Srebrenica 1995, cronaca di un massacro
Come si uccidono ottomila prigionieri nel minor tempo possibile? Come si organizza un genocidio? Un romanzo-documento ricostruisce la strage con atti, testimoni, versioni a confronto. Per mostrare tutta la macchina dell’orrore, minuto per minuto
Alla vigilia del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 13 luglio del 1995, il colonnello Ljubisa Beara ricevette dal generale Ratko Mladic l’ordine di ammazzare ottomila persone e di far sparire i loro corpi nel più breve tempo possibile. Uso ad obbedire ai superiori e tanto più a quel comandante così stimato, per lui la faccenda non rappresentava un problema morale semmai una questione tecnica. Già, come ammazzare gli ottomila musulmani bosniaci fatti prigionieri a Srebrenica dopo che la città era caduta nelle mani dell’esercito dei serbi di Bosnia sotto gli occhi dei caschi blu olandesi delle Nazioni Unite?
La decisione era stata presa all’improvviso, senza pianificazione precedente. Dunque si trattava, con tutto lo zelo di cui era capace, di montare una efficiente macchina genocidiaria, organizzare una catena burocratica per la morte all’ingrosso, senza tralasciare alcun particolare che potesse inficiare l’operazione. Per ricavarne un encomio, magari addirittura uno scatto di carriera. Doveva risolvere diverse equazioni matematiche. Quanti autobus servono per portare ottomila e passa persone in luoghi il più possibile discosti dalle vie principali per poi eliminarli? Quanta benzina si consuma? Quanti mezzi meccanici servono per scavare fosse comuni tanto capaci, grandi in totale qualche migliaia di metri cubi? E, soprattutto, quanti assassini ingaggiati a cottimo avrebbero dovuto svolgere il lavoro, calcolando alcuni renitenti e le sostituzioni necessarie di chi poteva stancarsi nel premere senza soluzione di continuità il grilletto contro le schiene dei condannati a morte legati e inermi?
Non possiamo sapere se il colonnello Beara abbia rimpianto l’efficienza nazista mentre si adoperava all’impresa nel giorno del suo compleanno, quel 14 luglio che evoca l’origine dei diritti dell’uomo, e nei due successivi, avendo a disposizione scarsi mezzi, pochi uomini, tra mille difficoltà e troppi ostacoli. Sappiamo però come ha risolto le incognite di tutte le equazioni complicate, come ha affrontato gli imprevisti e come alfine ce l’ha fatta in uno spazio di tempo da record date le circostanze. Lo sappiamo grazie all’ostinazione e alla dedizione di uno scrittore, Ivica Dikic, oggi 43 anni, croato di Erzegovina, normalmente versato nella fiction, diventato famoso nel mondo come autore della serie “Novine” in onda su Netflix.
Dikic ha compreso che davanti all’enormità della carneficina doveva abbandonare la fantasia per esplorare il territorio della letteratura del vero. Si è letto centinaia di migliaia di pagine dei vari processi all’Aja, in Serbia, in Bosnia, ha rintracciato una miriade di testimoni, ha confrontato e incrociato versioni e in capo ad alcuni anni ha finalmente dato alle stampe “Beara”, pubblicato nel 2016 in Croazia e che ora esce in Italia col titolo “Metodo Srebrenica” (Bottega Errante Edizioni, 280 pagine, 17 euro) con la splendida traduzione di Silvio Ferrari. Un libro definitivo, il romanzo documentario del massacro ricostruito quasi minuto per minuto, personaggio per personaggio. Perché, oltre al colonnello, c’erano almeno altre cento persone citate con nome e cognome che a vario titolo sapevano che cosa si stava perpetrando.
Beara è parola dal suono dolce, ingentilito dalle vocali. Nell’ex Jugoslavia evoca le gesta di Vladimir Beara da Spalato, un portiere-mito degli anni Cinquanta, considerato tra i massimi della storia del calcio e di cui Ljubisa era cugino. Parenti così diversi, destinati a restare nell’ immaginario collettivo, campioni l’uno nello sport, l’altro nella caccia grossa, nella colonna infame dei pulitori etnici fino alla mattanza totale, affinché non restasse vivo nessun musulmano in quell’angolo di terra aspra a ridosso del fiume Drina. Uomo di mare dapprima, ufficiale della Marina jugoslava, fedele servitore del titoismo finché il Paese è imploso. E poi portato dalle circostanze ad abbracciare l’idea granserba, nella sempiterna considerazione auto-assolutoria che non era lui a cambiare ma i tempi.
