Visite gratuite, diagnosi precoci, prevenzione. Il centro Ace di Pellaro è un’oasi in una regione dove il sistema ospedaliero è ultimo per prestazioni e primo per debiti. Grazie a medici e donazioni di pazienti (Foto di Deborah Rappoccio per L'Espresso)

DeborahRappoccio-ACE-RC-3-jpg
Una struttura bassa, ben imbiancata che spicca fra muretti a secco e palazzine con mattoni a vista e pilastri al vento. Aiuole curate a un passo dai fichi d’india che rompono il terreno riarso della fiumara. Un vialetto ordinato a cui si accede da una strada sterrata. Anche solo a guardarlo il centro di medicina solidale Ace di Pellaro, alla periferia sud di Reggio Calabria, sembra un’anomalia. Così come anomalo sembra un ambulatorio dove è possibile usufruire gratuitamente di visite mediche e esami clinici, a dispetto del disastro organizzativo della sanità calabrese, rimasto identico a se stesso commissariamento dopo commissariamento.

Per questo, ciclicamente il centro Ace viene definito un miracolo, una trincea, un’oasi. Ma a medici, infermieri e personale che ci lavorano sono definizioni che stanno strette. «Noi», dice Lino Caserta, primario di Gastroenterologia in un noto ospedale di Reggio Calabria e al contempo presidente e cuore storico del centro, «siamo la prova che la crisi può essere un’opportunità. Basta avere fantasia, visione e coraggio di rompere gli schemi».

E il centro lo ha fatto fin dalla sua nascita. O meglio, da quello che lo ha immediatamente preceduto e forse motivato: uno studio epidemiologico sulle cause di obesità nei bambini e sui problemi metabolici e di salute che ne derivano, divenuto punto di riferimento per i medici statunitensi, pubblicato su Hepathology e altre riviste medico-scientifiche di fama internazionale e raccontato persino dalla Cnn. «Abbiamo scoperto che questo succedeva soprattutto nelle scuole di periferia, frequentate dai figli di famiglie meno abbienti, con basso reddito e livello culturale. E scientificamente abbiamo provato che a determinare la salute di questi bambini c’erano anche fattori sociali».
DeborahRappoccio-ACE-RC-5-jpg

L’ambiente insalubre in cui si cresce, la mancanza di strutture sportive, di una cultura della prevenzione, la difficoltà di accesso ad accertamenti specialistici prima che una patologia diventi grave o cronica, come ad un’alimentazione sana perché le proteine costano troppo per portarle quotidianamente a tavola. La miseria nuoce gravemente alla salute fin dall’infanzia. «Abbiamo deciso di fare qualcosa per affrontare il problema nell’immediatezza, ma anche di costruire un’azione di lungo periodo per evitare ad altri bambini il medesimo problema in futuro». E non si tratta di carità - ci tiene a specificare il dottore Caserta - «è la cosa più sensata da fare perché prevenzione, educazione, diagnosi precoce, screening significano meno persone che avranno bisogno di andare in ospedale».

È da questa idea che nasce l’ambulatorio, primo nucleo di una «rete di costruzione del benessere» che oggi comprende anche un parco, uno sportello sanitario in università, una biblioteca, che ospita un centro di ricerca e documentazione e forse a breve anche uno sportello Jonas, dove la psicanalisi sia strumento alla portata di ogni persona e non un lusso da ricchi. «Ma all’inizio c’è l’idea che la salute sia un diritto di tutti», dice Caserta.

Con un pugno di medici e volontari e grazie a una donazione iniziale, dieci anni fa chiede e ottiene in comodato d’uso una vecchia struttura dell’Asl pensata come centro psichiatrico e mai neanche inaugurata. Ristruttura i locali, dalle pareti fa parlare la Costituzione di «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e della Repubblica che «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». E quei principi al centro diventano pratica quotidiana.

Per una visita non serve neanche il ticket, basta una prescrizione motivata del medico curante. E i servizi sono tanti: cardiologia, chirurgia generale, vascolare e epato-bilio-pancreatica, urologia, diabetologia, endocrinologia, dermatologia, ecografia internistica e muscolo-tendinea, ortopedia, gastroenterologia, neurochirurgia infantile, psichiatria, reumatologia. Ci sono due nutrizionisti e una psicologa, si possono fare gratuitamente elettrocardiogramma ed ecografie.

I 15 medici che ci lavorano sono quasi tutti volontari, ma nel tempo il centro è riuscito anche ad assumere a tempo indeterminato amministrativi, clinici, personale di servizio. E i conti sono in ordine, con tanto di bilancio annuale pubblicato on line. Come? Ci sono le donazioni, ma soprattutto a contribuire volontariamente sono i pazienti. Al termine della visita, chi può e vuole lascia qualcosa, secondo la massima del “medico dei poveri” Giuseppe Moscati, «Chi ha, doni. Chi non ha, prenda» che campeggia su un muro colorato di azzurro all’ingresso. «Si è sviluppato un senso di responsabilità condivisa nel mantenimento di un presidio che è a tutela di tutti».

