradi, grazie a quello che in fondo è un classico ribaltone parlamentare. Ma la buona tattica è questo: capacità di cogliere il momento opportuno, con spregiudicatezza. E poi, in un sistema proporzionale (come il nostro, voluto dal Pd), le coalizioni si formano dopo il voto, nulla è già scritto in partenza. Adesso, meno di un anno dopo, l’azzardo di Sánchez è stato premiato dagli elettori. Ampiamente: i socialisti sono diventati primo partito e i popolari, senza più il potere e travolti dagli scandali, sono crollati.
Certo, c’è stata anche fortuna. Un’economia in crescita, peraltro in modo sbilanciato (la disoccupazione resta molto alta): cosa che reclama politiche sociali, di cui peraltro ora ci sono le risorse. Anche, paradossalmente, l’emergere di un partito di estrema destra apertamente franchista, che ha spaventato molti elettori portandoli alle urne e facendoli convergere sulla grande forza alternativa, i Socialisti. Infine il sistema elettorale di attribuzione dei seggi, che favorisce i partiti maggiori, con il centro-destra per la prima volta diviso in tre tronconi. Ma la fortuna aiuta gli audaci, come si diceva. Ha aiutato chi maggiormente ha osato: per visione, coerenza strategica, abilità tattica. Con in più la capacità di proporre una classe dirigente nuova, giovane e preparata, contro i vecchi potentati incancreniti. Sánchez oggi è forse il più importante premier di sinistra nel mondo. E guida il primo partito socialista d’Europa. Dopo aver vinto battaglie difficili e coraggiose, in cui si è giocato tutto. Saprà imparare il nuovo Pd da questa storia?