Per mantenere prebende e privilegi riconosciuti ai gradi gerarchici militari, è salito sulla scialuppa di salvataggio fornitagli dal nume supremo dell’esercito dei serbi di Bosnia Ratko Mladic, conosciuto a Knin, nella Krajina croata, agli albori delle guerre balcaniche degli anni Novanta, e messo a capo della Direzione di sicurezza del comando supremo. Così è passato dalle acque dell’Adriatico ai boschi della Bosnia, mantenendo la postura dell’uomo che non è nato per discutere e avere dubbi. Ma solo per «mettere in opera con efficacia e rapidità ciò che gli è stato ordinato». Fosse anche un genocidio.
Attorno a lui, in quelle ore atroci, i dubbi sorgevano persino in assassini seriali che nei quattro anni del conflitto bosniaco si erano distinti per malvagità, riducendo ciò che aveva comunque nome e sembianze di un esercito in un’accozzaglia di macellai sciolti da qualsiasi legge bellica. E avevano infierito sulla popolazione civile, non risparmiando donne e bambini, ripristinando campi di concentramento di hitleriana memoria, dando carta bianca a miliziani col diritto di saccheggio e stupro. C’erano ufficiali suoi pari, persino generali, tentennanti nel concedere i loro sottoposti quali fucilieri scelti dei plotoni d’esecuzione. Non per un rigurgito di umanità ma perché lungimiranti nel prevedere che uno sterminio su così vasta scala non sarebbe potuto passare inosservato e ci sarebbe stato un giudice, a conflitto finito, in una inevitabile nuova Norimberga.
C’erano politici del partito serbo di Radovan Karadzic che non erano contrari al massacro purché fosse fatto più in là, non nel territorio su cui avevano giurisdizione. C’erano cittadini che non volevano l’odore della morte nei campi adiacenti alle loro case. Beara annotava gli inciampi, risolveva, proseguiva. Piani a, b c, d per supplire ai dinieghi. Il colonnello ridotto a lucido orchestratore della catena di montaggio che produceva cataste di corpi senza vita nonostante l’alcol, le poche ore di sonno, le arrabbiature. Nonostante una situazione precaria sul campo di battaglia. Perché il suo compito era attività collaterale che succhiava uomini e mezzi al confronto ancora in atto con l’esercito dei musulmani di Bosnia. E nonostante, infine, una spaccatura sempre più palese tra l’ala politica (Karadzic) e l’ala militare (Mladic) complici nell’orrore ma divisi, in quella fase, dall’ingordigia del potere.
Ljubisa Beara è instancabile, onnipresente, implacabile. Aumenta la produzione autorizzando le mitragliatrici invece dei fucili e se qualcuno sopravvive alle raffiche è finito col colpo di grazia. Più presto, più presto incita il colonnello. Sui due piedi si decide che fare degli inciampi naturali in un’impresa così titanica. Un bambino che corre verso una fossa comune piangendo e chiamando il papà, viene graziato, forse l’unico. Non ci debbono, non ci possono essere testimoni in grado di raccontare a posteriori. Gli autisti degli autobus, dei civili, sono i supplenti dei tiratori scelti, a loro viene dato il “privilegio” di vendicarsi dei musulmani.
Uno di essi chiede pietà per uno di quei ragazzi: si chiama Eldar, lo conosce bene, l’ha portato da scuola a casa per tutti gli anni delle superiori. Viene considerata un’insubordinazione da pagare a caro prezzo. Sarà lui a dover sparare a Eldar, altrimenti verrà ucciso. Obbligato, esegue, poi seppellisce la sua vittima nella tomba di famiglia accanto a suo figlio, pure lui morto in combattimento. Inseguito dai suoi mostri, scappa in Canada a Calgary dove si suiciderà. Un danno collaterale.
Ljubisa Beara avrebbe voluto l’encomio di Mladic per lo sforzo più impegnativo della sua carriera militare. Naturalmente non sarà possibile. Nel 2002, a sette anni di distanza, verrà incriminato per genocidio dal tribunale dell’Aja, si costituirà nel 2004. Davanti alla Corte sosterrà che in quei giorni di luglio era a Belgrado a festeggiare il compleanno con la famiglia. Non sarà creduto e nel 2015 condannato definitivamente all’ergastolo. Morirà nel 2017, a 77 anni, nel carcere di Berlino. Nessun altro luogo sarebbe stato più indicato.