Cerignola, da dove partono le bande criminali che terrorizzano le autostrade
Rubano auto, incendiano Tir. Intrappolano i furgoni portavalori con azioni violente e spettacolari. Da Nord a Sud. Saldando i loro interessi con quelli delle cosche più pericolose. Per profitti da capogiro
La tecnica è quella dei predatori seriali: sono come il lupo che azzanna il puledro a pochi metri dalla stalla. Scatenano il panico nelle autostrade con ruspe blindate, sventagliate di kalashnikov e bombe a mano. Effetti cinematografici spettacolari, di quelli che fanno parlare per intere settimane. Tutti quanti, tranne i testimoni: loro come per incanto perdono la memoria.A Cerignola, provincia di Foggia, sessantamila abitanti e un territorio diviso fra quattro clan, c’è un quartiere che si chiama San Samuele ma che per tutti ormai è “Fort Apache”. Lo chiamano così i vecchi, i bambini e persino i poliziotti. È da qui che ogni settimana, a ritmo serrato, partono interi gruppi di fuoco pronti a seminare il terrore in tutta Italia.
Bande armate in perfetto stile paramilitare specializzate in assalti ai Tir e ai furgoni portavalori, che dalla Puglia ora si stanno spostando anche all’estero. Colpi rozzi, spesso violenti. Ma chi pensa di confinarli a episodi di basso profilo criminale commette un grave errore. Perché queste scorribande generano profitti da capogiro: gli investigatori calcolano che ogni rapina frutti fino a 8 milioni di euro. Soldi che finiscono direttamente nelle tasche di una delle succursali della mafia pugliese più spietata, ambiziosa e in rapida ascesa: una nuova organizzazione criminale che si è specializzata soprattutto in traffico di armi da guerra, tanto da aver trasformato Cerignola nell’arsenale più grande d’Italia. E che ricicla il denaro liquido acquistando hotel di lusso e aziende agricole.
A capo di questi predoni, come ricostruito dall’Espresso, ci sono clan che hanno contatti con le cosche più attive della zona. E che stanno facendo affari d’oro anche con la ’ndrangheta calabrese. Dal basso Tavoliere, inoltre, i loro interessi si stanno spostando nel cuore della Lombardia. Ma il cervello dell’organizzazione rimane ben radicato in Puglia, dove le bande criminali possono contare su un muro compatto e impenetrabile fatto di paura e silenzio.
ASSALTI PARAMILITARI Le loro scorribande, nelle questure d’Italia, sono già diventate epiche. Ogni assalto viene studiato nei minimi dettagli grazie a una capillare rete di informatori che procura alle bande la mappa del tragitto che le prede - i furgoni portavalori - dovranno compiere per consegnare la merce. E da lì parte il piano di azione. Alla base della piramide ci sono i ladri di mezzi di trasporto: rubano le auto, i camion e persino le ruspe che serviranno a bloccare le strade e a intrappolare i furgoni, quasi sempre stanati a pochi chilometri dalla loro destinazione finale. Poi entrano in azione i rapinatori, che in tutta Italia sono suddivisi in dieci gruppi di fuoco, ciascuno di loro composto da una ventina di persone. In tutto un esercito di circa 200 “soldati” arruolati quasi sempre in carcere. Sono loro a fare il lavoro sporco: impugnano sofisticate armi da guerra che non si fanno problemi a utilizzare.
Di recente, le loro tracce si sono spinte fino in Germania: armati di Ak47 e furgoni blindati progettavano il colpo del secolo nello Stato federato della Renania. Uno dei loro ultimi assalti è stato qualche settimana fa sulla A14, una delle arterie stradali più battute dai predoni. Stavolta i banditi hanno preso di mira un furgone carico di monete d’oro e diretto in una banca di Taranto. Il blitz è durato poco più di un minuto: il commando di sei persone ha bloccato il passaggio al furgone sbarrando la strada con due Suv. Poi hanno colpito il vigilantes alla testa con il calcio della pistola, lo hanno immobilizzato e sono scappati con più di centomila euro di bottino attraverso un varco stradale, preparato con cura prima dell’assalto. Stavolta non hanno avuto bisogno di sparare, ma quasi sempre i loro colpi lasciano una scia di fuoco e pallottole.
