È una promessa della boxe, è nato a Roma e ci ha sempre vissuto. Con il papà serbo e la mamma romena. Poverissimi. Chi lo ha visto sul ring dice che merita la maglia azzurra. Ma non può indossarla, perché per legge non è italiano

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È talmente bravo che meriterebbe di essere in nazionale. Un pugile tecnico, pulito, con una preziosa continuità d’allenamento e un enorme potenziale. Sono gli altri a dirlo, lui di sé parla poco e anzi parla poco in assoluto. Non che abbia problemi a esprimersi: conosce bene tre lingue perché suo padre è serbo, sua madre è romena e lui in Italia ha compiuto tutto il percorso scolastico. L’inglese sarebbe la quarta lingua ma non gli piace studiarlo. Capita che si distragga, si applichi poco, non lo nasconde: “Penso sempre al pugilato. Adesso devo combattere un po’, qualche match per scaricarmi, così poi torno a concentrarmi sulla scuola”.

In Italia, a Roma, ci è anche nato. La cittadinanza però gli verrà concessa solo alla maggiore età e su richiesta. Per il momento ha quella serba che gli viene dal padre. E ha quattordici anni, Miloš Jovanovic, quindi bisogna aspettare. Fino a quel momento in nazionale non potrà essere convocato. Lui si sente italiano, in Serbia ci è stato per prendere alcuni documenti una volta sola, un giorno in tutto. «I miei figli sono nati qui», spiega la madre Maria, «ma gli dicono che non sono italiani, sono zingari».

Le stime più recenti della Fondazione Leone Moressa evidenziano che sono circa 800 mila i ragazzi, con genitori stranieri, che non hanno la cittadinanza nonostante in Italia siano nati o abbiano almeno frequentato un ciclo scolastico.

Per un’assurdità Miloš è cresciuto, insieme ai genitori e ai fratelli, in un campo. Senza essere rom. Vengono dall’Europa dell’Est, sono poveri, quindi sono automaticamente “zingari”. Quel campo oggi non esiste più. Loro l’hanno lasciato nel 2015 e sono andati a vivere in uno scantinato occupato al Quarticciolo, spostandosi all’interno dello stesso quadrante est di Roma.

È un quartiere famoso per un suo abitante storico, Giuseppe Albano detto il Gobbo, mito della resistenza romana al nazifascismo. Ed è una delle ultime borgate ufficiali del fascismo, costruita a cavallo tra gli anni Trenta e i Quaranta nella piena campagna di allora, per alloggiare essenzialmente le famiglie numerose e in piccola parte gli sfrattati del centro storico. Lungo la Prenestina, accanto al forte omonimo: proprio a proposito di questo caso, Italo Insolera osservava che «il rapporto topografico preciso tra la maggior parte delle borgate e un forte militare non è casuale».

Dallo scantinato, una notte d’inverno del 2017 la famiglia Jovanovic è stata mandata via, con uno sproporzionato dispiegamento di forze - quattro camionette della Celere, un reparto che da quelle parti non si vede mai. Pareva che andassero ad arrestare un latitante, non certo a cacciare da un’abitazione d’emergenza una famiglia con minori. Lo sfratto ha riversato in strada centinaia di residenti che protestavano, ha riunito un’assemblea nella piazza e ha spinto a organizzare un comitato di quartiere per fronteggiare quella che veniva percepita come una prepotenza.

Milan, Maria e i tre figli non sono più andati via dal Quarticciolo. Adesso abitano, con due cani, in un appartamento troppo piccolo per contenerli, e dove osservare le misure di confinamento dei mesi scorsi dev’essere stato drammatico. È una casa popolare occupata nelle palazzine che in zona vengono chiamati “le Favelas”. Prostituzione, spaccio, condizioni architettoniche disastrose - i soffitti sono troppo bassi, gli ambienti non sono impermeabilizzati e quindi ci piove dentro. Ai margini di un quartiere già di suo piuttosto ai margini e spesso stigmatizzato.
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A Miloš basta percorrere duecento metri, da casa, per arrivare alla palestra popolare dove ha iniziato ad allenarsi. Dove a dieci anni ha scoperto che gli piaceva il pugilato, in sé e al netto dei risultati sportivi: «Alla fine sticazzi, vincere», dice. Bisogna superare il teatro di cintura, aprire un cancello e scendere per una scala di metallo, perché i 115 metri quadri della struttura sono al di sotto del livello stradale. All’interno, appese alle pareti, ci sono le foto dei ragazzi della palestra, una bandiera di Cuba, l’immagine di Tommie Smith e John Carlos sul podio olimpico con i pugni nei guanti levati.

