Gli interventi
Lavoro, dignità e futuro: cosa ci raccontano le storie degli italiani andati all'estero
Sono centinaia di lettere arrivate in redazione dopo la nostra copertina sui giovani in fuga all’estero. E spiegano i motivi di un fenomeno che non riguarda soltanto loro
«Sono un giovane professionista, laureato ed emigrato in Svizzera. Qui ci sono tante altre persone espatriate, come me. Non siamo ricchi, neanche lontanamente, ma stiamo bene, siamo spensierati. Che è la vera fonte di benessere: quando gran parte dei propri pensieri non sono più occupati da preoccupazioni, disillusione e sconforto, allora si può iniziare a guardare oltre, a impegnarsi per fare vera innovazione, coltivare la propria ambizione, lavorare divertendosi e vivere senza sentirsi una piccola ruota dentata di un grande ingranaggio. In Svizzera ho iniziato a vedere dove realmente l’Italia ammazza le prospettive di crescita, l’ambizione, la voglia di fare».
Sono centinaia le lettere che gli expat, coloro che sono andati a cercare fortuna all’estero, hanno scritto all’Espresso per raccontare la propria storia di emigrati, rispondendo all’appello lanciato dal nostro settimanale. Molte sono lunghe lettere di denuncia per un tradimento subìto: l’Italia ha offerto loro un’educazione eccellente, una laurea prestigiosa che tuttavia non è spendibile entro i confini nazionali. Tocca andare all’estero. È proprio la dignità del lavoro la prima causa di abbandono: la scorsa settimana l’Istat ha certificato che a novembre c’è stata un’impennata occupazionale, ma non c’è nulla di cui rallegrarsi, perché le nuove assunzioni sono soprattutto part-time involontari, offerti per lo più a donne che avrebbero gradito il tempo pieno. Il lavoro in Italia è malpagato, precario e spesso sessista: eccola qui la ragione che spinge molti a lasciare uno stage da cinquecento euro al mese a Roma per un contratto a tempo indeterminato a Parigi.
Questo divario fra Italia e resto d’Europa ha aperto una vera e propria emergenza, a cui L’Espresso ha dedicato la copertina dello scorso 22 dicembre, “Italia Ciao”, dando la possibilità a decine di expat di scrivere una cartolina al Paese per spiegare i motivi dell’addio e dire a quali condizioni sarebbero disposti a tornare. E la condizione è sempre la stessa: un lavoro dignitoso.
I dati sono drammatici, paragonabili a quelli di una grave crisi economica: l’Istat racconta che nel 2018 il numero degli expat è aumentato dell’1,9 per cento, in un solo anno se ne sono andati 117 mila connazionali. Nell’ultimo decennio gli emigranti sono triplicati: tre su quattro hanno in tasca una laurea, l’età media si aggira attorno ai trent’anni e le destinazioni principali sono Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia e Stati Uniti. Uno stillicidio di capacità, competenze, energie che, invece di essere impiegate a favore del progresso e dell’innovazione di cui l’Italia avrebbe bisogno, vanno a favore di altri Paesi che le attirano, investono e le trasformano in protagoniste dei processi di crescita e di miglioramento. Il problema è che, al di là delle periodiche pubblicazioni statistiche, non esiste un corpo intermedio che dia loro voce, non c’è un sindacato degli expat che batta i pugni sul tavolo del ministero del Lavoro, dove tra l’altro quattro anni fa era stata istituita una cabina di regia per affrontare la questione. Ma per ora non è servita a granché.
L’Espresso ha deciso di aprire l’iniziativa a tutti gli expat, dando loro la possibilità di condividere on line la propria storia, i dubbi e le prospettive per un Paese migliore, creando così il primo contenitore digitale di dialogo fra chi è rimasto in patria e chi è andato all’estero. In meno di due settimane sono arrivate oltre 150 lettere. Molti raccontano di averci provato a costruire il proprio futuro qui, ma di aver trovato un sistema vecchio, corrotto, stanco, maschilista, intollerante e clientelare, che ha impedito loro di intravvedere una prospettiva di carriera all’altezza delle proprie aspettative. Qualcuno invece è già tornato: c’è chi ha conquistato una cattedra all’università, chi ha accettato un’offerta da un’azienda privata, chi è rientrato portandosi l’intera famiglia «dopo sette anni fra Inghilterra e Berlino. È faticoso ma non impossibile. Mai come oggi questo Paese ha bisogno di persone che abbiano fatto esperienze diverse, con una mentalità aperta e internazionale, perché si ricominci a guardare le cose da una prospettiva che vuole costruire e non solo demolire o criticare. Aiutateci a farlo».
