L’ultimo mese prima del voto Usa sarà un drammatico scontro tra chi traffica con l’odio e chi ricuce. Il cambiamento può aspettare

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Bugiardo, clown, buffone, sei poco intelligente, parlaci di tuo figlio... Il primo debate televisivo tra i candidati alle elezioni presidenziali americane Donald Trump e Joe Biden, nella notte italiana tra il 29 e il 30 settembre, è sfilato tra accuse e insulti. Un dog fighting, un combattimento tra cani in cui ogni fair play è andato perduto. Non è solo strategia comunicativa, questa volta, la violenza dei toni non è mancanza di galateo, è sostanza politica.

Qui tocca citare ancora una volta l’antico saggio Rino Formica sulle sostanze di cui è fatta la politica, sangue e altro poco nobile, ma in questa materia viaggiamo immersi e l’elezione per la Casa Bianca del 3 novembre, a un mese dal voto, non rassicura. Il covid in Europa e in Italia ha avuto per ora un effetto anestetico, al contrario di quanto si prevedeva sull’esplosione della rabbia sociale, negli Stati Uniti invece è stato il detonatore di tutte le divisioni e spaccature, a partire da quella razziale.

Donald Trump è il terminale perfetto del caos, è l’uomo che accende il fuoco e poi si propone come legge e ordine per spegnerlo. Il vecchio trucco delle destre del mondo.

Visto in tv dall’Italia, nel punto più scuro della notte fino all’alba, lo sfidante democratico Joe Biden appariva come un signore elegante finito in mezzo alla bufera. Il viso levigato, inespressivo, gli occhi come due fessure in mezzo al pallore del volto intonato alla cravatta anonima, il candidato democrat provava a rivolgersi direttamente agli elettori e a ignorare la brutalità degli appellativi che gli piovevano addosso dal Gran Narciso che neppure una volta in un’ora e mezzo di dibattito e in quattro anni da presidente è riuscito a dire la parola noi. Biden doveva indossare una protezione pesante, un giubbotto anti-proiettile, la tuta anti-incendio, per avanzare nel ragionamento mentre il rivale accanto, il presidente degli Stati Uniti, scatenava una tempesta di fuoco verbale: «Tuo figlio ha preso tre milioni e mezzo dai russi!». È stato il solo momento in cui gli occhi a fessura del candidato democratico si sono abbassati.

Nel sorriso di Biden stentato e familiare, nel buon senso di alcune sue affermazioni, risiede la speranza dell’elettorato democratico americano e mondiale. È lo scontro tra strappo e ricucitura, tra chi accende l’incendio e chi lo spegne, tra chi traffica con l’odio e chi vuole abbassare la tensione. È la partita che in era covid il mondo si gioca in questo mese e forse nelle settimane successive, se in caso di sconfitta Trump manterrà il proposito di non riconoscere senza traumi il risultato elettorale. I progetti di futuro – indicativo il mezzo scivolone di Biden sul Green new deal – per ora possono attendere. Per i sogni, per i cambiamenti epocali, scusateci, sarà per un’altra volta.
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Un tempo le campagne elettorali Usa determinavano il corso delle cose anche in Italia, il paese europeo più segnato dalla guerra fredda insieme alla Germania Ovest. Dal piano Marshall del dopoguerra fino al centro-sinistra Dc-Psi durante l’amministrazione Kennedy negli anni Sessanta. Nell’ultimo quarto di secolo, dopo la fine della Repubblica dei partiti, le nuove formazioni della Seconda Repubblica, prive di punti di riferimento organizzativi, culturali, identitari, a destra e a sinistra hanno guardato all’America come il modello da esportare: personalizzazione, polarizzazione, costruzione di un consenso non ideologico. Le nostre campagne elettorali si sono arricchite di spin venuti da oltre Atlantico, da Stanley Greenberg a Karl Rove a David Axelrod a Jim Messina, quasi sempre con scarsa fortuna. Più che altro, si sono arricchiti loro.

I democristiani, la classe dirigente di ieri, mantenevano con gli Usa un rapporto di dichiarata fedeltà atlantica ma rivendicavano la loro autonomia politica, senza troppo darlo a vedere. Lo stesso facevano con l’altro soggetto mondiale che influiva sulle scelte dei governi italiani, il Vaticano. Erano cattolici obbedienti al papa, ma davano anche molti dispiaceri al Santo Padre e a Madre Chiesa. Nella Seconda Repubblica, finita la Dc, è crollata anche l’autonomia della politica dalle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche: partiti come Forza Italia o come la Lega di Matteo Salvini hanno trovato nella Chiesa la loro radice identitaria, mentre veniva meno la cultura del cattolicesimo democratico. Lo scenario politico e istituzionale si è così popolato di rosari da sventolare nei comizi e perfino nelle aule parlamentari. Scontri di civiltà in nome dell’occidentalismo e guerre di religione in nome di una malintesa fedeltà alle radici cristiane hanno coperto il vuoto di politica in questi ultimi due decenni. E l’Italia è finita nel ruolo meno vantaggioso: per gli Usa l’alleato scontato, per la Chiesa il laboratorio dei principi non negoziabili.

