La tratta degli adolescenti del Kosovo, spediti in Italia dalle famiglie: ogni ragazzo 4000 euro
Un Paese povero dove l’economia non decolla. Una rete mafiosa specializzata in minori non accompagnati. E tantissimi genitori pronti a tutto per mandare i loro figli Trieste
Albin, 50 anni e due occhi azzurri che ridono, è uno dei capi del villaggio di Drenoc, nella municipalità di Malisheva. Siamo in un’area rurale nel mezzo del Kosovo, ai piedi della catena montuosa del Sar, con vette di duemila metri. Pristina, la capitale, è un centinaio di chilometri più a est. Questa fu zona di conflitto feroce, una ventina d’anni fa, con reciproche atrocità da parte di serbi e albanesi.
Albin oggi gestisce un piccolo bar nell’ex sede locale dell’Uck, l’Esercito di liberazione del Kosovo: «Il nostro villaggio è stato totalmente bruciato durante la guerra, moltissimi fuggivano in Albania o in Montenegro, noi ci siamo rifugiati sulle montagne qui vicino a Malet», racconta. Ma poi viene al presente e a un’altra fuga, quella del figlio Isa, 18 anni appena compiuti: «Sì, anch’io, come tanti, ho dato mio figlio in mano ai trafficanti che portano i ragazzini in Italia», aggiunge. «Era ancora minorenne e per tutta la durata del viaggio - circa una settimana - sono stato in ansia. Pensavo: che succede se me lo portano da tutt’altra parte, che succede se gli fanno del male? Ma poi lui mi ha chiamato da Trieste e solo allora ho portato i soldi a quelli a cui li dovevo portare…».
Il Kosovo ha festeggiato il 17 febbraio scorso il suo dodicesimo anno di indipendenza, ma è un’indipendenza monca perché ci sono ancora cinque paesi Ue che non lo riconoscono (fra questi Grecia e Spagna) e soprattutto perché il percorso di accordo con Belgrado, sponsorizzato dall’Europa, continua a bloccarsi per via dei rispettivi nazionalismi.
Intanto le cifre raccontano di un’economia ancora poverissima che si basa soprattutto sulle rimesse di chi è emigrato e sugli aiuti internazionali (peraltro in forte calo). L’unico investimento che viene fatto con le rimesse è tra l’altro sull’immobiliare: si continua a costruire, a Pristina, senza nessun piano regolatore, e si costruiscono le case nei villaggi per quei figli che sognano solo di andarsene.
Secondo i dati ufficiali lo stipendio medio nel Paese è di 360 euro al mese ma è una cifra ottimista perché il lavoro è saltuario: un muratore, ad esempio, guadagna sui 15 euro al giorno, ma non sempre trova un cantiere che lo prende.
Nelle famiglie contadine il futuro quindi è uno solo: mandare i figli maschi minorenni all’estero. Cioè in Italia, con i trafficanti di essere umani: si pagano 4.000-4.500 euro a ragazzo, una cifra enorme per il Kosovo. Ogni famiglia inizia a raccoglierla quando il figlio destinato ad andarsene ha 13 o 14 anni, per essere sicura di riuscire a spedirlo all’estero prima che compia 18 anni. E c’è chi vende la mucca, chi il trattore, chi fa debiti.
«Quando arrivano di là, noi speriamo sempre che ci sia qualcuno che finisca per occuparsene, magari le parrocchie, le chiese», continua Albin. «L’importante è che il mio Isa non si innamori di qualche italiana. Mia nuora dev’essere kosovara». In quanto capo locale, poi, Albin ha anche altre preoccupazioni: «Piano piano il villaggio si sta svuotando, molti ragazzi se ne vanno prima di compiere diciotto anni, senza contare le famiglie. L’anno scorso avevamo 16 bambini nella scuola materna, quest’anno solo otto. Se continua così dovremo chiuderla».
Granit, nome di fantasia, ha diciott’anni ma i suoi baffetti sparuti lo fanno sembrare perfino più piccolo. Lui in Italia ci è andato, ma poi ha deciso di tornare a casa. «Volevo avere una vita migliore e aiutare la mia famiglia», dice. «Sono partito da Pristina con un autobus di linea, eravamo in quattro. A Belgrado abbiamo aspettato cinque ore finché non sono venuti a prenderci, a quel punto siamo diventati otto. Tutti minorenni, tutti dal Kosovo. Siamo arrivati al confine con la Croazia, a Šid, e lì abbiamo aspettato 5 giorni in un albergo. Non ci hanno chiesto nessun documento, penso che all’albergo fossero d’accordo con i trafficanti. Loro avevano qualcuno che gli diceva quando era meglio passare il confine».
Così dalla cittadina di Šid, Granit - con i suoi compagni di viaggio e un trafficante - si sono avviati a piedi verso il confine con la Croazia. «Certo che avevo paura. Quando attraversavamo le montagne non pensavo all’Italia, pensavo agli orsi che avremmo potuto incontrare, pensavo solo a rimanere vivo. Il trafficante ci diceva che se fossimo rimasti indietro lui non ci avrebbe aspettato, che saremmo rimasti da soli e ci saremmo persi, ma così ci metteva solo più panico. Quindi in pratica correvamo uno dietro l’altro. Uno dei ragazzi che era con noi ha fatto tutto il viaggio senza scarpe».
E poi finalmente, con un altro passaggio clandestino tra i monti, ecco l’Italia, Trieste e la telefonata al padre: «Sono arrivato, tutto bene papà».
