Autistici o con traumi e disturbi legati alle esperienze che hanno vissuto. Le strutture che possono occuparsi di loro sono pochissime. E con il decreto sicurezza le cose si complicano ulteriormente
Lidia ha 35 anni. Samir ne ha 22. Lei è somala, lui pakistano. Sono richiedenti asilo. Samir è autistico. Lidia, da quando ha subito ripetute violenze sessuali nei centri di detenzione libici, presenta traumi irreversibili. Hanno disturbi diversi, uno legato alla persona, l’altro alle sue esperienze. Ma, nonostante ciò, in Italia le loro vite sono vincolate a un destino comune.
Come Lidia e Samir ne esistono molti: profughi affetti da forme di psicosi che, proprio a causa delle patologie che li affliggono, sono ancora più invisibili dei compagni con cui hanno attraversato il mare. Il numero è in constante aumento, ma le strutture specializzate nell’accoglienza di questi soggetti vulnerabili sono insufficienti: per 2.000 persone sono disponibili 700 posti. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), che dal 2002 gestisce a livello locale il fenomeno migratorio, con il decreto sicurezza potrà occuparsi soltanto di chi ha già ottenuto una forma di protezione internazionale. Quindi, non dei richiedenti asilo.
Lidia è arrivata in Italia scappando dalla Libia. Lì, una volta, ha dovuto lanciarsi dal terzo piano di un edificio per sfuggire a una violenza di gruppo: ha perso la vista da un occhio ed è rimasta in coma per tre mesi. Quando si è svegliata, è riuscita a fuggire insieme a un amico. Si è imbarcata e ha attraversato il Mediterraneo. Samir è fuggito insieme a sua madre dal Pakistan ed è arrivato in Italia a 22 anni. «Prima di attraversare il Mediterraneo, nessuno gli aveva mai diagnosticato l’autismo. Fino ad allora ha vissuto senza sapere quale patologia lo affliggesse», spiega Laura Arduini, responsabile dell’Area Salute della Casa della Carità di Milano, che accoglie i migranti con forme di psicosi. Samir però è stato uno dei più fortunati. In alcune zone dell’Africa molti ragazzi affetti da forme di ritardi mentali vengono uccisi. perché considerati creature diaboliche.
Quando Lidia è arrivata in Sicilia, è stata mandata in un centro di prima accoglienza come prevede l’iter. Poi, viste le sue condizioni, è stata inviata alla Casa della Carità di Milano: «Mordeva, piangeva, urlava e si colpiva ripetutamente il corpo», racconta Arduini.
In Italia i progetti attivi per i migranti con disabilità mentale sono 49. La geografia dei luoghi Sprar dedicati a questi soggetti vulnerabili è disomogenea. Mancano centri specializzati in otto regioni, tra cui Abruzzo, Campania, Sardegna e Veneto. Mentre nella maggior parte dei territori i posti disponibili si aggirano intorno alla trentina.
Come dimostra la storia di Lidia, non conta soltanto se esistano o meno questi centri, ma anche quanti posti abbiano. In tutta la Sicilia possono essere accolte 209 persone, ma a Palermo, dove è sbarcata Lidia, solo quattro e in provincia 16. Capita spesso, infatti, che dalla Sicilia i migranti vengano spostati in altre parti d’Italia, dove l’arrivo di richiedenti asilo, e perciò anche di migranti con disabilità mentale, è minore. «Il 70 per cento dei soggetti vulnerabili viene mandato nei singoli Sprar dal servizio centrale, l’altro 30 per cento lo accogliamo direttamente sul territorio», spiega la dottoressa Letizia Zanini, coordinatrice di Cidas, la cooperativa che gestisce il centro per soggetti con disabilità mentale di Bologna.
Completamente sedata, Lidia è arrivata a Milano dalla Sicilia senza avere idea di dove fosse. Qui oltre a lei potevano essere accolte altre 7 persone. In tutta la Lombardia i posti disponibili sono 13. Nel capoluogo è la Casa della carità, in collaborazione con il Comune, a seguire i migranti affetti da disabilità mentale. «Nei centri di prima accoglienza e negli altri Sprar non riescono a gestire queste patologie, quindi accogliamo molti più soggetti di quanti dovremmo. Attualmente sono una settantina, ma i casi continuano ad aumentare», dice Arduini.
