Nei villaggi della Carnia spopolata dove chi è rimasto vive da anni in quarantena
Rigolato. Givigliana. Vuezzis. Viaggio in borghi alpini che contano una decina di abitanti. Qui l’isolamento è una scelta fatta una volta per tutte. E si riesce ad affrontarlo con serenità
Se sali lungo la dorsale del silenzio, dell’isolamento, del distanziamento, che dall’Aspromonte lungo tutto l’Appennino approda nei borghi semideserti che guardano dall’alto le valli alpine, il nemico può sembrarti lontano. E la tua libertà appena scalfita, dal susseguirsi di decreti e ordinanze. Eri isolato, sei isolato.
È la “montagna perduta”, raccontata nell’ultimo dettagliato rapporto demografico sullo spopolamento, nel 2016. La montagna dove nel 1951 viveva il 42 per cento della popolazione italiana e 65 anni dopo il 26. Per scendere ancora negli anni successivi. Piccoli comuni con le loro frazioni che viste da fondovalle, nei territori dalla bellezza più aspra, più verticale, sembrano appese ai boschi che erano pascoli.
Come a Rigolato, Val Degano, nell’alta Carnia, dove lo spopolamento ha marciato a tappe forzate:1272 abitanti nel 1971, 765 nel 1991, 502 nel 2011, 389 oggi. Dove «se fai scendere tutti i residenti in piazza, compresi quelli delle 6 frazioni, puoi stare certo che lo spazio per mantenere un metro di distanza c’è eccome, anche di più», sintetizza Giulia, uscita per andare nell’unico negozio di alimentari del capoluogo, riaperto nel 2018 dopo anni di chiusura e pendolarismo della spesa nei paesi più a valle.
Ve lo ricordate il miracolo economico del Nordest negli anni Ottanta? Ecco, qui, nel nordest del Nordest, non è mai arrivato. I santi si sono fermati alle Prealpi. Troppo impervie le salite della Carnia. Il benessere si è fermato in pianura. Il coronavirus anche, per ora. Tranne qualche isolato caso tra Sappada e la Val Tagliamento.
Vuezzis: 9 residenti. Givigliana: 10. Gracco: 1... Ludaria con le sue “località”: 90. Ma fino a un paio di decenni fa erano 5 volte di più. I borghi che si affacciano dai due versanti della valle sul capoluogo sono una specie di scuola per vivere la nuova condizione del distanziamento e dell’isolamento, che sta mettendo a dura prova milioni di italiani metropolitani.
Se da Givigliana devi andare a fare la spesa ti ci vuole mezz’ora di tornanti lungo una strada con poche barriere. Se poi ti serve qualcosa che non sia di “prima necessità” il tempo quasi raddoppia. Va bene, i bar a fondovalle sono chiusi, le messe sospese, gli sconfinamenti negli altri paesi della valle vietati. Ma nei borghi più alti la vita di chi ci abita non è cambiata molto, in fondo.
Quasi per niente quella di Aldo Agnese, 83 anni, uno dei 10 abitanti di Givigliana. Ha fatto il boscaiolo per mezzo secolo, senza mai lasciare troppo a lungo il suo paese che da 1200 metri di quota si affaccia sui tramonti e sulle prime dolomiti. «Nel ’49 c’era la scuola, eravamo in 50 bambini», racconta. «Poi ho visto i miei compaesani andarsene, poco alla volta, a cercare lavoro, a raggiungere familiari che erano già emigrati». Lui è rimasto, vive da solo. Si fa portare la spesa dai vicini una volta alla settimana. «Non ho il frigorifero ma so come conservare il cibo...».
Scolpisce il legno, cura il suo pezzo di bosco, legge («Ho più di cento libri, sa, mi piace la storia») e ascolta la radio: le notizie dell’epidemia, dell’Italia, laggiù. Chiusa, blindata, impaurita. «È un funerale», dice. «Penso a chi ha la mia età e vive solo come me a Milano, o in qualsiasi città... Ma anche agli altri, a chi faceva quella vita che io non avrei mai fatto, ma che per loro era tutto. E che ora deve stare solo, come me. Ma io ci sono abituato e non cambierei... Qui aspetto che arrivi il cuculo, in aprile, il suo canto mi fa compagnia».
Una decina di metri più in là, verso la chiesa, Ernesta Gortan e Rina Gussetti si godono nel cortile il primo sole primaverile. «Andiamo fino al Guof», dicono, «a fare quattro passi». Il “Guof” (giogo, forcella) si raggiunge lungo sentieri, piste forestali, non c’è il rischio di assembramento. Ines Lepre, 93 anni, le raggiunge scendendo dall’acciottolato.
