Vengono dal Punjab, India. Si ispirano a Di Vittorio, mitico capo della Cgil. Dai Castelli romani all’Agro pontino, queste donne coraggiose  bussano a roulotte e baracche per rompere la catena dello sfruttamento

Navampreet Kaur, 22 anni, sindacalista della Cgil
Guidano un furgoncino tra i campi arsi dal sole dove si raccolgono zucchine e pomodori a 3 euro l’ora, bussano alle porte di roulotte in cui si dorme ammassati e chiedono di rialzare la testa. Di denunciare chi ti considera solo un corpo da spremere. Sono le donne Sikh in maglietta rossa con il volto di Giuseppe Di Vittorio, il bracciante pugliese che si era affrancato dalla povertà; altre con il turbante colorato e il piccolo pugnale, come la fede impone. Figlie, madri, sorelle degli schiavi del XXI secolo a meno di cento chilometri dalla Capitale del nostro Paese.

«Mio padre per tanti anni è stato sfruttato, senza contratto, spesso non pagato. Bisogna restituire dignità». Navampreet ha 22 anni ed è arrivata dal Punjab, la “terra dei cinque fiumi” nella zona nord occidentale dell’India, quando ne aveva 14. Un’infanzia di povertà e speranza con il padre emigrato in Italia per dare un futuro meno disgraziato alla sua famiglia. Quando finalmente lo raggiunge Navampreet scopre la realtà: «Sognavo Roma, i monumenti, le bellezze da cartolina e invece ho conosciuto campagne dove si resta inginocchiati per 14 ore al giorno, sabato e domenica inclusi».
sik3-jpg

Piegati al ricatto per tirare fuori dalla terra ortaggi che arrivano sulle nostre tavole, costretti pur di lavorare a vivere dentro container senza riscaldamento e con il bagno alla turca che scarica nel canale.  Oggi Navampreet, come fosse una preghiera, elenca agli sfruttati i comandamenti del riscatto: «è un diritto chiedere contratti regolari, domande di disoccupazione. Non ci devono essere i caporali che decidono chi lavora, non devi pagarti i contributi da solo». Buste paga da poche centinaia di euro per una dozzina di giornate di lavoro. Gli altri sono in nero, con tanto di commercialista pagato per rinnovare il permesso di soggiorno. È il nuovo volto dello sfruttamento, quello con le carte apparentemente in regola grazie a colletti bianchi che fanno affari negando ogni diritto.


Con le scarpe da ginnastica impregnate della polvere dei campi e il turbante ben legato in testa Navampreet porta avanti la sua ribellione e pensa che il suo essere giovane donna «né indiana, né italiana, ma punjabi», a cui piacciono Instagram e i film di Bollywood non sia affatto un limite: «Sono rispettata perché ho ricevuto l’Amrit (la cerimonia di battesimo ndr) e perché se sai risolvere problemi guadagni autorevolezza. Ho conosciuto il sindacalista Pino Cappucci a una delle nostre feste e con lui ho iniziato un percorso per difendere i lavoratori». Porta con sé sempre il pugnale e scioglie i capelli, che non taglia mai, solo sotto alla doccia. «Ai maschi quando girano con le biciclette li prendono in giro, a me mai», sottolinea con una punta di orgoglio, ma s’infuria quando racconta che «alcuni padroni obbligano i lavoratori a tagliare barba e capelli», a togliersi il turbante per renderli invisibili quando stanno piegati per ore nei campi vista strada: la massima umiliazione per un Sikh.  La sua vita è qui, anche se le manca «l’odore della mia terra».  

Tra due mesi si sposerà «con un Sikh che vive in Italia». È un matrimonio combinato? «A metà», sorride e precisa: «Sono anche innamorata». «Io invece non sono sposata», replica Hardeep. Ha una decina d’anni in più e un compagno, Fabrizio. Italiano e separato. Insieme hanno fatto un rito in uno dei tanti ex capannoni agricoli trasformati in tempio, dove si prega, si mangia lo stesso pasto e si discute di politica. «Legalmente non è valido ma lo dovevo ai miei genitori. Però eravamo solo quindici persone, mica come nei matrimoni tradizionali».

Hardeep è nata a Cori, un paese di diecimila anime sui monti Lepini a metà strada tra la pianura pontina e i Castelli romani. Per tutti è Laura: «pure mia sorella mi chiama “a La”. All’anagrafe hanno detto ai miei “meglio un nome italiano che l’indiano non si capisce”, ora invece gli italiani chiamano le figlie Aisha. Il mio cognome invece, come quello di tutte le donne Sikh, è Kaur». Significa principessa e secondo la tradizione è identico per confermare l’uguaglianza tra i sessi, liberandosi da qualsiasi casta di appartenenza.

È il 1979 quando suo padre arriva in Italia con una laurea in letteratura inglese in tasca e il desiderio di fare un’esperienza sulle navi da crociera, ma chi gli ha organizzato il viaggio sparisce con soldi e documenti. Rimane incastrato in un limbo: dorme per strada, in uno stabile occupato a Milano, poi nel ventre della stazione Termini di Roma. Lì si ammala e scopre la solidarietà tra i migranti: ad aiutarlo sono marocchini ed egiziani. Alla fine si fa fornaio perché gli assicurano «stai al caldo e mangi».

