
Quella breve clip (rubata da un videodelatore amatoriale dall’alto di un balcone circostante), che nelle ultime settimane ha fatto il giro del web prima che il lanciafiamme mediaticamente brandito (nel senso proprio del brand) da Naomi la oscurasse (un po’ come la disgraziata, aspirante killer della banda di Charles Manson che Leonardo Di Caprio arrostisce in piscina - giustappunto con il lanciafiamme - nel finale di “C’era una volta… a Hollywood” di Tarantino), è il perfetto trailer di una desertificazione urbana che di lì a poco avrebbe investito a cascata l’intera penisola.
Svuotare, sgomberare le strade: era quella la parola d’ordine che nell’arco di pochi giorni ci avrebbe obbligato a fare la spesa con l’ultimo modello dell’autocertificazione in tasca (a oggi siamo alla quarta edizione, ma potrei sbagliarmi per difetto) e la mascherina bricolage sulla faccia. E cosa c’era di più simbolico da svuotare in una piccola città come Salerno, del lungomare - il gioiellino, l’aperto per eccellenza, lo struscio naturalistico, il catwalk de noantri, la botta di mondanità delle famiglie con bambini, il punto di riferimento delle coppiette che pomiciano sulle panchine e dei filoni scolastici (quando a scuola si andava), - per rimettere i distratti in riga? E allora vai con la rimozione forzata di chiunque venga beccato a gironzolare liberamente per i viali del lungomare. «Quello che è vietato è passeggiare», tuonò Vincenzo anzitempo («A lungomare soprattutto», abbiamo poi aggiunto da noi).
E non è che se abiti nelle vicinanze puoi farti una scappatella di stramacchio (per i non napoletani: alla chetichella) prima di raggiungere il supermercato, sì da goderti il quarto d’ora d’aria di mare. Macché: se ti beccano, rimedi una denuncia più facilmente di una contravvenzione per parcheggio in doppia fila. E di denunce ne hanno appioppate, altroché se ne hanno appioppate. Mica solo a Salerno. Ne hanno distribuite così tante che dopo un po’ si sono accorti che tanta disinvoltura denunciatoria produceva un carico penale praticamente ingestibile, tant’è che adesso (o almeno per adesso, visto che le normative cambiano in continuazione) la denuncia è stata sostituita con la multa da 400 a 3.000 euro (che fra l’altro non si capisce come farà a pagare chi, non lavorando, non ha più entrate). S’è dovuto ripiegare sulla sanzione pecuniaria perché (anche di questo si sono accorti in ritardo, benché non fosse proprio complicatissimo prevederlo) non è che ogni giorno puoi denunciare qualche migliaio di persone e poi scaricare il camion sul groppone di una magistratura che a malapena riesce a fare il suo lavoro.
Sgomberare, dunque. Non “Io resto a casa”, preceduto da hashtag che fa tanto bollino di buoni propositi, ma “Statevi a casa”, nel senso imperativo del falso invito.
Che il governatore italiano più amato da Carlo Verdone (oltre che da Maurizio Crozza) facesse sul serio, è stato subito dimostrato da un altro video, successivo a quello della ricognizione schifata dei frequentatori del lungomare, pure rimbalzato in rete con discreto successo (evito di proposito l’aggettivo “virale” perché mi sembra inopportuno, dato il momento) e rubato, anche quello, da un balcone (perché sui balconi non si cantano solo le canzoni di Toto Cutugno, ma si fa anche del videogossip che poi rimbalza di telefonino in telefonino, principale device del pettegolezzo tecnologico), in cui si vede un’auto della polizia municipale che sorprende un passeggiatore lungo i viali del lungomare Trieste con cane al guinzaglio. Quello, forse, crede che si possa, dotato com’è di cagnolino che funge da autocertificazione vivente, ma gli agenti (già incazzati, manco non fosse la prima volta che lo sorprendono in zona rimozione) gli intimano di rientrare immediatamente, limitare la pisciatina del quadrupede al raggio del palazzo dove abita e fare anche in fretta se non vuole una denuncia, perché «sul lungomare», testualmente, «non esiste proprio» (manca il complemento, mavabèh). È probabile che quel signore sia l’ultimo salernitano che ha visto il lungomare prima che diventasse limite invalicabile.