La mano tesa viene dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato un’ampia parte del messaggio di fine anno a quella fiducia che va trasmessa ai giovani, «ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità. Le nuove generazioni avvertono meglio degli adulti che soltanto con una capacità di osservazione più ampia si possono comprendere e affrontare la dimensione globale e la realtà di un mondo sempre più interdipendente». E ancora: «Occorre investire molto sui giovani. Diamo loro fiducia, anche per evitare l’esodo verso l’estero. Diamo loro occasioni di lavoro correttamente retribuito. Favoriamo il formarsi di nuove famiglie».
L’attenzione mediatica sul tema ha almeno smosso l’interesse politico e istituzionale. Il dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio ha avviato una serie di analisi per fare in modo che nei prossimi sei anni lo Stato e le amministrazioni locali abbiano ben chiaro che uno dei più importanti obiettivi da raggiungere è non solo la riduzione della fuga dei cervelli, ma anche la brain circulation, cioè la capacità di attirare talenti internazionali. A marzo di quest’anno sarà più chiaro il livello di interesse che lo Stato ha intenzione di porre sul tema, essendo quello il momento in cui verranno stanziati i fondi strutturali di programmazione per il periodo 2021-2027 e sarà quindi possibile capire quanto il Paese investirà e quali saranno in concreto le iniziative e le risorse per rendere l’Italia un luogo più attraente.
Si parlerà invece di Rimesse 2.0 il prossimo 25 febbraio alla Maison de l’Italie di Parigi, dove Maria Chiara Prodi, presidente della commissione Nuove Migrazioni e Generazioni Nuove del Consiglio Generale degli italiani all’estero, organizzerà il primo evento sul tema, insieme al gruppo di deputati multipartisan dell’iniziativa 5x5 - Alessandro Fusacchia (Gruppo Misto), Paolo Lattanzio (M5S), Rossella Muroni (Leu), Erasmo Palazzotto (Sinistra Italiana) e Lia Quartapelle (Pd) - che, dopo l’inchiesta dell’Espresso, hanno deciso di farsi carico del problema degli expat. Così, se da un lato l’iniziativa del governo punta a creare le basi per un rilancio dall’interno, la commissione Nuove Migrazioni ha avviato un progetto per favorire rimesse di valore e competenze: «Oggi non esistono le condizioni sociali, culturali, politiche ed economiche per un rientro immediato di molti expat e le rimesse 2.0 servono proprio a favorire la creazione di un network che dia all’Italia quel contributo concreto in termini di competenze e innovazione, per rendere il Paese nuovamente attrattivo, favorendo quindi un ritorno di massa dei tanti millennial che se ne sono andati. Detto altrimenti, così come la prima generazione di migranti ridava all’Italia rimesse economiche, l’attuale seconda ondata migratoria può ridare all’Italia il contributo intellettuale che le è venuto a mancare con l’esodo di moltissime persone qualificate», spiega Maria Chiara Prodi, che nota come il fenomeno di chi se ne va sia complesso persino nella definizione: «Chi sta all’estero rifiuta spesso l’espressione “cervello in fuga”, ma anche “expat” o “emigrato”, polarizzando nettamente la percezione di sé e il fenomeno in generale. Penso sia necessario e urgente viversi semplicemente come cittadini italiani ed europei nel mondo portatori, come tutti, di diritti e di doveri, nonché di un potenziale unico, quello di poter tenere per mano italodiscendenti e nuovi italiani, di poter costruire un’Europa coraggiosa, di sentirsi al proprio posto all’interno di una comunità composita e vasta. Questo potenziale va attivato».
C’è anche un risvolto politico ed elettorale finora sottovalutato. Alle Europee del 2019 l’affluenza alle urne da parte di cittadini italiani residenti in altri Paesi è stata del 7,7 per cento, contro una media nazionale del 54 per cento. E fuori dai confini nazionali il primo partito è il Pd, con il 32,7 per cento delle preferenze, mentre la Lega è al 17,9 per cento. Al contrario in Italia ha stravinto la Lega, 34,3 per cento, staccando di oltre undici punti il secondo partito, il Pd. Se gli expat italiani fossero andati alle urne tanto quanto i residenti in Italia, i partiti europeisti di centrosinistra avrebbero ridotto significativamente il divario dai sovranisti. Funziona così in Italia, ma anche negli altri Paesi, perché in Europa ci sono 17 milioni di cittadini risiedenti in uno Stato europeo diverso da quello di nascita, che godono di diritti solo a metà. Per l’ennesima volta il progetto di un’Europa unita resta incompiuto: le merci si muovono senza confini, i cittadini pure, ma non i loro diritti (e doveri).
Anche per far presa sulle istituzioni continentali, tra il 9 e il 13 marzo, si svolgerà la conferenza Stato-Regioni-Province Autonome con il Consiglio generale degli italiani all’estero, il Cgie. Non si tratta solo di un’occasione per fare sintesi, ma anche un modo per mettere la politica di fronte all’evidenza di un problema non più rinviabile: l’esigenza di interrompere l’esodo degli italiani.