Strade deserte dal Pincio al Torre Maura. La capitale del traffico, dei turisti e del caos si è rattrappita in un'allucinazione metafisica. Come se con l'arrivo del coronavirus tutto fosse davvero finito

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All’imbrunire, sulla terrazza del Pincio, i carabinieri si avvicinano ai lampioni accesi come falene a fine turno. Arrivano in auto, prima due, poi altri due, alla fine saranno almeno una decina. Ci sono solo loro, sullo spiazzo che guarda la città, solo loro in tutta Villa Borghese che si inerpica nel buio alle spalle, loro soli tra i busti di marmo e piazza del Popolo che si stende sotto come un giglio che non può vedere nessuno. Lo diresti un privilegio - lo splendore della Capitale deserta, tanto celebrato con dispiegamento di video, servizi, droni - invece loro boccheggiano, dietro le mascherine.

«Dicono che Roma è bella, così, deserta. Dicono che bello, tu giri, te la puoi vedere tutta. Ma non è vero che è bella. Mette l’angoscia», si precipita a dire uno di loro appena finito l’ennesimo controllo. Vive a Borgata Fidene, ha un figlio di tredici anni che non vivrà l’esame di terza media e fa tre ore di lezione a settimana, una moglie che lo passa ai raggi X ogni volta che torna a casa, tra spray sanificanti e pattine. Tutto giusto, mantenere la calma, avere pazienza, però «per strada non incontri più nessuno, solo colleghi, solo colleghi per sei, sette ore. Ed è bene, i romani stanno a casa. Ma senza nessuno questa città cosa è? Allora alla fine veniamo qua su. Sotto c’è la polizia, noi qua su», dice dando un’occhiata più in basso.

Sotto, oltre al posto di blocco della Municipale, c’è l’esercito di Strade sicure, le camionette che piantonano via del Corso, e naturalmente ci sono anche adesso, in assenza di civili da proteggere. Forze dell’ordine e senzatetto. Nessun altro. Sembra di stare in un’allucinazione metafisica e spettrale, in un quadro di De Chirico, a passare in mezzo ai fregi romani, ai ghirigori barocchi, le edicole votive, le statue, l’erba verde che a Piazza Navona cresce alta due dita tra i sampietrini che non calpesta nessuno, il gracchiare dei corvi, l’alitare inquietante dei gabbiani, i manifesti chiassosi di eventi nel frattempo passati e che in verità non si sono tenuti mai, un’allucinazione irriconoscibile nella quale si cammina come se si fosse dei sopravvissuti a se stessi, magari di ritorno dopo cent’anni di assenza. O come se gli alieni avessero conquistato il pianeta terra e ricostruito su Saturno, finta, la Roma vera di un tempo che fu.

Una città che suona come una bizzarra e scintillante Cinecittà riprodotta in scala uno a uno, senza sporcizia, carte a terra, rumori, ambulanti, distrazioni, luci che non siano quelle dei lampioni. Senza traffico, figuriamoci. Una Disneyland triste - e del resto anche il luna park dell’Eur che aveva riaperto quattro anni fa sembra di nuovo chiuso da venti. Un insieme sospetto. Troppo squillante e patinato l’antico, troppo decadente tutto ciò che invece sarebbe nuovo, persino troppi gli autobus in giro per una città che ha problemi pure con il conto delle fermate della metropolitana. E anche le proporzioni gli alieni devono averle sbagliate: senza clacson, senza turisti, senza automobili, s’è tutto ravvicinato, ristretto, rattrappito.
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Da via Condotti si vedono le palme di piazza Cavour, da piazza del Popolo piazza Venezia sembra a un passo. Forse chissà ad arrampicarsi in cima al Colosseo si vedrebbe il mare. Al foro di Traiano, inizio di via dei Fori imperiali, la statua in bronzo dell’imperatore Ottaviano Augusto alza il braccio e punta l’indice al cielo come fa da circa due millenni. Quindici chilometri a nord est, verso la Tiburtina, a ridosso del raccordo anulare, un ragazzo aspetta attento dietro la finestra del salotto al primo piano di casa sua che gli altoparlanti piazzati nel giardino condominiale facciano scorrere la canzone Roma Capoccia fino esattamente al punto in cui Antonello Venditti parla del mondo infame. Quando arriva l’attimo, lui di botto apre le persiane e urla all’unisono: “der mondo infame”. Col dito alto al cielo, come l’imperatore romano. Invece che dai Fori romani, dal Lotto 51 di San Basilio - una delle borgate dove negli anni trenta Mussolini spostò gli abitanti del centro sventrato dai lavori del regime e che più di recente conta altri record, tipo essere la piazza di spaccio più grande d’Europa.

Alle finestre di quel Lotto hanno cantato tutti, durante il concerto del tour “Sotto lo stesso cielo”, itinerante per le periferie di Roma, organizzato dall’associazione Salvamamme e dal suo coordinatore, Paolo Masini, già assessore alle periferie con Ignazio Marino. Accanto alla fontana della balena, installata nel 1999 da Francesco Rutelli ma non funzionante da vent’anni, c’erano anche i fratelli Menelik, gemelli, eternati dal cantautore locale Alessando D’orazi e talmente fieri d’avere una canzone per loro da saltellare qua e là anche davanti all’ispettore di polizia e dire «siamo noi, siamo noi proprio» sulla strofa «ti smontano la casa e traslocano di fretta, prima che canti la civetta». Romanità anche nel mondo infame del covid, finestre accese da cui si intravedono pendole, credenze, tende, poster, bandiere, padelle, lampadari, neon.