Il lungomare di Salerno, come sa anche chi Salerno l’ha vista solo dall’autostrada, è un lungo (circa un chilometro e mezzo), splendido giardino alberato che costeggia il mare e va dal centro storico al porto turistico di piazza della Concordia. Polmone della città, pura bellezza a portata di mano, il lungomare è stato recentemente agghindato da un solarium (per la gioia soprattutto dei giovanissimi, che ne facevano scorpacciate spaparanzandovisi in libertà al primo raggio di sole, giocando d’anticipo sul beltempo: del resto sono i giovani a celebrare la bellezza delle giornate), ribattezzato dai residenti “Salifornia”, che ricopre l’arenile della spiaggia di Santa Teresa, a brevissima distanza dal Crescent, la mezzaluna di cemento progettata da Riccardo Bofil che abbraccerà la futura piazza della Libertà, quella al centro della quale sempre De Luca dichiarò che un giorno avrebbe voluto fosse disposta l’urna con le sue ceneri (battuta su cui Crozza starà ancora rosicando per non averla pensata per primo).
Privare la cittadinanza del lungomare dalla sera alla mattina (un cambiamento repentino di stato che ha riguardato l’intero Paese, e ci ha costretto ad adeguarci a un tempo che all’improvviso ha preso a correre all’impazzata, cancellando abitudini, protocolli di vita, riscrivendo assetti affettivi e metodologie di lavoro), è stato un colpo mica da niente. Io per primo, che vivo tra Roma e Salerno, rientrando a Salerno in una fase in cui non era ancora vietato spostarsi sono rimasto depresso dalla scoperta, anche perché a Roma, almeno fino a un paio di settimane fa, era consentito farsi una corsetta (almeno nell’opinabile perimetro del proprio quartiere); e visto che nella capitale devo accontentarmi della pista ciclabile (anche perché i parchi li hanno chiusi), tornando a Salerno ero tutto frizzante all’idea di disporre del bel lungomare per la mia mezz’oretta di moto quotidiano.
L’atmosfera spettrale che mi ha accolto all’arrivo (decisamente più drammatica di quella romana), ha istantaneamente azzerato ogni aspettativa. E se il corso Vittorio Emanuele (isola pedonale del centro), con i suoi negozi chiusi, la sua unica edicola sempre aperta (Alfredo Senatore) e i pochi passanti che si spostano per sbrigare qualche commissione necessaria, ha l’assetto coreografico del film apocalittico, e dunque paradossalmente risponde a un’estetica cinematograficamente familiare o quantomeno riconoscibile, l’idea che il lungomare, cioè l’aperto, l’aria, il mare, la fuga (in altre parole, la speranza) sia inaccessibile e deserto, claustrofobizza ancor più la sensazione che se ne ha guardandolo da lontano, negli spaccati offerti dagli edifici.
In tempi abbastanza recenti, il lungomare ha già conosciuto un’altra forma di desolazione, o meglio di mutilazione: quella delle palme uccise dal coleottero rosso, il parassita che in pochi anni ha infestato la quasi totalità degli alberi ornamentali dei giardini e dei litorali italiani. In quel periodo, passeggiare in quel cimitero naturale era un dolore, malgrado il sole trionfasse per via della mancanza dell’ombra. Quella galleria di amputazioni, benché spalancata sul mare (e quindi comunque geograficamente privilegiata), offuscava il senso della bellezza e reprimeva ogni accesso gioioso, perché raccontava una morte. Ricordo che in quei giorni, anche costeggiando il mare, faticavo a sentire l’odore dell’aria.
Ma se quello delle palme decimate dal parassita era lo spettacolo di uno sradicamento, lo scempio commesso da un nemico ben individuato che aggrediva dal di dentro una forma di vita mortificando il paesaggio, quello attuale è la quinta di un abbandono, la rappresentazione inquietante di un’interruzione improvvisa, di uno sgombero. La desolazione dell’aperto è due volte innaturale perché priva lo spazio di senso, toglie valore alla luce. Lo spazio è accoglienza, comprensione: per questo, svuotare ciò che già si offre come vuoto che aspetta d’essere riempito di ospiti che vanno e vengono (rigorosamente senza invito), è ancora più detrattivo dell’evacuazione di un’isola pedonale o di una piazza.
Il paesaggio (non solo salernitano) che abbiamo intorno, in queste sciagurate settimane in cui disimpariamo a stare insieme e viviamo davanti a uno schermo, e di cui facciamo esperienza nei brevi intervalli in cui usciamo per fare la spesa o comprare l’aspirina (lo spalancarsi delle strade sempre soffocate dalle automobili, il silenzio innaturale in cui sono sprofondate da un tempo che sembra ormai destinato a durare, quel bisogno quasi furtivo di immortalare con il telefonino uno scenario che non ci è mai apparso così nudo), è il campo lungo di un paese immerso in una pace terrificante, per ricordare una bellissima canzone di Fabrizio De Andrè.
E chissà che qualche regista dal gusto retrò non abbia già avuto l’idea di montare un intervallo televisivo (quello, per capirci, con la passacaglia di Häendel in sottofondo) che mostri la desolazione del paesaggio italiano attuale.
Caro Enrico Ghezzi, questo sarebbe un perfetto lavoro per te.