E non si tratta solo di indigenti, perché nel tempo è cambiata anche l’utenza del centro. «Oggi molti dei nostri pazienti vengono dalla classe media, perché il sistema pubblico è inefficiente e la sanità privata è inaccessibile». Al Sud, dove i redditi sono più bassi e il pubblico più inefficiente si nota di più ma in tutta Italia, spiega Caserta, «ci sono milioni di italiani che hanno rinunciato a curarsi. Secondo il Censis 11,5 milioni, secondo l’Istat 7».

Vittime di un sistema in cui la salute è sempre più un lusso destinato a pochi. «Anche il medico», aggiunge, «oggi sembra quasi un dio o un meccanico che interviene sul paziente, magari da una località remota, come per aggiustare un ingranaggio e solo per quello, perché il tempo è denaro». Al centro Ace, il tempo speso per parlare con il paziente è tempo guadagnato «perché la condivisione della sofferenza significa accettazione della malattia, che è il presupposto base della cura» e la medicina è quella di Rudolf Virchow, padre della patologia cellulare e antropologo. Chiamato a studiare come debellare un’epidemia di tubercolosi sostenne che il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori fosse necessario quanto i farmaci. E la storia gli ha dato ragione.

Seguendo lo stesso principio, i medici dell’Ace sono nelle scuole e nelle università con ambulatori di psicoterapia e campagne di prevenzione, continuano a fare studi epidemiologici in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, università italiane e straniere fra cui quella dello Shandong e l’Imperial College di Londra. Hanno creato l’Osservatorio delle disuguaglianze di Salute e le Malattie della Povertà «perché se vai sul territorio ti rendi conto dei potenziali problemi dell’utenza e puoi programmare interventi efficaci». E un “parco diffuso”, come spazio per costruire il benessere: «Parlare di sanità non vuol dire discutere solo di gente che sta male, ma cosa fare per evitare che succeda».

Un fondo alla periferia di Reggio Calabria donato da un ex paziente è stato strappato all’incuria, ne sono stati ridisegnati i sentieri, sono state ripristinate le coltivazioni di vite autoctona, ci si sta costruendo una fattoria sociale dove sviluppare progetti con le scuole e grazie alla collaborazione con l’università di Reggio Calabria, tutti i fabbricati sono stati tirati su con tecniche ecosostenibili e materiale di recupero. «I lavori li facciamo noi nel week-end, quando il centro è chiuso». Ed anche questo è salute. Perché le malattie croniche aumentano in ecosistemi e paesaggi deturpati, in contesti urbani insalubri, privi di servizi e di spazi che favoriscano attività salutari. «E relazioni sociali», precisa Caserta, «che forse sono la prima forma di screening».

Un’idea da “figli dei fiori” fuori tempo massimo? In realtà no, perché alla base c’è il medesimo concetto di «health city» su cui l’Oms insiste da tempo per far capire alla politica quanto la progettazione urbana incida sulla salute pubblica. E sulla spesa sanitaria. Un tasto dolente in Calabria. Ultima d’Italia per prestazioni, prima per debito accumulato, incapace di rispettare i Lea, i livelli di assistenza minima garantiti, in testa per emigrazione sanitaria verso altri territori, la regione da tempo non è in grado di rispondere alle esigenze di chi la abita.
DeborahRappoccio-ACE-RC-18-jpg

Anni di commissariamento, di ospedali chiusi, turn over e assunzioni bloccate non hanno risolto il problema della sanità pubblica. Mentre i pochi reparti di eccellenza sopravvivono come in trincea negli ospedali pubblici, il budget destinato ai privati convenzionati aumenta e il debito cresce. «E andrà sempre peggio», sbotta Caserta, «perché non è questione che si possa risolvere con il pallottoliere. Qui bisogna ripensare il sistema».

Significa trasformare i vecchi ospedali chiusi in poliambulatori territoriali in grado di diagnosticare e intervenire sul disturbo prima della cronicizzazione di una malattia o della sua degenerazione, alleggerendo gli hub, liberi di concentrarsi su patologie complesse e alte specializzazioni. Vuol dire campagne di educazione e prevenzione, check up e visite gratuite. E investire in risorse umane. Non solo medici e infermieri, ma anche ricercatori, urbanisti, antropologi che permettano di leggere il territorio, tarare l’offerta sanitaria sulle esigenze reali di chi lo abita, ma anche lavorare all’eliminazione dei fattori esterni che compromettono la salute. «Magari così potrebbero tornare anche i nostri giovani, espulsi per mancanza di opportunità da un territorio in cui la popolazione sta invecchiando, con ovvie ricadute sulla sanità...».

Certo ci vogliono soldi, tanti. Quasi una bestemmia per la Calabria dove il debito sanitario è diventato voragine. «Ma i dati dicono che in dieci anni si risparmia tre volte quanto investito», insiste il primario: «E per la Calabria ci sarebbe bisogno di uno sforzo di questo genere. Quindi non tagli, ma investimenti accompagnati e vincolati a una riforma radicale del sistema». E sarebbe semplice buon senso. «Ma chi discute a sproposito di sanità in Calabria non è mai venuto a chiederci nulla».