La storia di Granit, si discosta di poco da quella di Blerim, 19 anni, che è passato per la Bosnia e ha passato 4 notti in un albergo a Zagabria. Appena diversa è quella di Albert 17 anni, che non ha avuto la fortuna di stare in hotel, ma ha dormito sempre in baracche, con i trafficanti che impedivano ai ragazzi perfino di parlare tra di loro. La costante di questi viaggi sono i confini attraversati a piedi tra le montagne, i trafficanti che cambiano a ogni confine e soprattutto il fatto che nessuno di loro incontra mai la polizia, neanche sul confine attualmente più difficile per i migranti, quello tra Bosnia e Croazia. La rete dei mercanti di esseri umani, insomma, ha ottimi agganci.
Secondo i dati del nostro governo, nel 2018 sono arrivati in Italia dal Kosovo 481 minori stranieri non accompagnati, nel 2019 (fino al 30 novembre) 411. Un fenomeno che è particolarmente forte in Friuli-Venezia Giulia. Fonti della polizia di Trieste raccontano di un arrivo quotidiano di minori, «almeno uno al giorno», di cui la maggioranza sono kosovari. In regione, secondo gli ultimi dati, nel terzo trimestre del 2019 (luglio - settembre) sono arrivati 957 minorenni soli, all’80 per cento provenienti dal Kosovo, Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Le comunità di accoglienza hanno una capacità per solo 600 di loro. Gli altri, quando non scappano, vengono trasferiti in altre regioni.
La provincia di Trieste è il punto di entrata più affollato. I minori prima di essere inviati nelle comunità vengono registrati alla Casa dello Studente Sloveno Djaski Dom guidata da Gorazd Pucnik, 56 anni, figlio di un ex dissidente sloveno ai tempi di Tito ed esule a sua volta. «Noi qui accogliamo gente dagli anni Novanta», racconta all’Espresso, «quando ad arrivare erano anche adolescenti della Germania Est».
Il procuratore del Tribunale minorile di Trieste Leonardo Tamborini è molto preoccupato per il fenomeno dei ragazzini kosovari: «Stiamo parlando di un business delle mafie di almeno 100 mila euro al mese», spiega. «I viaggi sono tutti organizzati e l’unico che se ne è occupato che io sappia è un procuratore kosovaro che ha fatto una rogatoria per avere informazioni su quello che accadeva qui in Italia».
In effetti solo un giudice a Pristina si è preso la briga di aprire un’indagine che riguardava il caso di un viaggio di oltre 40 minorenni verso Udine. Sono state arrestate 12 persone e tra poco si dovrebbe tenere il processo. Una goccia nel mare, però almeno un primo segnale di attenzione.
Ma l’indifferenza delle autorità kosovare non è l’unico problema: «Le comunità locali qui in Friuli si vedono continuamente arrivare ragazzi di 16-17 anni», continua Tamborini: «Non c’è tempo di insegnar loro l’italiano, né di inserirli in un corso professionale. Quindi che cosa succede? Che viene stretto una sorta di patto di non belligeranza: io non ti dico nulla tu fai quello che vuoi purché al di fuori delle strutture. È chiaro che lasciati a loro stessi molti cadono nella devianza e nella piccola criminalità».
Così negli ultimi mesi sulle cronache triestine è venuta alla ribalta una storia di baby gang di kosovari. Si facevano chiamare “Kalashnikov” e si riunivano alla Scala dei Giganti a Trieste. A novembre un ragazzo friulano è stato accoltellato a Trieste da un giovane kosovaro, salvandosi per miracolo. A luglio a Udine un ragazzo albanese è morto in seguito ad un accoltellamento da parte di un connazionale minorenne. Entrambi erano ospiti del Centro per Minori dell’Immacolata.
Paola Tracogna è un’attivista udinese di lungo corso, fino al mese scorso lavorava proprio in un centro per minori. «Qui spesso i ragazzi problematici non hanno alcuna presa in carico. Non ci si rende conto che spesso hanno vissuto forti traumi: le violenze durante il viaggio, l’alienazione dalla famiglia, l’estraneità al posto dove vengono inseriti, l’enorme responsabilità che la famiglia mette sulle loro spalle affinché mandino i soldi a casa. Alcuni poi scoppiano».
Questi adolescenti insomma si trovano, con già tante ferite, in un posto nuovo e in branco. Se non si dà loro nulla a cui guardare come futuro si comportano come se fossero ne “Il signore delle mosche”. «Mio fratello che vive in Italia da anni li chiama “gli orfani dei Balcani”», ci dice un’insegnante di un liceo tecnico di Klina altra città di partenza dal Kosovo. «Partono credendo di andare nel paese dei balocchi, ma quando si trovano di là non hanno la maturità necessaria per cavarsela».
Torniamo infine nel bar del villaggio sperduto nel mezzo del Kosovo. Mentre Granit aiuta al banco vediamo, seduti a un tavolo, altri tre ragazzini. L’unico che parla inglese dice: «No, per fortuna io non ho bisogno di partire, la mia famiglia sta abbastanza bene, lui invece si sta preparando». Indica il più piccolo, ha quindici anni, una felpa e un cappellino azzurro della Puma. Hai paura? Chiediamo. «No assolutamente», si schermisce lui ridendo. Granit lo guarda con tenerezza e dice: «Altro che, se avrai paura».
Questo articolo è stato realizzato ?con il contributo di Journalismfund.eu