Coronavirus, tutti i motivi per cui l'Italia non è pronta a riaprire
Il nostro Paese potrà abbandonare il lockdown solo a certe condizioni: produzione di mascherine, malati e anziani isolati, tracciamento tecnologico. E la speranza di una cura. Ma oggi non sono garantite. Ecco punto per punto qual è la situazione
Gli italiani sono chiusi in casa da oltre un mese, ed è probabile che per altre settimane il lockdown continuerà senza allentamenti. Al netto delle diverse ipotesi su quando arriverà il picco dell’epidemia, o delle tante curve previsionali sul giorno in cui il fattore “Ro” scenderà sotto il numero magico (cioè 1, quando un contagiato in media infetta meno di un’altra persona), nessuno sa davvero quando il coronavirus sarà sconfitto. Come spiegano gli scienziati più attenti, datare oggi il nostro ritorno a una vita normale ha la stessa attendibilità di un oroscopo. Il nemico è infido, i focolai nascosti ancora tanti, gli asintomatici untori a loro insaputa pure: troppi elementi sconosciuti per compilare predizione esatte.
Navighiamo dunque ancora a vista, e la Pasqua sarà per tutti una festa domestica. «No alle false speranze, ogni passo verso la riapertura dovrà essere fatto con estrema cautela», ripete l’infettivologo del Sacco Massimo Galli. In modo da evitare una seconda ondata che - come avvenuto con la spagnola nell’estate del 1918 - sarebbe funesta. Sia per il sistema sanitario, sia per quello produttivo.
Detto questo, il governo sa che non è possibile mantenere il blocco totale delle attività per un tempo indefinito. Ne va della tenuta economica e sociale del paese, e di conseguenza di quella dell’ordine pubblico. Della resistenza stessa dello Stato democratico. Se non sappiamo ancora quando, è dunque necessario pianificare già ora il ritorno a una vita quasi normale. Un programma che sia basato però su un assunto: come dicono gli scienziati fin dall’inizio dell’epidemia, l’Italia e il mondo conviveranno con il Covid -19 per un tempo lungo.
Il pericolo di recrudescenze sarà elevato anche alla fine della fase epidemica più acuta. Senza un vaccino o una cura specifica saremo sempre sotto schiaffo: per l’antidoto i più ottimisti parlano di 12-18 mesi, ma i pessimisti ricordano come per Ebola ci sono voluti ben cinque anni. Per la terapia farmacologica i tempi potrebbero essere più brevi, ma ad oggi non esistono certezze.
Il governo Conte sa che ogni mese di chiusura costa circa 60 miliardi di euro (fonte Fmi). E da qualche giorno sta ipotizzando come riuscire a riaprire qualche fabbrica verso fine aprile. A Palazzo Chigi si discute dei settori produttivi più in affanno, delle aziende strategiche che non posso perdere altre quote sui mercati, di quali zone del Paese potranno essere liberate prima, e quali dopo.
Alcuni osservatori, però, temono che la fretta possa essere cattiva consigliera. E che le istituzioni debbano prima concentrarsi su alcuni obiettivi preliminari. Step fondamentali, senza i quali una riapertura, seppur parziale, sarebbe un azzardo. Mascherine sempre e per tutti gratis a prezzo ragionevole, riconversioni industriali, moltiplicazione delle terapie intensive, strategia chiara sui tamponi, piano di controlli interni e alle frontiere, nuove norme sociali: senza un piano multisettoriale che funzioni davvero, sarà impossibile convivere col virus in sicurezza.
IL FABBISOGNO DI MATERIALE Partiamo dalle mascherine, dai tamponi e dal materiale sanitario necessario a contrastare la diffusione del coronavirus. Le maschere - oggi fondamentali innanzitutto per medici, infermieri e malati - in caso di riapertura delle attività serviranno a tutti. Nei luoghi di lavoro, nei locali pubblici, e sui mezzi di trasporto potrebbero diventare presto obbligatorie.