Uno squarcio vivo in un mondo sospeso dove sembra non debba accadere quasi più nulla («contro il virus del capitalismo», recita una scritta) a parte le file al supermercato, che si fanno più corte, mentre quelle davanti alle associazioni che distribuiscono i pacchi alimentari si fanno sempre più lunghe. E i famosi buoni spesa tardano ad arrivare, come racconta Nella Converti, volontaria della 21 luglio e che da Tor Bella Monaca vede la bomba sociale che si sta avvicinando, dritta dritta e rotonda come una palla, e intanto passa le mattinate a ripetere: «Signò, dovete aspettare».

Al centro commerciale di Porta di Roma, tempio delle Ikea, dei Leroy Merlin, delle Multisale e dei mega negozi, i parcheggi sono sterminate distese di cemento liscio intervallate da carrelli della spesa e luci intermittenti nel buio pesto, ottima location per un film dell’orrore a costo zero - sempre che qualcuno abbia voglia di girarne. Negli spazi esterni, quelli destinati alle piste di pattinaggio, l’unica forma di vita è un corvo che si aggira come se fosse casa sua. Dentro, di aperto c’è solo l’Auchan, il primo del Municipio dove - come praticamente in ogni parte di Roma, in questo periodo - è stata organizzata la spesa sospesa per chi è più in difficoltà. Racconta lo scrittore Christian Raimo, assessore alla Cultura al terzo municipio, che in questo periodo di Covid19 vede anzitutto questo: «Gente che non ha soldi, ma proprio non ce li ha. Che campava con il pranzo dalla nonna, la lezione di ripetizione, il mini trasloco, il lavaggio dei piatti al ristorante, che aveva soldi massimo per 15 giorni e adesso è ridotta a zero».

Nella zona le famiglie da sostenere, attraverso le associazioni, sono passate in quattro settimane da 80 a 700, quasi decuplicate, e al municipio sono arrivate quasi 12 mila domande, mille al giorno per i buoni spesa. In tutta Roma più di centomila: a spanne, esauriranno in un solo giro tutti i 15 milioni di euro arrivati dal governo. I primi a essere in difficoltà sono gli stranieri, come sempre. Perché poi il virus cambia molte cose, ma non proprio tutto. A Tor Sapienza, per dire, i roghi dei rifiuti accanto ai campi rom proseguono indisturbati, proprio come prima.

A Torre Maura i migranti sono chiusi nel centro d’accoglienza di via Codirossoni come un anno, fa e anzi adesso che c’è il Covid sono anche in quarantena - sono stati trovati due positivi. Dentro, incendi per protesta. Fuori, cittadini indignati per la sedicente scarsa riconoscenza di chi è stato accolto e ben quattro volanti a presidio. Al netto della variante virus, e della gente che urla dai balconi «non c’è distanza, non c’è distanza» appena vede quattro persone insieme, il clima non sembra tanto diverso da prima, nonostante i proclami e gli osanna riservati giusto un anno fa a Simone, il quindicenne che osò sfidare Casapound dicendo: «State a fa’ leva sulla rabbia della gente per racimolare voti».

L’anno scorso la gente scesa in strada a protestare buttò a terra il pane destinato ai migranti, adesso c’è chi ipotizza di circondare la struttura di filo spinato. Razzismo dei tempi nuovi. Dieci chilometri più a sud, vicino all’Ippodromo delle Capannelle, l’intero quartiere è s’è spaccato in due quando ha visto arrivare in un hotel alcuni supposti migranti, che poi si sono rivelati persone che necessitavano di quarantena, essendo stati a contatto con positivi, ma senza un posto in cui farla.

A chi voleva cacciarli s’è contrapposta Ramona, che ha 25 anni e fa la disegnatrice e che online ha raccolto in poche ore 127 firme sotto un appello di orgoglio del quartiere «per essere d’aiuto a superare l’emergenza». Coriandoli di resistenza - Simone, Ramona, tanti altri - mentre il Campidoglio Virginia Raggi proclama felice di aver multato a Pasquetta l’1 per cento dei fermati (uno inseguito da un drone), immagina di mettere su delle ciclabili temporanee in vista della fase due (addirittura 40 chilometri, contro i cinque realizzati sin qui), ovviamente in deroga al regolamento (per esempio striscie larghe solo due metri invece di tre), a concedere più spazio esterno a bar e ristoranti in vista dell’estate, a impiantare drive-in in parcheggi e spazi inutilizzati, addirittura a sognare treni della metropolitana con dentro 120 persone (invece che 1.200), autobus con dentro una ventina di passeggeri per corsa (contro i cento di prima), il controllore che verificherà il rispetto delle distanze.

Del resto il Covid sembra essersi portato via persino l’emergenza rifiuti. E senza muri di automobili c’è spazio per la fantasia, per qualche settimana, almeno. Il tempo che Gader, curdo, in Italia da 22 anni, smetta di spaccare noci seduto su una panchina alla base del Colosseo Quadrato, come fa adesso in attesa che gli si asciughino i pantaloni lavati alla fontanella e appesi a un albero, mentre la Municipale si esercita nel solito posto di blocco, pochi metri più in là.