Lo scorso gennaio a Mellitto, Bari, un furgone diretto agli uffici postali di Matera e carico dei soldi di migliaia di pensionati, si è trovato di fronte un camion in fiamme. Quando le guardie giurate sono scese dal mezzo non potevano credere ai loro occhi: dal nulla sono comparse due ruspe blindate che si sono schiantate contro il furgone fino a sfondarne le pareti. «Sembrava di essere in un film, con le banconote che volavano ovunque», raccontano oggi i tre autisti. Prima di fuggire con quasi due milioni di euro in contanti, i predoni hanno lasciato la loro firma: una sventagliata di mitra contro l’asfalto.
Ricorda Fausto Lamparelli, dirigente del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, che negli ultimi anni ha indagato più di 130 persone: «In alcuni casi hanno preso in ostaggio interi paesi, hanno abbattuto palazzi con le ruspe, hanno utilizzato armi da guerra potenzialmente devastanti. Perché si tratta di bande che, nonostante la precisione degli attacchi e la perizia verso i dettagli, affermano il loro dominio creando il caos e usando la violenza in maniera spregiudicata. Ed è un miracolo che non ci è ancora scappato il morto».
L’ASSE FOGGIA - MILANO Ultimamente molti di questi attacchi si stanno spostando nel Nord Italia. Lo scorso gennaio a Peschiera Borromeo, alle porte di Milano, un assalto si è concluso con una sparatoria. Stesso copione a Cologno Monzese, sempre nel Milanese: i rapinatori sono ancora latitanti ma le forze dell’ordine sono quasi certe che anche dietro questo colpo ci siano loro.
Del resto, è proprio in Lombardia che risiedono alcuni dei capi più importanti della mafia foggiana, legati a doppio filo con i clan di Cerignola. A differenza della ’ndrangheta o di Cosa nostra, infatti, la Società, la Quarta Mafia d’Italia, considera la criminalità predatoria non un fastidio da reprimere ma anzi una fonte di guadagno. E così i boss vengono a patti anche con i gruppi criminali ancora non direttamente affiliati, che sono però tenuti a pagare una propria quota societaria.
Nel centro di Milano, per esempio, vivono i fratelli Piarulli, pilastri della mafia cerignolana e punto di riferimento al Nord per la malavita pugliese, anche per il traffico di droga. Mentre dal lussuoso soggiorno in un appartamento di via Savona, quartiere Navigli, il boss Giuseppe Gallone, da poco finito in manette, sognava di affondare i suoi artigli anche nel capoluogo lombardo. Seduto sul divano di casa, riuniva i complici, pianificava omicidi, parlava di armi e di partite di droga. Dai Navigli dirigeva traffici e alleanze con la Società foggiana e la mafia garganica, cercando di avvicinarsi anche ad altre organizzazioni criminali. I carabinieri lo hanno arrestato poco prima che riuscisse a ordinare una plateale esecuzione, proprio all’ombra della Madonnina.
VINO E HOTEL DI LUSSO A cristallizzare la prepotente ascesa della mafia di Cerignola è anche l’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia, che ne sottolinea l’alta capacità imprenditoriale: «Si connota come mafia degli affari, svincolata dalla rigidità tipica delle strutture fondate sui vincoli di familiarità e proiettata al raggiungimento di obiettivi a medio e lungo termine», scrivono gli investigatori, «non risente delle ripercussioni dei riassetti e delle fibrillazioni in atto nelle vicine aree e, partendo da un forte e radicato controllo del proprio territorio, attua una strategia operativa di progressiva espansione a livello nazionale».
