La Laguna senza turisti è risucchiata in un silenzio irrale. Nelle onde che riflettono la luce si intravede l'ombra di secoli di storia. E si capisce che cosa sta succedendo al mondo

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All’inizio della pandemia sono rimasto bloccato per un mese a Venezia. L’ho vista svuotarsi rapidamente: prima se ne sono andati gli studenti, poi i turisti, poi i camerieri, le guide, i gondolieri, i tassisti, gli osti, i lavapiatti. Poi sono diminuite anche le corse dei vaporetti e sono scomparsi anche metà degli Actv (si chiamano così per rapidità i dipendenti dell’azienda comunale trasporti, quasi tutti chioggiotti). In una città come Venezia significa che a scomparire è circa l’80 per cento dei frequentatori normali della città: non si può parlare di residenti, perché la città è abitata da transitanti, da esseri umani che la usano mettendosi a sua disposizione o la consumano per trarne piacere.

Tutti i transitanti in periodo di pestilenza rimangono fuori, mentre dentro la densità di presenza umana crolla. Crolla anche prima della grande quarantena scattata ormai in tutto il mondo; nella Venezia del nuovo millennio la quarantena inizia un po’ prima, è più rapida e te ne accorgi prima degli altri. C’è un elemento essenziale che te lo fa capire prima di ogni altra cosa: l’acqua.

Ho trascorso il mio mese di quarantena veneziana alla Giudecca, l’isola più esterna, quasi altra, quella che sta al di là dell’unico grande canale davvero navigabile della città, appunto il Canale della Giudecca. Un ramo di mare che attraversa la laguna, largo mezzo chilometro e profondo fino a 12 metri. Una vera distanza, un confine netto tra la città dei signori e quella dei pescatori, operai e lavoratori che hanno sempre abitato Giudecca, isolata in se stessa fino all’arrivo della sua gentrificazione, che come molti quartieri periferici l’ha trasformata parzialmente in luogo trendy e un po’ bohemien. Ma tutti, pescatori e giovani poeti, lavoratori e liberi professionisti, pensionati e camerieri hanno in comune una condizione fisica insuperabile: vivono al di qua dell’acqua.
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La Giudecca è divisa in tre quartieri, Palanca, Redentore e Zitelle, ma tutti e tre si affacciano sul Canale, come rami di un unico tronco. Così prima o poi in riva ci sbuchi, tutte le calli, i campielli, i canali minori partono o finiscono dalla lunga fondamenta che costeggia il Canale. Quattro chilometri di lastricato veneziano largo non più di quattro metri, stretto bordo del largo Canale, della grande distesa d’acqua che divide l’isola dalla Città, come chiamano Venezia a Giudecca. In questi giorni di quarantena l’acqua si è fermata.

Il Canale della Giudecca da oltre 60 anni non si era mai fermato, nemmeno di notte. Navi, motonavi, grandi navi, torpedini motoscafi, mototopi, topette, barchini e cofani, un turbinio infinito di spostamenti e eliche, di impegni e trasporti, nella frenetica speranza e illusione di poter usare l’acqua come asfalto. Tronchetto, San Marco, Lido in meno di venti minuti. Il Canale come tangenziale, come spazio di connessione per accelerare le lentezze di una città ostinatamente pedonale, per restituire anche a Venezia l’emozione della rapidità, per consegnarla tronfia al mercato globale delle attrazioni festive.

Questo è stato il Canale della Giudecca per oltre sessant’anni. Fino al 25 febbraio 2020, quando d’improvviso la tangenziale si è svuotata. Perché non serviva ai cittadini, ma quasi solo ai transitanti. I cittadini usano i piedi e il vaporetto. Ne basta uno, quello che ti porta al di là o al di qua, poi per il resto cammini. E infatti solo quello è rimasto. Un solo vaporetto, anzi il Battello come è più giusto chiamarlo: ogni dieci minuti di giorno e ogni venti la sera. Non c’è altro ora sul Canale.

Tutto il resto è acqua, improvvisamente solo acqua: non onde, schiume, vortici, fanghi, ma un liquido corpo di correnti silenziose, un morbido letto quasi plastico, di gomma fluida, placido, plumbeo, tappeto fluido capace di sospendere e far scivolare il Battello cancellandone il peso. Un giorno sul Ponte Lungo, il ponte di legno che unisce Palanca e Redentore da cui si vede tutto il Canale, da San Giorgio a Marghera, ho incontrato Paul, cameriere friulano giudecchino da quindici anni, stava immobile quasi a sognare: «I riflessi. Non avevo mai visto i riflessi». Sull’acqua del Canale le case di Venezia, quelle dei signori al di là, si specchiavano perfettamente. Nei canali dentro la Città è normale che succeda, ma da Giudecca era impensabile. Uno specchio di 500 metri al posto della tangenziale.

