Infermieri e medici a contatto continuo con la morte. Gli uomini e le donne in guerra contro la malattia raccontano le loro storie (Foto di Francesca Volpi)

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Escono in silenzio dal turno in terapia intensiva e dai reparti Covid-19. Lo stesso sguardo stravolto degli italiani dentro le trincee del Carso o sul montacarichi che saliva dall’inferno di Marcinelle. La stessa faccia piagata di soldati e minatori, la pelle solcata dall’elastico della mascherina, i lividi sul naso, il cuore a pezzi. Infermiere, infermieri, rianimatori, medici: giustissimo chiamarli eroi, ma la loro dedizione è quella di sempre. Lavoravano già così in Lombardia, anche quando i posti venivano tagliati, le cure ridotte, i bilanci degli ospedali depauperati. La battaglia per Milano che si sta combattendo in queste ore non è diversa da quella per Bergamo e Brescia, Lodi e Cremona. Più che una guerra, sembra una prova generale per il resto d’Europa: vedere come si resiste al virus in una regione di dieci milioni di abitanti. Magari senza abbastanza respiratori né protezioni, che ci sarebbero, ma li hanno bloccati per settimane nei magazzini in Germania e Turchia. L’Unione Europea ci osserva, l’alleanza della Nato tace. Ogni ora che si perde, aumentano morti e malati. E con loro anche il numero di medici e infermieri contagiati, che per questo devono mettersi in quarantena e abbandonare il campo.

Terminato il turno di dodici-tredici-quindici ore, liberato il viso e il corpo dalla stoffa monouso, lavate e disinfettate scrupolosamente le mani, resta qualche minuto per aggiornare via chat i colleghi. Il bollettino corre sui gruppi Whatsapp di ogni singolo ospedale. Come questo: «Ti auguro di non vivere quello che sta succedendo qua nel mio reparto. Io vedo solo morti, a decine, da soli e con fame d’aria», «È un disastro, morire vedendo solo noi infermiere, sperando che arrivi un palliatore a prescrivere la morfina», «Ma il medico non la prescrive?», «La prescrive l’anestesista perché i medici non hanno la formazione giusta», «Anche da noi è così», «Sono senza parole, ho solo un nodo in gola e lacrime, vi abbraccio uno a uno», «Anche da noi, medici e infermieri positivi»... Continua da giorni, senza sosta, come le comunicazioni radio su un campo di battaglia.

Il destino tra vita e morte in queste ore è attaccato ai tubi di plastica dell’ossigeno. Ma nei piccoli ospedali di provincia non bastano per tutti. La decisione tocca ad anestesisti e rianimatori: «La terapia intensiva è piena», si sfoga uno di loro che lavora a Sud di Milano, «abbiamo attrezzato posti con tutto il materiale di scorta che avevamo. Non sono preoccupato per le ore di lavoro, quelle non si contano più. Mi spaventa il dover scegliere chi intubare e chi no. Mi devasta l’isolamento e la solitudine alla quale sono costretti i pazienti. Dal momento del ricovero non possono incontrare più nessun familiare. Serve a contenere il contagio. Ma per chi non ce la fa, quel giorno è l’ultima volta che ha potuto salutare i suoi cari. L’altra sera una dottoressa ha usato il suo telefonino per far fare una chiamata video ad una signora da casa: ha salutato così per l’ultima volta suo marito in fin di vita. Sta succedendo anche questo. Letti e macchinari ben vengano, ma servirebbero medici, anestesisti e infermieri per farli funzionare. Noi però non molliamo, stiamo facendo davvero di tutto e sono orgoglioso della mia squadra».
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La morte è una piega dell’epidemia che non si può più nascondere. Ma è una circostanza minoritaria della battaglia. La prima linea non dimentica che l’obiettivo della medicina sono le guarigioni e il contenimento dell’infezione. Anche dentro il fisico dei tanti malati di polmonite, nella lotta all’ultimo anticorpo tra cellule sane e virus. Il personale sanitario però va difeso, perché non si infetti e non contagi a sua volta. La scarsità di mascherine appropriate e la decisione in Lombardia (e in altre regioni) di non sottoporre più ai test tampone medici e infermieri, se non con sintomi evidenti, sono argomento di denuncia sulle bacheche sindacali. Il NurSind, una sigla autonoma molto capillare nei reparti, ha diffidato la Regione contro la decisione di interrompere il monitoraggio sanitario sul personale: «Stiamo tutti chiedendo sforzi immensi», spiega il coordinatore lombardo Donato Cosi, «ma non possono ordinarci di restare muti di fronte a questa scellerata decisione che potrebbe non solo mettere a repentaglio la salute degli operatori e delle loro famiglie, ma soprattutto potrebbe rallentare il contenimento della diffusione del virus». Lettere di diffida del NurSind e dell’Associazione avvocatura degli infermieri sono arrivate al ministro della Salute e a tutte le aziende sanitarie alle prese con la mancanza di protezioni e tamponi.