In tempi di emergenza il fabbisogno è stimato in 90-100 milioni di pezzi al mese. Ma a fine lockdown il numero potrebbe triplicare. «Oggi i cittadini le usano al massimo per fare la spesa, e così ne fanno durare una più giorni», spiegano gli esperti della Protezione civile che si occupano del dossier. «Quando apriremo di nuovo uffici e aziende, ogni italiano ne userà molte di più».
Dunque se si vuole allentare il blocco in sicurezza, i cittadini non solo dovranno continuare a rispettare il distanziamento sociale di almeno un metro, ma avranno bisogno di una disponibilità costante di 300 milioni di mascherine al mese. Un numero enorme. Per raggiungerlo l’Italia all’importazione massiccia dall’estero deve affiancare una potenziata (per usare un eufemismo) produzione nazionale. Riconvertire le fabbriche in tempi rapidi, dunque, è mossa prioritaria. Anche perché se i cinesi si sono messi a realizzare quantità enormi di pezzi, le mascherine sul libero mercato avranno prezzi esorbitanti per molto tempo. Altri impedimenti arrivano dai blocchi alle dogane e dall’anarchia di mercati paralleli poco affidabili.
Alla Protezione civile e negli uffici del commissario delegato Domenico Arcuri lo sanno, e stanno cercando di correre ai ripari. Ma a oggi la produzione interna è ancora insufficiente. «Venticinque aziende della filiera della moda producono 200 mila mascherine chirurgiche al giorno, che si spera di triplicare entro qualche settimana. Il settore dell’igiene personale potrebbe raddoppiare il numero», ha detto il capo di Invitalia. Anche fosse vero (un’inchiesta di Repubblica ha smentito quei numeri) è chiaro che per arrivare a 300 milioni di mascherine al mese serve uno sforzo suppletivo.
Sono migliaia le aziende che si sono proposte di costruire dispositivi vari (tute, camici, guanti, visiere e gambali). Sfortunatamente molte non hanno le capacità necessarie, e altre hanno problemi ad ottenere le autorizzazioni dall’Istituto superiore di sanità e dall’Inail, gli enti che devono garantire i requisiti vigenti a tutela della sicurezza di chi usa il prodotto. «Molti propongono di costruire mascherine “artigianali”, che non possono essere validate», spiega il presidente dell’Inail Franco Bettoni.
Qualche giorno fa il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana ha polemizzato duramente con l’Iss, che bloccherebbe imprese già pronte alla riconversione. Da un lato le lungaggini della burocrazia esistono, ma - seppur il decreto del 17 marzo deroga da alcune norme Ce - è pur vero che lo Stato deve garantire (attraverso esami da effettuare in laboratori certificati) che i nuovi prodotti siano utili a bloccare il Covid 19.
«Il fiscalismo va combattuto, ma per la fretta potremmo far nascere i gattini ciechi: l’epidemia riprenderebbe subito. Bisogna stare attenti», commentano anche da Palazzo Chigi. Dove però sottolineano come l’abruzzese Fater, la Fippi in Lombardia e la Parmon in Sicilia, specializzate in pannolini e assorbenti, garantiranno presto un numero di dispositivi di protezione «davvero importante».
Mascherine, però, non professionali. Ma adatte solo alla massa che si appresta a ritornare in strada. Altra speranza è la joint venture che si sta approntando con Carrera, storico marchio di jeans. L’azienda di Verona produce infatti in Tagikistan (dove controlla tutta la filiera, dalle piantagioni di cotone ai capi finiti) pure una mascherina di cotone impregnata di grafene, già a norma Ce. È lavabile, e l’impresa sarebbe in grado di produrne fino a 1,5 milioni al giorno. Dunque 45 milioni al mese. «Ci stiamo organizzando con aerei dell’esercito in modo da evitare i blocchi dell’Uzbekistan, che ha chiuso le frontiere», confermano dagli uffici di Arcuri. I tecnici sono ottimisti, tanto da aver messo in contato la Carrera con il Cnr per provare a sostituire il bagno di grafene con un materiale a base di argento. Che sarebbe 10 volte più economica e altrettanto efficace.
