I giudici di Caltanissetta hanno inflitto l’ergastolo a U siccu, boss di Trapani, latitante dal 1993, perché accusato di essere il mandante degli attentati a Palermo del 1992 per il quale non era stato mai processato

Messina Denaro condannato per le stragi Falcone e Borsellino: ha appoggiato Riina

Il latitante Matteo Messina Denareo, “ù siccu”, è stragista e affarista, come lo definiva negli ultimi anni Salvatore Riina, prima di finire i suoi giorni in carcere. Negli ultimi venticinque anni il capo della mafia trapanese ha smesso i panni dell’assassino ed ha indossato quelli dell’uomo d’affari. Coperto dalla sua invisibilità iniziata nel 1993, oggi è il latitante più ricercato d’Europa e il mafioso più ricco di Cosa nostra.

I giudici di Caltanissetta adesso lo hanno condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei mandanti delle stragi del 1992, quelle in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per questi fatti il latitante trapanese non era stato mai processato. Questo processo, sostenuto in aula dal pm Gabriele Paci, è diverso dagli altri che si sono svolti in passato e che riguardavano i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Per portare sotto inchiesta il capo della mafia di Trapani in questi ultimi anni sono stati raccolti nuovi temi d’indagine, e nuove rivelazioni di collaboratori di giustizia, quindi nuove prove che al tempo degli altri processi non c’erano.

Durante il dibattimento l’imputato è stato ben difeso da un avvocato d’ufficio, e sono stati analizzati dall’accusa tanti aspetti del latitante, che è stato descritto come l’ombra di Salvatore Riina.   

«La mafia trapanese» ha spiegato ai magistrati l’ex capomafia Antonino Giuffrè «è la più forte, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e la massoneria».

L’inizio della stagione stragista dei primi anni Novanta, che ha drammaticamente segnato la nostra storia, è stato deciso anche grazie al benestare di Matteo Messina Denaro, che non ha ostacolato la linea di Riina, appoggiandolo nelle sue scelte terroristiche, e restando a lungo nell’ombra. In questo modo ha pure evitato in passato di essere annoverato tra i mandanti degli attentati del 1992. Di questo mosaico mafioso mancava infatti il pezzo più importante, e cioè il ruolo del boss trapanese che ha detto sempre di sì a Riina. Uno “yes man” che ha appoggiato tutte le follie del capo di Cosa nostra, compresa l’organizzazione che ha messo in ginocchio l’Italia per oltre un ventennio. Era la guerra allo Stato e Matteo Messina Denaro conosceva ogni piano, ogni azione, ogni segreto. Perché il mafioso trapanese è cresciuto sulle ginocchia di Riina, tanto da diventare uno dei “corleonesi” più fidati. E oggi, che continua a essere un mafioso libero di circolare, porta con sé i segreti del capo dei capi.

“U siccu” non si è opposto alle uccisioni di Falcone e Borsellino e non ha ostacolato le bombe che sono arrivate nel 1993 nel continente, dove personalmente si è attivato per farle piazzare ai suoi “picciotti”. Ha fatto parte di un unico progetto che, alle vittime degli attentati di Palermo, legava i morti e le distruzioni di Firenze, Roma e Milano. Oggi si può dire che proprio la prospettiva di Matteo Messina Denaro ci permette di avere una visione più ampia e matura di quegli accadimenti.

Giuffrè ha raccontato di una riunione della commissione provinciale palermitana di Cosa nostra a dicembre del 1991, finalizzata, tra l’altro, allo scambio degli auguri di Natale tra i mafiosi. È l’occasione in cui viene dato il via al programma stragista. E si deve alla testimonianza dei collaboratori di giustizia Sinacori, Brusca, Geraci e La Barbera il riferimento al ruolo dei trapanesi nella fase deliberativa, organizzativa ed esecutiva. Grazie a questi collaboratori solo adesso sappiamo che all’interno dell’organizzazione esisteva una «Cosa nostra nella Cosa nostra» o, come la chiamava Riina, la «Supercosa». Si trattava di uno zoccolo duro alle dirette dipendenze del capo dei capi che ne supportava ogni decisione o strategia. E di questo cerchio magico della “supercosa” faceva parte “u siccu”.

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Nella riunione in questione Riina esordì dicendo: «Ora è arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le sue responsabilità». Non c’era altro da aggiungere, i presenti conoscevano benissimo il tragico significato di quelle parole. Racconta Giuffrè che calò il gelo nella stanza e che nessuno osò profferire parola in quanto «eravamo arrivati al capolinea, cioè ci doveva essere la resa dei conti».

La sentenza della Cassazione sul maxiprocesso non era ancora stata emessa, ma i boss ne avevano percepito l’esito infausto, che non solo minava le basi dell’esistenza stessa di Cosa nostra (la quale vedeva i suoi vertici condannati all’ergastolo e costretti, per evitare il carcere, a darsi alla latitanza), ma suonava anche come uno schiaffo alla strategia di Riina, che aveva sino ad allora sostenuto che la situazione era sotto controllo. L’onta da lavare, per il capo dei capi, era così grande da non temere le drastiche reazioni dello Stato per i suoi uomini colpiti e le vittime innocenti: «Chiddu chi veni nì pigghiamu». Quello che viene ci prendiamo. Erano pronti a tutto.