Oggi la situazione si fa ancora più rischiosa. Il peso del Paese in politica estera è ridotto al minimo: lo dimostra l’incredibile pasticcio della vendita delle navi all’Egitto, raccontato da Carlo Tecce nelle pagine che seguono. Mentre Usa e Vaticano, per decenni le stelle polari della politica interna e estera italiana, entrano in crisi nelle stesse settimane, e in rotta di collisione tra loro dopo la visita del segretario di Stato Usa Mike Pompeo oltre le sacre mura.

Lo scandalo scoperchiato dall’inchiesta di Massimiliano Coccia sull’Espresso della settimana scorsa e che prosegue qui, riguarda le finanze vaticane, la trasparenza degli affari e dell’uso dei fondi destinati al papa e al sostegno dei poveri, la figura del cardinale Angelo Becciu che merita più rispetto di come egli stesso si sia presentato all’opinione pubblica, «stralunato in una condizione surreale», vittima di un papa manipolato dalle mani dei nemici. Ma c’è molto di più. C’è la sfida che Jorge Mario Bergoglio, il papa Francesco, lancia al mondo cattolico, su vari piani, secondo il programma contenuto nella prima intervista al direttore di Civiltà cattolica padre Antonio Spadaro (19 settembre 2013): «Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».

Avviare processi, non occupare spazi. Anzi, liberare spazi già occupati da tempo, a costo di scatenare reazioni incontrollabili. In questi ultimi giorni papa Francesco ha pubblicato la sua enciclica più importante, Fratelli tutti, ha inserito il meglio della cultura laica nelle accademie pontificie, da Mario Draghi a Fabiola Gianotti, ha tracciato una nuova linea di confine con l’amministrazione Trump, ha fatto esplodere in modo definitivo la questione morale ai vertici della Curia: smantellare una rete di ricatti e favori, anche in vista del prossimo conclave. È il rilancio in grande stile di un pontificato descritto dai detrattori come in declino e al tramonto. L’adulazione e l’agiografia non ci sono più, ma il papa che è stato visto entrare nell’aula delle udienze vaticane per l’incontro con la polizia di Stato sulle note di un tango argentino sembrava un hidalgo determinato ad andare avanti, più che un vecchio triste solitario y final.

Ma i processi scatenati in questi giorni sono dagli esiti imprevedibili. E riguardano anche il sistema Paese. Lasciato scoperto dalle ultime presidenze americane e dal disinteresse del pontificato bergogliano per le vicende domestiche, il sistema Italia si è agganciato all’Europa e alla Germania di Angela Merkel come unico punto di riferimento possibile (sui rapporti con la Francia Alessandro Aresu a pagina 26). Il governo Conte 2 punta tutte le sue carte sul Recovery Fund, nella speranza che non finisca come teme il ministro Enzo Amendola (Repubblica, 29 settembre): i veti incrociati tra i paesi Ue che bloccano l’approvazione di Next Generation Eu e un cedimento della presidenza tedesca che sta sorreggendo la fragile costruzione. Il premier Conte corregge se stesso: marcia indietro su quota 100, reddito di cittadinanza e finalmente sui decreti Salvini, tutti provvedimenti che portano la sua firma, ma con un’altra maggioranza e in un’altra vita. Lo spettacolo stralunato e surreale, per usare le parole del cardinale Becciu, di un Parlamento chiuso per covid per il ritrovamento di positivi tra i parlamentari dei 5 Stelle che neppure una squadra di calcio chiude il cerchio di una stagione addormentata, addomesticata in cui, però, rischiano di entrare in sonno anche le strategie future per il Paese. Nel frattempo Conte rifiuta di schierarsi tra Trump e Biden. Diplomaticamente corretto. E poi, cosa volete che sia per uno che ha governato con Salvini e ora con Zingaretti?

È in una settimana così che L’Espresso compie 65 anni di vita. Il 2 ottobre 1955 uscì il primo numero in edicola, sedici pagine formato lenzuolo, da due amici, pochi finanziamenti e un’idea, ricorda sempre Eugenio Scalfari raccontando il momento della fondazione, lo stato nascente del giornale, con i valori di libertà, uguaglianza e fraternità che sono «i colori di una bandiera che abbiamo sempre amato in nome della patria italiana ed europea». È l’idea di giornalismo e di un Paese non pietrificato in ideologie e appartenenze, ma inclusivo, sempre sul lato dell’innovazione, com’è oggi la grande trasformazione digitale che per l’editoria rappresenta il campo più affascinante. La verità non si possiede, la verità si cerca, insieme ad altri. È questo il nostro mestiere, il nostro modo di fare giornalismo, con le inchieste di queste ultime settimane sui poteri di ogni tipo che vanno ad aggiungersi alle tante che hanno fatto la storia d’Italia, con le nostre prese di posizione, le nostre campagne per i diritti civili e sociali, con il dibattito culturale che alimentiamo. Da 65 anni L’Espresso riesce a compiere il miracolo di essere un giornale universale che parla a tutti e insieme un giornale che sta da una parte sola, dalla parte del Paese migliore che si batte per tenere insieme quel che altri vogliono dividere. Lo abbiamo visto all’opera in questo 2020: i medici, gli insegnanti, i volontari, gli amministratori locali, i giovani, gli scienziati, gli intellettuali, i lavoratori e chi il lavoro l’ha perso, i nuovi cittadini italiani senza legge di cittadinanza. A ognuno con la sua battaglia da compiere. A loro dedichiamo il nostro compleanno. E il nostro impegno.
 

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