ANZIANI A CASA, GIOVANI AL LAVORO Senza mascherine per tutti, l’epidemia potrebbe riesplodere in poche settimane. Ma per gli esperti altra mossa chiave per riaprire con successo sarà quella di tenere separati, finché non si trova cura o vaccino, i soggetti più giovani da quelli più a rischio. Cioè anziani e categorie immunodepresse. Ipotesi di questo tipo sono state già fatte non solo dai governi di Israele, Usa e Gran Bretagna che ipotizzavano una circolazione delle classi produttive per realizzare un’immunità di gregge, ma (per il post lockdown) anche da alcuni tecnici che siedono nel Comitato tecnico scientifico che consiglia Giuseppe Conte e il governo nazionale.
I motivi sono due. In primis, l’isolamento protegge chi - colpito dal coronavirus - ha più probabilità di subire dalla malattia conseguenze gravi. In secondo luogo, le terapie intensive oggi sono - soprattutto al Nord - in gran parte occupate da over 65: si potrà uscire in sicurezza solo quando saranno svuotate, e quando i letti potranno accogliere chi potrebbe ammalarsi dopo essere tornato a lavorare.
Non sarà facile far passare provvedimenti restrittivi per fascia di età, la Costituzione lo vieta. «Ma è necessario pensare a soluzione alternative», chiosa una fonte autorevole dell’esecutivo. Che sottolinea come il numero di ventilatori meccanici non è ancora sufficiente per una riapertura generalizzata. E che bisogna attrezzarsi per quadruplicarne il numero in tempi record.
All’inizio dell’emergenza le terapie intensive erano 5.300. In un mese sono cresciute, dicono Giuseppe Borrelli e Arcuri, del 68 per cento. «Oggi sono quasi 9.000. Un risultato straordinario che il nostro sistema è riuscito a raggiungere in un arco temporale brevissimo». Non bastano ancora, però. In Germania ce ne sono, per fare un esempio, 28 mila. E la Angela Merkel pensa di aggiungerne altri 6mila entro la fine di aprile: un’abbondanza che consente oggi alle industrie tedesche di lavorare quasi a pieno regime.
A oggi, nessuno stabilimento italiano si è riconvertito per produrre nuove macchine salvavita. La piccola azienda bolognese Siare Engineering resta l’unico produttore del settore. Grazie al personale mandato dall’esercito, e all’aiuto di Fca e Ferrari, la capacità di produzione è raddoppiata, e dovrebbero sfornare nei prossimi due mesi 2.000 macchine. Solo al Sud, però, ne servirebbero il triplo.
«Abbiamo moltiplicato anche i caschetti Cpap per le sub-intensive. E contiamo molto», spiegano esperti che lavorano con Borrelli «anche sulla Omnidermal». Una società che è riuscita a modificare i palloncini manuali “Ambu”, in genere usate sulle ambulanze, in ventilatori da usare soprattutto quando i pazienti sono in fase di recupero post-intensiva. Il genio italico consentirà anche, attraverso una nuova valvola, di usare una sola macchina per due persone, raddoppiando in teoria i pazienti ricoverabili.
Ma garantire il fabbisogno di ventilatori resta obiettivo chiave: la fine del lockdown potrebbe mandare in terapia intensiva un numero costante (seppur molto più basso di quello attuale) di pazienti in caso di un contagio di ritorno. Solo se c’è certezza che il servizio sanitario possa prendersi cura con efficacia di tutti gli ammalati la vita potrà tornare quasi normale.