Erano locali tecnici di proprietà dell’Ater (l’ente pubblico che nella Capitale gestisce il patrimonio immobiliare pubblico a uso residenziale) e fino agli anni Ottanta avevano ospitato caldaie, ma da allora avevano perso qualunque funzione. «Grosse stanze senza più neanche le pompe per portare le acque di scolo al livello delle fognature. C’erano solo topi, siringhe e immondizia», dice Pietro Vicari, figura importante sia nel comitato di quartiere sia nell’associazione sportiva che si è formata intorno alla palestra. Nell’agosto 2015, un gruppo di «ragazzi di borgata e di paese», come dice lui, ha occupato lo spazio. E ora i ragazzi possono allenarsi qui.

Lo stesso Pietro in un’occupazione del quartiere Quarticciolo ci abita, e ci prepara la ricerca per il suo dottorato in Studi urbani che ha cominciato da poco. Per sistemare l’ex locale caldaie ci sono voluti tredici mesi: svuotare, ripristinare gli allacci alle fogne e alla corrente, e poi metter su gli spogliatoi, il ring, le strutture che reggono i sacchi. Il quartiere lamentava la mancanza di posti di aggregazione, incontro, confronto. Anche su un piano fisico, e il pugilato in questo può sempre fare qualcosa.

Le spese sono state sostenute grazie all’autofinanziamento, una volta al mese qualche amico cuoco veniva a preparare cene a sottoscrizione. Miloš ha partecipato di persona a tutti questi lavori. Era appena arrivato nel quartiere, dal campo, e non conosceva nessuno. Parallelamente i ragazzi dell’associazione avevano iniziato con lui anche un percorso di aiuto con i compiti, un doposcuola di sostegno. In quel periodo la boxe è diventata, di colpo, una passione. Qualcosa che dà molto e chiede altrettanto.

Per perdere i chili di troppo e fare il peso, ha dovuto perdere le cattive abitudini alimentari che aveva - bibite gassate anche a colazione, cibo spazzatura. Ha dovuto e continua a dover rispettare con serietà, quotidianamente, un regime alimentare che è un sacrificio doppio per chi ha difficoltà economiche. D’altronde, più che sogni, Miloš nel pugilato ha obiettivi chiari. Uno a medio termine: «Arrivare in nazionale, appena prendo la cittadinanza». Un altro di più ampio respiro: «Arrivare a essere professionista. Da grande, naturalmente».

Pochi giorni fa la palestra popolare ha festeggiato i quattro anni di attività, la sua esperienza dal basso che va avanti. Corsi per bambini e adulti («Vengono i padri con i figli1,dice con un certo orgoglio Pietro) a cui partecipano uomini e donne, amatoriali e agonisti, quarticciolesi e nigeriani e argentini. A tenerli è “Manu” Agati, che è stato nella squadra dei tecnici della nazionale femminile e ha fatto gli Europei. Ma la vera festa si è svolta all’inizio del 2020, quando la palestra è diventata un po’ più solida.

Dopo un anno e mezzo di delicatissime trattative con Ater e Regione Lazio, si è arrivati a firmare una scrittura privata in cui viene stabilito che quella non è un’occupazione abusiva. Certo, gli spazi della palestra sono soltanto “affidati” e non ancora “assegnati” all’associazione sportiva che li gestisce, ma per i ragazzi è stata una vittoria importante e per niente facile. Soprattutto perché l’accordo vincola i soggetti a raggiungere un contratto formale di assegnazione. Un motto della palestra popolare del Quarticciolo dice: “Insieme tutto è possibile”. L’altro è: “Dalla borgata per la borgata”.

A duecento metri di distanza, le Favelas verranno presto buttate giù, se tutto andrà come sembra, e nuove palazzine verranno costruite al loro posto. “In teoria già nel 2021”, dice Pietro. Le case dovrebbero restare a chi le abita oggi. Si tratta di uno degli interventi previsti da un piano più ampio dell’Ater nelle periferie di Roma. Miloš dice che alla sua famiglia, a quanto ha capito lui, verrà data una casa in un’altra zona - a Tor Sapienza, sul lato opposto della Prenestina. In caso gli basterà attraversare la consolare, ed è questo che gli preme soprattutto: «Stare vicino alla palestra, agli amici. Se ci mandano lontano, magari fuori Roma, io qua come ci vengo?».

In attesa della demolizione e nella speranza di poter abitare in condizioni dignitose, gli Jovanovic restano in un posto che richiama di continuo uno stato di povertà grave. La madre continua a crescere i tre figli maschi, il padre continua a fare due lavori e i soldi continuano a essere pochi. Nel frattempo Miloš aspetta il quindicesimo compleanno, che verrà a novembre, e punta ai campionati nazionali. L’obiettivo a breve termine, quello più a portata di mano.

Sembrava potesse raggiungere quel livello già a settembre, invece il torneo su cui puntava per arrivarci è stato rimandato. E allora di nuovo rigore – allenamenti, dieta per fare il peso della sua categoria, 57 chili junior. Se si domanda a Miloš cosa lo spinga a questi sacrifici, cosa sia a piacergli profondamente della boxe, lui risponde senza bisogno di ragionarci troppo: «Quando salgo sul ring. Quando sento la campana, cambia tutto. Siamo solo io e lui, e lui ha due braccia come me».