Era il 9 ottobre 1982, morì Stefano Gaj Taché, due anni, altri 37 furono feriti. Un episodio a lungo dimenticato e le cui responsabilità non sono state mai chiarite a fondo. Documenti riservati, acquisiti dall’Espresso, consentono di ricostruire nuove direzioni e gradi di responsabilità

Attentato alla sinagoga di Roma, una nuova pista trentotto anni dopo 

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Era il 1982, autunno, morì un bambino di due anni, «un bambino italiano», come l’ha ricordato nel 2015 il presidente Sergio Mattarella. Trentotto anni dopo, sull’attentato più grave contro gli ebrei in Italia dal secondo dopoguerra, non è fatta ancora luce. Possiamo tuttavia ricostruire nuovi gradi di responsabilità e analisi grazie all’acquisizione in esclusiva per l’Espresso di alcuni documenti e alla cancellazione del segreto di Stato voluto dal governo Renzi.

Il 9 ottobre 1982 fuori dal Tempio Maggiore di Roma, la sinagoga, c’è molta gente. È una giornata di festa per i tanti ebrei romani, è shabbat e le strade intorno sono popolate da famiglie e bambini per i tanti Bar Mitzwah, la cerimonia di ingresso dei ragazzi nella vita della comunità, e per la cerimonia dello Shemini Atzeret (la benedizione dei bambini) per la chiusura della festa di Sukkot. Il Tempio Maggiore di Roma sorge su Lungotevere de Cenci, proprio davanti l’isola Tiberina, alle spalle si snodano le vie e la vita del Ghetto di Roma, il cuore più antico della Capitale. Alle 11 e 50 cinque uomini, vestiti in modo distinto, si avvicinano al Tempio e si dividono in tre gruppi, uno per coprire la fuga si colloca alle spalle della sinagoga, su via Catalana, altri si collocano davanti all’ingresso. Un agente della sicurezza interna della Comunità Ebraica di Roma chiede ai due di identificarsi: in quel preciso istante il commando, alzando le mani con due dita a segno di “V” - gesto di vittoria tipo dei gruppi estremisti palestinesi - dà il via all’azione, con il lancio di tre bombe a mano corredate, qualche istante dopo, da varie sventagliate di mitra sulla folla. Per le ferite riportate in seguito all’esplosione morirà un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, suo fratello Gadiel di quattro anni sarà ferito in modo grave alla testa e all’addome e altri 37 ebrei romani rimarranno feriti.
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È l’attentato più grave in Italia dalla fine della guerra ai danni degli ebrei: viene digerito dal dibattito pubblico in modo quasi indolore. La classe politica poi non cambierà l’atteggiamento nei confronti dell’Olp di Yasser Arafat, la memoria della città per lungo tempo estrometterà in modo naturale quel giorno, vedendolo come una “questione ebraica”. Ci vorrà tempo prima che Stefano Gaj Taché e la sua memoria escano dall’oblio, dall’essere catalogati come un episodio laterale della storia del nostro Paese. Solo nel 2007 l’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, intitola a Stefano un largo proprio dove avvenne l’attentato. E nel 2015 il presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli dedica un passaggio significativo del suo discorso di insediamento alle Camere: «(L'Italia) ha pagato, più volte, in un passato non troppo lontano, il prezzo dell'odio e dell'intolleranza. Voglio ricordare un solo nome: Stefano Taché, rimasto ucciso nel vile attacco terroristico alla Sinagoga di Roma nell'ottobre del 1982. Aveva solo due anni. Era un nostro bambino, un bambino italiano».

Un cammino lungo decenni, una ferita resa difficile da rimarginare anche dalle numerose omissioni processuali. Al momento infatti conosciamo solamente il movente, una ritorsione per l’invasione del Libano da parte di Israele, e l’identità di un attentatore: Osama Abdel Al Zomar, arrestato undici giorni dopo l’attentato al confine tra Grecia e Turchia mentre portava del materiale esplosivo, poi quasi subito rilasciato e condannato in contumacia dal Tribunale di Roma, ma che per quella morte non ha mai scontato un giorno di prigione. Nonostante il tempo trascorso, la Comunità Ebraica di Roma ha non mai smesso di chiedere l’estradizione per Al Zomar e maggior chiarezza alla politica italiana, appelli caduti nel vuoto perché troppo spesso configgevano con gli interessi italiani nel mondo arabo.

Tuttavia, un atto siglato da Matteo Renzi nell’aprile del 2014 che ha tolto il segreto di Stato su numerosi dossier, ci consente oggi, grazie all’acquisizione in esclusiva de “L’Espresso”, di ricostruire nuovi gradi di responsabilità e nuovi livelli di analisi dell’attentato.