CACCIA ALLA CURA Riaprire l’Italia il prima possibile è il mantra di questi giorni. Ma sarà la curva degli infetti e il fattore Ro a dirci quando sarà davvero possibile. Le scuole riapriranno con ogni probabilità a settembre. Il governo, però, dovrebbe già oggi programmare nuove regole in merito all’accesso su mezzi di trasporto come metropolitane, treni, aerei e bus. E concepire norme ad hoc sull’uso luoghi pubblici. Che fare nei prossimi mesi in cui il virus circolerà con teatri, ristoranti, discoteche e stadi? Solo per fare un esempio, in Cina, Hong Kong e Corea del Sud hanno acquistato milioni di termoscanner per controllare la temperatura all’ingresso. L’ Italia non ancora. E poco o nulla è stato fatto per attrezzarsi a tracciare asintomatici positivi e immuni.
Altro step essenziale riguarda gli investimenti sui farmaci. «In ogni emergenza la scienza dà il meglio di sé, c’è uno sforzo collettivo dei ricercatori mai visto prima», dice Cristina Mussini, professore di Malattie infettive al Policlinico di Modena.
Il centro che dirige Mussini è tra quelli che stanno sperimentando il Tocilizumab, il medicinale per l’artrite reumatoide e che ora è stato usato per combattere le complicazioni da Covid 19. La sperimentazione procede spedita. Il gruppo di ricerca, guidato dal Centro tumori di Napoli e del quale fanno parte 27 strutture ospedaliere, sta studiano gli effetti su un campione di 330 contagiati. «Posso dire con certezza che quella sul Tocilizumab è estremamente promettente, non sarebbe etico non somministrarlo», si limita a dire Mussini. Trapela più di un filo d’ottimismo, il numero di guariti con il prodotto della Roche è alto. Avere un farmaco approvato dall’Aifa davvero efficace, permetterebbe una riapertura con un’arma in più.
Oltre al Tocilizumab sono in corso altri studi. Sulla rivista scientifica International journal of Antimicrobial Agents è stato pubblicata una ricerca francesce sugli effetti del Plaquenil, nome commerciale dell’idrossiclorochina. Un farmaco antimalarico che, secondo gli scienziati, abbinato all’antibiotico azitromicina (usato per la polmonite batterica) potrebbe guarire molti pazienti in una settimana. Il tentativo sta suscitando grande dibattito nella comunità scientifica. Non tutti concordano sui benefici, mentre altri esperti, come il professore Roberto Burioni del San Raffaele di Milano, sono possibilisti sull’efficacia del Plaquenil per prevenire l’infezione polmonare. E comunque l’Aifa ha messo in guardia i medici di base dal prescriverlo senza precauzioni.
E poi c’è il Remdesivir, già testato per Ebola, Sars e Mers. Il test sull’efficacia dell’antivirale è in corso in numerosi ospedali: dal Sacco di Milano allo Spallanzani di Roma passando per l’azienda ospedaliera di Padova, quella di Parma e il policlinico di Pavia. Anche in questo caso i risultati lasciano ben sperare. Sempre a Pavia si sta sperimentando l’utilizzo del plasma dei pazienti guariti come anticorpo da iniettare nei malati in terapia intensiva. Un metodo che in Cina ha dato buoni risultati.
Il governo nazionale e il Comitato tecnico scientifico che lo consiglia osservano impazienti, perché una terapia efficace potrebbe accelerare l’avvento del Dopo Coronavirus. C’è molta attesa anche per il vaccino. Nei laboratori c’è fermento, e trovare l’antidoto giusto non sembra più una missione impossibile.
TRACCE DI VIRUS Altro obiettivo da perseguire presto, insieme a quelli appena citati, è l’implementazione immediata de sistemi di tracciamento. Che - nonostante i se e i ma degli «azzeccagarbugli della Costituzione», come li ha definiti Gustavo Zagrelbesky - hanno avuto il via libera pure del Garante della privacy Antonello Soro: «Sì alle misure eccezionali per far fronte all’emergenza, purché siano proporzionate e limitate nel tempo», ha dichiarato.