Appena oltre la stazione di Porta Garibaldi a Milano, le fioriture sulle torri del Bosco verticale sono già un paradiso di nuvole rosa. Nel silenzio dei viali senza traffico, anche le sirene lontane mordono lo stomaco. L’ennesima eliambulanza della giornata galleggia lenta nella luce del tramonto verso il tetto del pronto soccorso di Niguarda. Piloti e rianimatori osservano dai finestrini qui sotto il cortile dell’ospedale. Maschere e occhialoni anche per loro. Scaricano un malato grave in barella, accompagnato dalla bombola di ossigeno. Stessa scena intorno alle ambulanze terrestri, che entrano ed escono dal tunnel dell’accettazione: pazienti pallidi, il viso coperto dalla mascherina, il vestito che indossavano a casa, la bombola bianca accanto. I lettighieri ripuliscono l’interno e ripartono. Anche a questi volontari o stipendiati va il riconoscimento. Raccolgono i malati casa per casa, protetti da semplici camici di cellophane. Ma perfino nella città metropolitana alcune associazioni di soccorso hanno dovuto fermare le ambulanze. Ora lavorano a mezzo servizio: non ci sono mascherine per tutti e senza protezione non si esce.
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Il buio della sera rende visibile la vita sospesa dentro le grandi finestre della rianimazione al primo piano: il monitor con i battiti rapidi di un cuore in affanno, i teli verdi, le flebo appese e in mezzo infermieri-astronauti che con mosse misurate controllano parametri vitali, somministrano terapie, cambiano i farmaci. La distesa dei loro pazienti è appena sotto il davanzale, ovviamente non visibile da fuori. Li si possono immaginare sdraiati a pancia in giù, uno accanto all’altro, come fosse una nuova sceneggiatura dei registi Andy e Larry Wachowski per un sequel del film Matrix. Dal 21 febbraio, dopo la conferma del primo focolaio di Covid-19 in provincia di Lodi, l’attività degli ospedali in Lombardia corre molto più veloce di ogni tetra fantasia.

«Ti senti protagonista di un film di fantascienza», racconta al telefono Anna, infermiera nel reparto di terapia intensiva di un grande ospedale di Milano, un compagno e due figlie sotto i dieci anni, con cui vive in autoisolamento: «Mi occupo di rianimazione dal 2001, ma adesso è davvero difficile. I malati Covid sono persone che hanno un impatto emotivo molto forte su tutti noi: persone sane fino a una settimana fa e ora intubate. Devi riuscire a essere empatica, ma non troppo per andare avanti. Devi convincerti che, anche se sembra fantascienza, invece facciamo scienza e salviamo vite. Così arriviamo a casa stremate con la soddisfazione che per qualcuno è andata bene. Ma se ne salvi uno, ne arrivano altri cinque. Abbiamo un primario e una caposala che ci aiutano, ci danno la forza. La solidarietà della gente ci dice che anche se siamo stremati, stiamo facendo la cosa giusta. Continuiamo ad aggiungere letti su letti e andiamo avanti. Ma la notte piango senza neanche pensarci, perché nel sonno ti tornano le immagini del turno che hai appena terminato».