Paul ha una piccola barca a remi, una verigola chioggiotta, «la barca più bella del mondo» secondo lui (e non solo). Una barca antica di laguna, bassa e completamente piatta, ideale per la vela al terzo e la voga. «Andiamo lì in mezzo?», Mi ha invitato a fare un giro con lui in mezzo all’acqua, né di qua né di là. In mezzo. Non c’erano ancora i divieti più duri, stando a distanza, lui a poppa io a prua, si poteva. Lui un vogatore esperto ed elegante, io un principiante disordinato. Siamo arrivati in centro al Canale, il Battello era passato da qualche minuto, eravamo totalmente soli.

Non so se potete in qualche modo avvicinarvi con la fantasia a questa sensazione: galleggiare piccoli piccoli in un grande silenzio di acqua nel cuore di 600 anni di storia. D’improvviso sospesi, ovattati in una dimensione di atemporalità sincronica. Non siamo riusciti a dirci nulla. Abbiamo lasciato che la verigola andasse alla deriva, leggera, come piuma in un lenzuolo soffice, come accarezzata da un destino inatteso. Un dondolio quasi immobile, lo sciabordio lieve sul legno, la sensazione di poter allungare un piede oltre il bordo della barca e poter camminare, scivolare, pattinare in quello specchio abitato solo dai riflessi dei palazzi, delle chiese e del sole.

Uno specchio magico che nella sua tragica unicità diventa occasione per capire che cosa ci sta succedendo. La natura sta agendo un’azione di stupore immenso, liberandosi con violenza della presenza umana, porta l’uomo a specchiarsi con se stesso. A Venezia, sul Canale della Giudecca, porta addirittura l’uomo a specchiarsi con 600 anni di se stesso.

Le altre città del mondo svuotate dal virus sono semplicemente città vuote, città di asfalto deserto e macchine parcheggiate. Venezia invece viene risucchiata in un tempo altro, assomiglia a sé stessa prima dell’arrivo del moderno, del contemporaneo, prima del motore, della velocità, della connessione, della globalità. È uno schiaffo violento e inaccettabile, ma costringe a vedere, a percepire ciò che abbiamo deciso di perdere o revocare, a decidere o quanto meno immaginare se questa decisone vuole affrontare il rischio di essere per sempre, dove per la prima volta capiamo il doppio senso drammatico di questo “per sempre”.

Fino a ieri la questione sembrava relegata ad un’improbabile illusione nostalgica: vogatori e ambientalisti convinti di poter proporre lirici ritorni al passato. A volte anche piacevoli da ascoltare, in comodi e disimpegnati eventi culturali, ma più spesso facili da deridere. Ora l’ultimatum soffia freddo nel collo. Il Canale della Giudecca è davvero vuoto, il suo silenzio è inquietante, quando il cielo è grigio diventa una lastra di nulla e dolore, i motori, le onde, quelle sono al centro della nostalgia ora. Ce li ridaranno? Ce li meritiamo? Come ne verremo fuori?

La domanda ha cambiato prospettiva: non c’è più qualcuno che sogna di fermare il moto ondoso, ma siamo tutti a chiederci se sia possibile far tornare le onde. Prima pochi donchisciotte (sempre più numerosi, a dire il vero) sostenevano invano che fosse necessario fermare le onde, ora tutti sappiamo che se quelle onde ci mancano è perché erano troppe. Transiti, velocità, frequentatori, turisti, sono questi i movimenti che hanno diffuso rapidamente il virus, non quelli che osteggiavamo di uomini poveri e migranti, ma quelli che amavamo di uomini ricchi e clienti.

Con loro e i nostri motori ha viaggiato il virus. Il virus che ora ci ha lasciati soli, separati dai nostri genitori, dai nostri figli, ad aspettare, a temere, a morire da soli. Possiamo davvero evitare di cambiare? Cos’altro ci deve succedere? Siamo rimasti soli in una verigola nella bolla fluida della storia umana. È una tragica occasione finale, dove il “per sempre” suona completamente diverso.