Un aumento che, sia al livello locale che nazionale, dipende dalle sempre più frequenti vessazioni sopportate da chi cerca di raggiungere l’Europa. Proprio per questo motivo esistono realtà, come la Caritas, che si occupano di seguire i soggetti più fragili. Sopperiscono a un bisogno di cui dovrebbe occuparsi lo Stato. «Noi non siamo un centro Sprar. Diamo assistenza ai migranti vulnerabili che rischiano di non ricevere un supporto adeguato», dice Marco Mazzetti, responsabile del progetto Ferite invisibili.
Ma la carenza di strutture adatte è solo il primo dei molti problemi legati a questo sistema d’accoglienza. Per la natura stessa degli Sprar, anche i migranti con disabilità mentale possono rimanere nei centri solo per un anno e mezzo. Poi, sia per le persone con sofferenze psichiche pregresse e più strutturali (come l’autismo) sia per i soggetti con vulnerabilità legate alle esperienze vissute, esiste soltanto la “libertà”. Cioè, la maggior parte delle volte, l’abbandono. «Dovrebbero essere inseriti in strutture pubbliche, le stesse dove sono seguiti i cittadini italiani. Ma è difficile che i migranti riescano a intraprendere questo percorso perché mancano mediatori linguistici», spiega Arduini. Di fatto, quindi, una volta concluso il soggiorno nei centri Sprar, questi soggetti vulnerabili si ritrovano senza fissa dimora: non importa se siano clandestini o rifugiati.
Molti migranti con disabilità mentale, però, non arrivano neanche a sapere se avranno diritto a una forma di protezione internazionale. La maggior parte non riesce a presentarsi davanti alle commissioni territoriali per formalizzare la richiesta d’asilo. Rimangono in un limbo: fantasmi non riconosciuti dalla legge perché non hanno mai avuto la forza di narrare e ricordare cosa gli è accaduto. Non possono esimersi dal comparire davanti ai funzionari del ministero e l’unica facoltà che gli è concessa è di richiedere un supporto psicologico. «Il problema è che questi percorsi, dedicati esclusivamente ai soggetti con difficoltà, sono a discrezione dei Comuni», racconta Zanini.
Lidia, ad esempio, non è mai riuscita a presentarsi davanti agli esaminatori. Per anni è stata una nomade: vagava da una parte all’altra dell’Italia e quando aveva bisogno tornava alla Casa della Carità. «È rimasta incinta e ha partorito qui da noi», dice Arduini, «poi improvvisamente non l’ho più vista. Tramite alcune conoscenze ho saputo che era fuggita in Francia». Come tanti, è scappata lontano. Da quando era arrivata in Italia fino a quando è andata via, per lo Stato è stata invisibile.
Queste condizioni di abbandono, con il decreto sicurezza e l’esclusione dei richiedenti asilo dai centri Sprar, potrebbero coinvolgere sempre più migranti. «La situazione esploderà, perché le strutture specializzate accoglieranno soltanto chi ha già ottenuto una forma di protezione internazionale. Le persone che stanno ancora aspettando una risposta dal ministero, invece, finiranno nei centri di prima accoglienza. Ma qui, diminuiti i fondi, sono praticamente scomparsi anche i supporti psicologici», spiega la dottoressa Arduini. Inoltre, per queste persone diventerà ancora più difficile presentare la richiesta d’asilo, perché i permessi umanitari - la protezione più utilizzata per tutelare i migranti con disabilità mentale - sarà erogata dal questore dopo un colloquio e non più dai funzionari delle commissioni territoriali. Ancora una volta, e probabilmente molto più di prima, saranno gli enti privati e i volontari a occuparsi dei soggetti in difficoltà. «Ma almeno le nostre porte rimarranno aperte», promette Mazzetti.