Fin dall’inizio dell’emergenza le aziende ospedaliere, su direttiva dell’assessorato regionale alla Sanità, minacciano di licenziamento i dipendenti che parlano con i giornalisti. La Lombardia liberista si riscopre così non molto diversa dalla Cina totalitaria. Ed è per questo che la maggior parte dei nostri testimoni ha accettato di parlare, ma con la garanzia dell’anonimato. Dare informazioni corrette e verificate è fondamentale. Ma sbarrare il flusso di comunicazioni può essere altrettanto pericoloso. Se la prima linea degli ospedali avesse avuto più voce fin da subito, probabilmente a Milano e in Lombardia, così come nel resto d’Italia, non avremmo visto parchi, locali e treni affollati fino a domenica 8 marzo. E chi supplicava gli amici a stare in casa, non sarebbe stato guardato come un extraterrestre.
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Nemmeno le prefetture sono state sempre aggiornate in questa escalation. La sera dell’8 marzo sui telefonini viene fatto circolare un audio anonimo: «Hanno triplicato i posti in rianimazione», dice una voce competente nell’indicare sigle e procedure di soccorso: «Niguarda sta scoppiando. Ha trenta intubati Covid... Non avete idea, non lo dicono in tv: quanti giovani, intendo anche ventenni, hanno delle polmoniti orribili e non hanno comorbilità. È drammatico, bisogna assolutamente che la gente lo capisca». Quella sera un funzionario chiama a nome del prefetto la direzione sanitaria dell’ospedale. È tutto vero. Domenica 8 marzo l’Italia è ancora a 7.375 casi registrati e 366 morti.

«Nessuno di noi all’inizio immaginava una situazione del genere», ammette Ilaria, mamma di un bimbo di dieci anni, infermiera in un reparto di malattie infettive, sempre a Milano: «È come una guerra chimica, che ci manda feriti senza sosta. Camminiamo tutto il giorno, non ci sediamo mai. Facciamo turni di dodici ore senza pause per la pipì o per mangiare. Non c’è tempo di svestirsi e non possiamo nemmeno permetterci di toglierci la mascherina Ffp3 o 2 e sostituirla. Ce ne danno una per dodici ore, anche se sono garantite per otto. Non possiamo sprecarne. E comunque non c’è tempo. I pazienti stanno male. Bisogna controllare l’erogazione di ossigeno, i parametri ogni due ore, il bilancio idrico, più somministrare antibiotici e antivirali. E ancora ci aspettiamo il boom, arriverà il delirio. Quasi la metà dei ricoverati ora ha quaranta e cinquant’anni, abbiamo un paziente di trentotto. Quando passo vicino a loro mi vengono crisi di pianto. Li guardo. Tutti uguali e non puoi far nulla. Dobbiamo farvi un monumento, ci dicono. Non mi vedono in faccia perché sono chiusa nella mia protezione. Vedono solo i miei occhi, riconoscono la mia voce. Ma non posso piangere, perché devo continuare a lavorare. Allora faccio finta di niente e continuo a lavorare. L’adrenalina è così forte che per adesso tiene lontana la paura».
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Nemmeno a casa la giornata è più come prima: «Arrivata a casa mi faccio una doccia bollente di venti minuti per eliminare ogni possibile residuo», spiega Ilaria: «Per precauzione, con il mio bimbo e il mio compagno mi comporto come se fossi positiva. Indosso sempre la mascherina chirurgica. Al piccolo ho spiegato che per adesso è meglio evitare carezze e bacini. Dormo sola. Lui un po’ si arrabbia. Gli ho spiegato che torneremo a riabbracciarci quando passa».

Fabiola, un figlio di 11 anni che ha affidato alla nonna, è un osso duro in un importante pronto soccorso milanese. La descrivono proprio così i colleghi. «Siamo passati dai sintomi del raffreddore al cristo, muoiono nel giro di una settimana. È stato scioccante», confessa lei: «sono cadute tutte le barriere che mi ero costruita. Trent’anni di pronto soccorso mi hanno fatto vedere cose terribili, bambini morti, la disperazione dei genitori. Ma l’epidemia ha demolito ogni protezione: la rapidità del peggioramento dei quadri clinici ci ha sconcertati. Pazienti che in quarantotto ore passano dal ricovero sintomatico, a un po’ di ossigeno, poi all’ossigeno da alti flussi, poi alla rianimazione. E la frustrazione di non riuscire a fare nulla. Avevo bisogno di risposte e mi sono fatta aiutare da una psicologa. Il burn out, lo stress da esaurimento emotivo del personale sanitario, ma anche quello dei parenti, nessuno lo sta prendendo in considerazione. Ormai ci portano casi gravi che vanno subito intubati, con saturazione a settanta, settantacinque per cento. Arrivano in ambulanza, in macchina accompagnati dai familiari, perfino a piedi. Altro che anziani. Sono trentenni, quarantenni. Stanotte abbiamo intubato una ragazza di ventotto anni. Ho colleghi ricoverati di trentacinque e quarantacinque anni».

Nemmeno la paziente-uno di Fabiola era anziana. «Una signora di quarantotto anni. Aveva 38,2 di febbre, non altissima», racconta: «Era ancora febbraio. La mattina vado a valutarla. La vedo un po’ strana, lei chiede di andare in bagno. Per fortuna rimango in stanza. Esce dal bagno e collassa, con un colore del volto terribile. Lì ho capito che Covid-19 non era esattamente un’influenza, come sosteneva qualche irresponsabile. Il tracollo è improvviso. Sono rimasta accanto a lei. Abbiamo imparato, cerchiamo di anticipare le brutte sorprese. Ma poi è difficile prendere sonno. Le notti sono complicate perché tornano le immagini che hai vissuto e non riesco ad addormentarmi. Anche dovermi separare da mio figlio è stato faticoso. Pensavo di gestirla diversamente. È incredibile vedere tutto questo in una società come la nostra, che si credeva invincibile».

Anche a Bergamo il dramma corre nelle chat di medici e infermieri. «Siamo in un inferno», scrive Alessandro dall’ospedale Papa Giovanni XXIII. I produttori di ossigeno liquido hanno raddoppiato le forniture ai reparti di tutta la provincia, dopo aver allestito un serbatoio mobile da trentamila litri in città, che si aggiungono ai quarantamila distribuiti dall’impianto già esistente. Le aziende del settore sono state precettate dai carabinieri perché il servizio non rischi interruzioni. E con la ferocia mostrata a Bergamo, l’epidemia sta attraversando Brescia e la sua provincia. Romeo, infermiere agli Spedali Civili, si è dovuto fermare: «Sono positivo, sì, ma vivo solo e mi sono autoisolato con un po’ di viveri. La febbre è passata, è però rimasta la tosse e non sento più odori e sapori. Guarirò. Ma un collega da giorni ha la febbre e stasera al telefono mi ha detto che aveva problemi a respirare. Lo ammetto, ho un po’ di paura. Mi faccio coraggio pensando ai tanti che riescono a mantenersi stabili e vengono dimessi».
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Come per ogni piena, si attende che scenda l’onda. «Non è proprio il momento di abbassare la guardia, questo è fondamentale», spiega all’Espresso Michele Carlucci, primario dell’Unità operativa d’emergenza e accettazione dell’ospedale San Raffaele di Milano: «Quanti si infettano oggi manifestano i loro sintomi più in là. Vedremo quello che accadrà nei prossimi giorni, grazie alle decisioni prese per contenere la malattia. Abbiamo visto con quale velocità si è diffusa. Bisognerà saper aspettare».

Eppure c’è sempre chi è convinto di esserne immune. Come la proprietaria e i clienti di un locale karaoke, denunciati in settimana dalla polizia a Brescia: saracinesca abbassata, entravano dal retro. «È incredibile ma ancora oggi», racconta Elena, mamma e infermiera in un ospedale in Brianza, «mi telefonano le amiche e mi chiedono se la situazione sia davvero così grave. Io, chiusa nelle mie protezioni, li vedo soffrire i malati. Li vedo anche morire. Un uomo cosciente nel suo casco di plastica per l’ossigeno mi ha preso la mano e mi ha chiesto di chiamargli un prete. Un altro che stavamo per intubare mi dice: salutate mia moglie e mia figlia. Queste cose le viviamo fin dal primo giorno in tutti gli ospedali: ma non possiamo pubblicarle, perché ci licenzierebbero. Questa tragedia cambierà il mondo. Ma ha già cambiato ciascuno di noi».