In Corea del Sud l’uso di applicazioni informatiche per controllare i movimenti dei contagiati e ricostruire i loro spostamenti ha permesso di delimitare le aree contaminate in pochissimo tempo. È vero che il governo coreano aveva già un piano anti-pandemia dopo le esperienze con Sars e Mers. Ma l’Italia è ancora indietro. Un’app di Stato non è ancora stata scelta. Eppure i vantaggi della tecnologia sono immensi.
Le modalità di controllo a distanza sono essenzialmente tre. Si va dalla telemedicina, chiesta a gran voce da Galli, per l’assistenza ai quarantenati: serve a instaurare un dialogo con chi è contagiato e non può uscire di casa, ed è utile a evitare nuovi focolai incontrollati. Il reparto malattie infettive di Modena per esempio ha creato un database che permette di comunicare giornalmente con i pazienti positivi sintomatici in cura domiciliare. «Un diario quotidiano, dove il malato può segnalare l’insorgenza di sintomi più gravi: fame d’aria, febbre alta, tosse in aumento», spiega Giovanni Guaraldi, professore di malattie infettive del policlinico: «Nel momento in cui dovesse verificarsi un peggioramento il paziente verrebbe portato subito in ospedale». Senza un controllo a distanza rischiano di arrivare in nosocomio troppo tardi, ingolfando il sistema sanitario di casi che potrebbero essere curati in tempo minore.
La seconda modalità di controllo è il “contact tracing”: un’applicazione che misura e registra i nostri spostamenti e permette di riscontrare rapidamente con quante persone è entrato in rapporto un nuovo contagiato e in quale zona della città. Le persone a rischio individuate verrebbero avvertite da un alert che li invita a fare il tampone. Infine, esiste un tracciamento effettuato tramite le celle telefoniche: permettono di localizzare un numero identificativo (che corrisponde alla singola utenza) in un determinato luogo. Potrebbe rivelarsi utile per ricostruire l’anamnesi degli spostamenti di un contagiato così da capire quante persone hanno frequentato gli stessi luoghi del positivo e sottoporle a tampone.
Il tracciamento elettronico è fondamentale per circoscrivere la cerchia di amici e conoscenti entrati in contatto con il malato. Così da poter eseguire su di loro tamponi rapidi. In questo modo le statistiche sarebbero tra l’altro più affidabili, soprattutto sulla letalità del virus: con più tamponi, infatti, aumenterebbe di molto il numero di contagiati, ma si abbasserebbe sensibilmente il tasso di letalità. «Tamponi, tamponi, tamponi», ordina l’Oms. Ma ad oggi il governo e le regioni sembrano muoversi senza una strategia comune. Per riaprire serve un’organizzazione migliore, e implementare laboratori privati dedicati e il personale addetto. Il contrasto tra Roma e enti regionali finora non ha aiutato a cercare soluzione comune.
L’identificazione rapida di positivi e immuni è poi possibile anche con analisi del sangue e test anticorpali. Tre virologi veterinari del dipartimento di Scienze veterinarie dell’Università di Torino hanno per esempio avviato una ricerca per un test sierologico made in Italy col fine di «identificare i soggetti che hanno superato l’infezione asintomatica e potrebbero risultare immuni da successive infezioni». In una lettera inviata al quotidiano Avvenire hanno annunciato l’inizio della sperimentazione «con gli istituti zooprofilattici della Lombardia e dell’Emilia e in collaborazione con alcuni ospedali, potrebbe dare risposte nelle prossime settimane».
Ecco: se fosse confermata l’ipotesi dell’immunità per quei soggetti guariti dopo l’infezione, si potrebbe immaginare un ritorno scaglionato alla vita sociale e lavorativa partendo proprio da questa fetta della popolazione che ha sviluppato gli anticorpi.
Il lavoro preliminare da fare in vista di una ripartenza è dunque mastodontico. L’Italia è in netto ritardo, ed è necessario, se si vuole evitare il fallimento di un’riapertura caotica, darsi una mossa. Programmare la fine del lockdown senza un piano potrebbe essere disastroso. Perché una seconda ondata di Sars-CoV 2 causerebbe più danni della prima.