Anzitutto, dalle carte dei servizi di sicurezza si comprende quanto sia stata sottovalutata la richiesta di incrementare e sorvegliare il Tempio di Roma, richiesta che il Rabbino Capo Elio Toaff avanza nell’inverno del 1982 e che è resa improrogabile da un attentato senza particolari conseguenze che avviene il 18 febbraio, quando una bomba a mano viene scagliata davanti al portone della sinagoga, non facendo nessuna vittima. La notizia dell’accaduto è trasmessa, si legge dalle carte, solamente il 26 febbraio, con la dicitura «ritardata segnalazione per tardiva notizia». Le segnalazioni ignorate sono una costante nei giorni che precedono l’attentato. Lo è ad esempio quella che giunge il 26 settembre 1982 alle 17 e 45 al Comando dei Vigili Urbani di Roma, che raccoglie una voce femminile che dichiara: «Questo è un comunicato contro i servizi dello Stato. Tra quindici minuti esploderà una bomba nella Sinagoga degli ebrei». Polizia e Carabinieri, come scrivono i rapporti, non troveranno nulla sul posto.

Nel frattempo, come scrivono gli stessi servizi di sicurezza, l’Europa è attraversata da episodi similari, ad indicare come nonostante la leadership apparentemente granitica di Yasser Arafat, nei territori palestinesi e nei campi libanesi una frangia molto corposa inizi a muoversi alle sue spalle. Ma a farne le spese saranno gli ebrei europei. Infatti il 3 giugno dell’82 la Brigata “Al Siffa” composta da palestinesi, libanesi e libici compie un attentato contro l’ambasciata israeliana a Londra; il 18 settembre a Bruxelles fu compiuto un attentato - similare a quello di Roma - davanti alla sinagoga, dove rimasero feriti quattro fedeli appena usciti dal Tempio. Attentati diversi che videro l’utilizzo delle stesse armi: una mitraglietta “Massinoway W63” di fabbricazione sovietica che fu utilizzata anche per l’uccisione dell’avvocato Cotello in Spagna, nel 1980, compiuta dal palestinese Said Salman, appartenente alla fazione “Abu Nidal”. Cotello fu vittima di uno scambio di persona: l’obiettivo di Salman era infatti il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche spagnole Max Mazin. Come si legge negli atti, secondo i servizi di intelligence, anche per questo motivo le azioni consecutive in Europa non sarebbero da ascrivere all’Olp ma alla cellula “Al Assifa” di Abu Nidal.

Nei documenti redatti nelle ore successive all’attentato del 9 ottobre 1982 a Roma, oltre alla ricostruzione della dinamica, si fanno i nomi di tunisini identificati nei giorni precedenti davanti alla Sinagoga e nei giorni successivi di ipotetici appartenenti al commando che ha compiuto l’attentato. Nomi che non appariranno mai nelle carte processuali e che non saranno mai perseguiti o ricercati. Così come la provenienza sovietica delle bombe a mano e delle mitragliatrici utilizzate non sarà sufficiente per ricostruire la rete di provenienza delle armi.

Nei cablo redatti nei giorni successivi, oltre all’omessa vigilanza sui luoghi a rischio appare chiara la sottovalutazione di quanto si muovesse nella zona grigia del terrorismo. Dopo le relazioni sull’attentato ormai avvenuto, il 15 ottobre 1982 – sei giorni dopo - viene inviata una missiva al Centro di contro spionaggio del Sismi in cui una fonte straniera avverte che la cellula “Abu Nidal” starebbe pianificando attentati contro sinagoghe, banche, aerolinee, scuole e personale di nazionalità israeliana o religione ebraica in Italia. Questa sigla, ad un certo punto, viene assimilata a quella di una nuova organizzazione nata proprio all’indomani dell’attentato nei campi palestinesi: “Libano Nero”.

Ma è forse l’ultimo documento reso pubblico ad aprire, decenni dopo, una pista poco battuta. Si legge infatti che una fonte internazionale, normalmente attendibile, dichiara che l’attentato a Roma sia stato ad opera del Fronte Internazionale della Liberazione Palestinese di emanazione filo-libica. Come scrivono gli uomini dell’intelligence, «il responsabile in Italia della suddetta organizzazione, Quader Muhammed, alcuni giorni orsono si sarebbe interessato ad obiettivi israeliani a Roma e a Milano, con riferimento alla sede e all’ubicazione dell’ambasciata e della sinagoga nella Capitale. (…) Il soggetto si è allontano da Perugia (luogo del suo domicilio, ndr) circa un mese fa e ha fatto ritorno l’11 ottobre (due giorni dopo l’attentato, ndr)». Quader secondo il rapporto avrebbe alloggiato a Roma in casa di Fathi Abed, agente dei servizi segreti libici. Negli stessi giorni a Roma c’era anche Abu Yosef, esponente del Flp, pianificatore degli attentati terroristici in Europa e confidente di Gheddafi. Proprio il leader libico offrì rifugio all’unico responsabile accertato, Osama Abdel Al Zomar, rifiutando le richieste di estradizione.

Il fascicolo si conclude con la descrizione del funerale di Stefano Gaj Taché, seguito da settemila persone che si concluse al cimitero del Verano e proseguì con un corteo pacifico degli ebrei romani per le vie della Capitale.
Una chiusura laconica che decenni dopo ci racconta di come memoria e giustizia vanno spesso di pari passo.

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