E così nel piano stragista corleonese, Matteo Messina Denaro ha avuto un ruolo importante: prima è stato al fianco di Riina, appoggiando la tattica degli attentati del 1992, e poi, dopo l’arresto del capo dei capi, ha tenuto una linea dura e aggressiva. È stato lui a spiegare a Sinacori che le stragi di Palermo rientravano in un progetto unitario, mentre diversi erano gli obiettivi per le bombe del 1993: «La strategia degli attentati era finalizzata a far scendere a patti lo Stato, ma non so dire se fossero state intavolate trattative di alcun genere. So soltanto che Matteo si rendeva perfettamente conto che non vi era futuro e che erano stati trascinati in una sorta di vicolo cieco da Riina».

C’è un’altra riunione decisiva per comprendere come sono andate le cose. Si svolse il primo aprile 1993 all’ombra dell’Hotel Zagarella a Bagheria, e ce ne parla ancora Sinacori. Da questo incontro appare chiaro che Cosa nostra aveva due anime, quella moderata che faceva capo a Giovanni Brusca, contraria al proseguimento della stagione stragista, e quella più aggressiva capitanata da Bagarella, Graviano e Messina Denaro, che si dichiaravano oltranzisti e credevano che la strategia degli attentati fosse «l’unica che poteva mantenere alta la dignità dei corleonesi». Binu Provenzano, dopo aver incontrato Bagarella, sposò la linea dura, «a condizione che gli attentati fossero fatti al Nord e diede il via». E il cognato di Riina, in modo sprezzante, gli rispose: «Se vossia non è d’accordo, se ne vada in giro con un bel cartello al collo con la scritta: io con le stragi non c’entro». U zu Binu, a quel tempo, aveva dovuto incassare: non poteva certo competere con la potenza militare degli «altri» corleonesi.
 
La morte di Riina a novembre 2017 non ha avuto come conseguenza un’evidente successione al trono di Cosa nostra, che appare sempre più un’organizzazione criminale segreta con due anime. Una conservatrice, radicata nei paesi della provincia, che assicurano la forza della tradizione, e un’altra più «moderna», insediata nelle città capoluogo come Palermo, Catania, Trapani e Messina, che rappresentano un modello più avanzato, in linea con le mafie moderne. Due anime diverse, dunque, che convivono e permettono che il richiamo al rassicurante e solido passato coesista con la necessità di stare al passo con il futuro. E Matteo Messina Denaro, in questo scenario, interpreta il ruolo di boss in modo nuovo. Il suo è un modello evolutivo, in cui i vertici si allontanano dagli affari «piccoli e sporchi» della base per avvicinarsi ai grandi interessi dell’economia nazionale.

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Il diffuso sentimento di fedeltà nei suoi confronti da parte di molti mafiosi si contrappone a segnali di insofferenza da parte di alcuni affiliati trapanesi a Cosa nostra, preoccupati per una gestione della catena di comando difficoltosa a causa della latitanza. Visto che “u siccu” non assume ufficialmente il ruolo di capo della nuova cupola mafiosa – anzi, come svelano le intercettazioni, non vuole alcuna responsabilità di vertice nella gerarchia interna all’organizzazione e per questo se ne sta distante – conviene, per analizzare meglio come è strutturata Cosa nostra dopo la morte di Riina, guardare dentro il carcere, analizzare i movimenti dei detenuti rinchiusi nelle sezioni di alta sicurezza o in quelle riservate ai 41 bis, osservare da vicino la vita carceraria, quali tipi di rapporti si sono creati.

In base ai loro movimenti, ai loro saluti, ai segnali che si scambiano, è possibile ridisegnare la mappa delle famiglie che stanno fuori. Perché le carceri sono lo specchio della mafia che opera all’esterno. Pur essendo un ambiente intrinsecamente chiuso, infatti, la prigione non è affatto impermeabile alle dinamiche che determinano il corso degli eventi al di fuori delle loro mura: direttive politiche, quindi, ma anche cambi di ruolo ai vertici delle organizzazioni criminali. Tutto si riverbera all’interno delle mura del carcere. E oggi il 41bis sembra non essere più così impermeabile come sulla carta dovrebbe esserlo. Dal carcere trapelano gli ordini dei boss e i boss approfittano di molte insenature giuridiche che via via si sono create per ottenere benefici e far scivolare all’esterno messaggi e segnali che hanno un solo obiettivo: quello di trasmettere la loro potenza.
 
Oggi per fermare Matteo Messina Denaro, il boss che da stragista si è trasformato in affarista, occorre conoscerlo, capire come opera, quali reti politiche, imprenditoriali, criminali lavorano per lui o con lui. Occorre ricomporre il mosaico che raffigura u Siccu, l’ultimo dei corleonesi, il latitante più ricercato d’Europa, per comprendere come questo mafioso è oggi molto pericoloso, non solo perché è un assassino, ma perché è nelle condizioni finanziarie di inquinare l’economia legale del nostro Paese e distruggere mercati e affari, favorendo solo le sue casse, con denaro sporco. Per questo è necessario che venga arrestato il prima possibile.

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