Di sicuro, in tutta Italia, stanno arrivando come un fiume in piena gli investimenti dei clan cerignolani, che prediligono il settore alberghiero e quello agricolo. Tempo fa, tra Ravenna e Forlì, gli uomini della Direzione Investigativa Antimafia hanno sequestrato aziende, quote societarie e quasi 200 immobili tra fabbricati e terreni agricoli per 50 milioni di euro. Beni sui quali avevano affondato le mani alcuni pregiudicati legati ai clan cerignolani Piarrulli-Ferraro. Interessi criminali che si sono estesi anche sulla zona del lago di Garda, in Lombardia, terra rigogliosa di imprese vitivinicole e hotel di lusso. È il nettare degli dei, infatti, una delle attività più ambite dai clan pugliesi: di recente, per esempio, è finito in manette il “re del vino” di Faenza Vincenzo Melandri, che attraverso una decina di finte società ripuliva il denaro sporco dei cerignolani.
Ma le indagini sono lente, spesso rese impossibili dalla reticenza dei testimoni e da regole arcaiche e impenetrabili, in un territorio dove i casi di lupara bianca sono tornati a essere una inquietante normalità. Tanto per fare un esempio: due anni fa, nelle campagne foggiane, durante l’esecuzione del capoclan Mario Luciano Romito, due contadini innocenti furono massacrati a colpi di fucili solo perché si trovavano nel posto sbagliato.
Spiega il generale dei Carabinieri Antonio Basilicata, in prima linea alla Direzione Investigativa Antimafia nella lotta ai clan pugliesi: «Non esistono riti di affiliazione in questa mafia, ma c’è solo un patto definitivo, di tipo familiare, che neppure la morte è in grado di sciogliere e che determina la quasi totale assenza di collaboratori di giustizia».
LO ZIO E IL PAVONE Mettendo insieme i tasselli di questo rebus criminale sparpagliati in tutta Italia, però, gli inquirenti hanno trovato una certezza: nei gruppi di fuoco ci sono nomi che ritornano quasi sempre. Come quelli dei fratelli Tommaso e Alessandro Morra, ritenuti dalla squadra mobile foggiana due golden boy della malavita cerignolana, che in paese si sono fatti le ossa con spaccio di droga, furti e rapine.
Nei verbali della polizia Tommaso è descritto come «un abile stratega e un professionista delle armi di grosso calibro» ed è indicato come uno dei pionieri nelle rapine ai furgoni portavalori. Anche per Alessandro, detto “il Pavone”, gli assalti alla carovana sono diventati una redditizia specializzazione criminale, tanto da essere ritenuto il regista di uno dei colpi più sensazionali degli ultimi tempi in collaborazione con i clan calabresi: a bordo di un camion cingolato dotato di martello pneumatico il commando guidato dal Pavone è riuscito a sfondare il muro di un caveau e a scappare con un bottino da otto milioni di euro.
A Cerignola i Morra si contendono il mercato con un’altra famiglia, i Vurchio. Emilio, detto “lo zio”, entra ed esce dal carcere da quasi vent’anni e nelle rapine ai Tir è un’autorità indiscussa. Il fratello minore Sabino ormai ha seguito le sue orme ma non ha mai smesso di esercitare la sua professione ufficiale: il muratore. Perché per i predoni delle autostrade l’umiltà è una dote importante. Non amano lo sfarzo né le macchine roboanti e restano a vivere nelle case popolari del quartiere San Samuele o in vecchi ruderi di campagna pure quando potrebbero permettersi ville da capogiro.
Soltanto mantenendo i piedi ben piantati a terra nei rioni più poveri della Puglia, infatti, riescono a trattenere a libro paga interi paesi. A essere ricompensati con lauti stipendi sono soprattutto i custodi degli arsenali: si tratta di persone incensurate e insospettabili che nascondono nelle loro cantine per conto dei clan armi da guerra ultra sofisticate, bazooka e fucili mitragliatori che arrivano direttamente dai Balcani e che serviranno a seminare il terrore in tutta Italia. E così Fort Apache resta invalicabile.