Negli anni Ottanta Laura è la straniera. «La prima volta che sono entrata a casa di una compagna di classe ero già grande. Anche io però ho le mie colpe», ammette, «parlavo male dell’India perché mi faceva sentire diversa, raccontavo che mia nonna cucinava i serpenti anche se non era vero. E poi dicevo come loro “gli indiani puzzano”. Ho ancora la fobia che puzzo».  Sorride e tira fuori dalla borsa ben due deodoranti.

Laura a diciotto anni va via da casa «perché la libertà era più importante». Ci vuole tempo prima di recuperare i rapporti con il padre, considerato l’anziano della comunità e quindi molto rispettato. «Alcuni gli dicevano di non farmi più rientrare, ma il legame è stato più forte», racconta, «ed è per lui che quando sono andata di nuovo via con Fabrizio ho voluto il rito nel tempio».

Laura con la maglietta rossa del segretario della rinascita del sindacato dopo il fascismo e in cuffia “Another brick in the wall” dei Pink Floyd la trovi per le campagne a bordo di un furgone bianco. Lo sportello itinerante di un sindacato di strada. Va a cercare i braccianti insieme a Stefano Morea, responsabile della Flai Cgil di Latina. «All’inizio è stato più complicato perché una donna giovane che gira con un uomo bianco può essere considerata una persona poco onorevole, ma ora se parlano con me o con lui pensano ci sia la stessa credibilità». Stefano la interrompe: «diciamo la verità, ormai preferiscono rivolgersi a te. L’altro giorno uno credeva che fossi il tuo autista».

Davanti al “Residence Bella Farnia Mare”, simbolo dello svago vacanziero fallito e trasformato in ricovero per disperati a pochi chilometri dalle ville dei vip di Sabaudia, un ragazzo trascina con sé l’odore della fatica. Vuole sapere se è vero che può avere le scarpe da lavoro senza pagarsele da solo. Laura lo rassicura e ripete le frasi anche in italiano perché «voglio creare cittadini che non abbiano più bisogno di me. L’obiettivo è far capire che esistono diritti, quali sono i canali per ottenerli. Molti non hanno nemmeno la consapevolezza di essere sfruttati».

Ore chinati sotto al sole a spargere fertilizzanti e veleni senza guanti e mascherine. Parwinder mostra i cassoni che dovrà riempire, «la vita decisa dal padrone. Anche quando posso tornare in India dalla mia famiglia». Per sopportare il dolore alla schiena, le piaghe ai piedi e resistere alla fatica molti come lui ingoiano semi d’oppio. E a qualcuno non bastano neanche quelli per riuscire a vivere. Negli ultimi tre anni in queste campagne si sono suicidate una decina di persone. E ad avvicinarsi al furgone dei diritti sono sempre più le donne. Con la crisi hanno iniziato a lavorare, le trovi dentro ai capannoni a imbustare, a raccogliere frutta sotto il sole. Hanno mani piegate dai meccanici movimenti di ogni giorno e vite doppiamente vessate, perché guadagnano meno degli uomini e subiscono molestie. «Quando una è incinta viene subito licenziata perché non può sollevare cassette da trenta chili», rivela Laura.

«Donne convinte di dover accettare tutto, anche la schiavitù pur di lavorare». Sonika Anand ha 47 anni, due figli adolescenti a cui cucina lasagne «perché gli piacciono di più» e un lavoro: «aiuta a capire». Insegna alle altre donne a non essere sfruttate, non importa quale sia la loro origine o cultura. Sonika ricorda loro la vita di Paola Clemente morta di fatica mentre raccoglieva uva per due euro l’ora in Puglia. «La legge sul caporalato è stata voluta dopo la sua morte per tutelare la dignità del lavoro». Una norma potente che prevede di arrestare non solo i caporali ma anche gli imprenditori sequestrando i loro beni. La legge c’è, ma le persone continuano a morire. Italiani e stranieri. Secondo la Flai Cgil manca la parte preventiva, quella che prevedeva l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, trasporto, accoglienza. Quella che toglierebbe realmente la forza a chi sfrutta.

Forse ora che si è insediata una ministra bracciante come Teresa Bellanova le cose cambieranno. Ma adesso, secondo le ultime rilevazioni, un’azienda su due è fuorilegge e la maggior parte delle infrazioni riguardano proprio le paghe dei lavoratori. Come quella di Neela. Sulla sua busta ci sono meno della metà delle giornate di lavoro e il dolore di non riuscire a mettere da parte i soldi per far studiare la figlia. Sogno che «un giorno diventi medico, perché così potrà riscattare anche me».

Fili della memoria intrecciati con fibre durature, come quelli cantati dalla poetessa indiana Amrita Pritam. Due anni fa in queste campagne sono scesi in piazza per rivendicare quanto previsto nel contratto: nove euro per sei ore di lavoro. Una protesta senza sbocchi. Oggi i Sikh li ritrovi fianco a fianco ai giovani africani e agli italiani. Una coabitazione al ribasso perché chi osa ribellarsi, non lavora più.

È sera quando per strada, sotto la sede del sindacato di Latina, una signora sulla sessantina si lamenta dell’invasione. Poi riconosce Laura la saluta e le dice: «Però tu non sei un problema, tu sei come noi». Laura abbozza un sorriso: «Basterebbe fermarsi un attimo, guardarsi e conoscersi. Io ho giurato sulla stessa bandiera di Matteo Salvini e sono orgogliosa di essere un pezzo d’Italia che non toglie nulla, ma aggiunge. Perché solo stando insieme possiamo farcela».

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso