“Siamo solo all'inizio di questa epidemia. In tutta Europa sta accelerando, si sta intensificando. […] Nonostante i nostri sforzi per fermarlo, il virus continua a diffondersi.” L'ha detto. Finalmente, l'ha detto. Seguo il discorso di Macron e continuo a fare screenshot da inviare alle mie colleghe italiane sul nostro gruppo Whatsapp. Finalmente.
Avevamo ragione ad essere allarmiste. A chiedere di lavorare da casa. A dire che le misure messe in atto non erano abbastanza. A chiuderci in casa mentre i bistrot pullulavano di gente incurante della ventata di aria gelida che presto ci avrebbe obbligato a restare a casa.
Per settimane avevamo vissuto in una finta quiete prima della tempesta. Noi italiani all'estero eravamo bombardati dalle notizie della rapida escalation del virus nel Bel Paese nei giornali italiani, ma eravamo costretti a vivere in una bolla.
“Qui ancora non è successo niente”, ripetevo ai miei, già confinati e spaventati dall'inesorabile ridursi della superficie dei loro spazi di vita. Da quel famoso 12 marzo la Francia comincia ad adottare misure simili a quelle italiane. Nella serata di sabato 14 marzo viene deciso che, a partire dalla mezzanotte del giorno stesso, ristoranti e bar rimarranno chiusi fino a nuovo ordine.
Ma i francesi sono francesi: invece di fare dietro front e tornare a casa, perché non fare chiusura e non godersi questi ultimi momenti di convivialità tutti insieme appassionatamente prima di una possibile fine del mondo? Ad inizio anno il virus sembrava così lontano, ed eravamo convinti che avesse gli occhi a mandorla.
Perché sì, purtroppo il virus e la paura hanno portato con sé un'ondata di becero razzismo. Mi piangeva il cuore a sentire le testimonianze di asiatici vittime di razzismo in Italia e all'estero. Come se un virus potesse avere una nazionalità. Poi il virus è arrivato in Italia. E se ora diventassimo noi i bersagli dell'ignoranza che i nostri connazionali hanno dimostrato nel nostro paese?

Prima, il virus atterra a Codogno. Poi, tutto lo Stivale diventa “zona protetta”. Lacrime. Non potrò tornare a Roma per un po', ma per quanto? E se succede qualcosa? E se c'è un'emergenza? Da quando ho lasciato casa, il mio mantra recita “ma sì ma stai tranquilla, tanto qualsiasi cosa prendi un aereo e arrivi. E poi ora da Parigi sono solo due ore, ci metti meno che a fare il giro del GRA”.
Ma adesso quel lusso di prendere e partire non ce l'ho più. Lo so che è per proteggere me stessa e gli altri. Però sembra tutto così surreale. E così, da metà marzo siamo anche qui sullo stesso fuso orario dell'Italia, è come se i due paesi si fossero sintonizzati sulle stesse onde radio.
L'hashtag #iorestoacasa diventa #restezchezvous, “restate a casa”, e già si passa dalla presa di posizione del singolo all'invito alla prudenza di chi ancora non crede nella forza distruttrice del virus.
Ma anche qui scatta l'esodo: quasi un parigino su cinque decide di lasciare il proprio misero monolocale di 8 m² e di passare la quarantena in famiglia, lontano dalla capitale, magari con giardino annesso.
Siamo ormai arrivati a fine marzo. Mentre in Italia la data di fine quarantena viene spostata, qui hanno deciso di posticiparla ufficialmente al 15 aprile prossimo. Per fortuna si dice “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. E beh, sapevo che l'uovo di cioccolato di mammà avrebbe dovuto aspettare ancora un po'. Ma quando sento Conte dire “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci più forte domani” e confronto con il “Siamo in guerra” di Macron, allora mi sento fiera di essere italiana, ora più che mai.
Chiara Angori, 24 anni, romana, vive a Parigi dove fa la traduttrice.