Commentano le notizie della sera prima: il numero dei contagi, dei morti, il dramma della Lombardia, la gente chiusa in casa. E si sentono privilegiate: «Anche noi stiamo alle regole, sa...», dice Rina, «un metro di distanza, non scendiamo a Rigolato, al massimo due passi qua intorno. Ma ci sentiamo fortunate. È meglio essere isolati qui, non le pare? Io avevo un appartamento a Udine e l’ho venduto per stare sempre quassù».
C’è “movimento” oggi a Givigliana. Oscar Zannier e sua moglie Lucia Della Pietra sono sull’uscio di casa, pronti con una bottiglia e dei bicchieri in mano per gli inattesi “ospiti”. «Ah no, non si può...», frena lei, «La distanza...». La giornata è limpida, la vista mozza il fiato da questo borgo-terrazza. «Certo, così è più facile», dice Lucia dopo aver commentato gli ultimi aggiornamenti sulla “peste”. Dopo aver compatito i reclusi, laggiù. «Non so cosa dire, ma vorrei dire che si può, con un po’ di carattere si può superare. Noi qui siamo in “isolamento” da 30 anni, anche se capisco che non è la stessa cosa starsene in un appartamento...».
A Vuezzis la vita non è molto diversa. Da poco è arrivato il decimo residente, Andrea, nato il 28 febbraio. Una nascita è un evento, per tutta la comunità. Ma la mamma Vanessa non si può andare a trovare, per ora. Alessio, il padre poco più che trentenne, 10 anni di boscaiolo alle spalle, ha festeggiato girando per il paese con il pick-up ornato di fiocchi azzurri, offrendo da bere a chi incontrava, finché i bar sono rimasti aperti.
Per la vita sociale, le abitudini, la possibilità di movimento, il nuovo “stato di eccezione” è più tollerabile anche nelle frazioni più basse e nel capoluogo, rispetto alle città. Sarà forse per questo che le norme restrittive della libertà di movimento sono rispettate scrupolosamente.
Fin dal primo decreto governativo il sindaco Fabio D’Andrea e l’assessore delegato, Idalio Fruch, hanno mobilitato la protezione civile locale attivando - insieme alla onlus Sogit - un capillare sistema di consegna a domicilio di generi alimentari, farmaci e beni di prima necessità. E per Andrea Fruch, volontario della protezione civile, è un saliscendi con il pick-up carico di borse.
Non che ci fosse il rischio di lunghe code per andare a prendere il pane... Ma molti residenti, soprattutto anziani, hanno gradito. Alla distribuzione provvede direttamente anche Arianna Alfarè, che gestisce il negozio di alimentari dispensando gel igienizzante per le mani a ogni cliente e pulendo il banco della cassa a ogni passaggio. Perché il virus può arrampicarsi anche fino nelle aree «densamente spopolate», come ha detto un sindaco carnico a una tv locale.
Non è riuscito a togliere il sorriso nemmeno ad Alessia il regime della distanza. Alessia ha 12 anni e abita nell’altro versante della valle, in “località Pontario”, lungo una strada che finisce nel nulla, nelle piste forestali e in un rifugio che Federico e Debora, i due giovani gestori, non sanno se potranno riaprire con l’arrivo dell’estate.
La “località” - raggiungibile dopo un’ultima rampa talmente ripida che si può percorrere solo a piedi - è composta da due case: una è vuota, nell’altra abita Alessia con i genitori, Maurizio e Cristina. A 12 anni non è facile essere privati dell’incontro con i compagni di classe, quando non hai molte altre occasioni di stare con i tuoi coetanei. E ora anche dell’incontro con l’unica amica della stessa età che abita a Ludaria, un chilometro più sotto. Ma Alessia non si scoraggia.
Del resto per il suo compleanno si è fatta regalare un piccolo telescopio, non l’ultimo modello di smartphone. «Sì, mi pesa un po’ non andare a scuola, non poter nemmeno andare a trovare la mia amica, ma finirà, no?». Finirà. E nel frattempo Alessia salta sul tappeto elastico che suo padre le ha piazzato vicino alla legnaia, gioca con i suoi cani, li tiene a bada quando la sera abbaiano alle volpi e ai cervi. E quasi ogni giorno, quando ha terminato le lezioni online, scende a trovare i nonni vicini di casa, in “località Ricciòl”, borgo di stavoli in parte ristrutturati con due residenti: Alma e Siro. I nonni, appunto. Lei 81 anni, lui 89.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, quando qualche stavolo era ancora uno stavolo (stalla sotto, fienile di sopra), prima di trasformarsi tutti in ruderi o chalet, loro ne abitavano uno in alto, isolato nel bosco, da marzo a settembre. «Ma non avevamo più le mucche», spiega Siro, «solo galline, anatre e tacchini...». Più di sei mesi all’anno nel bosco, senza l’elettricità. «Ma acqua buona e in abbondanza», interviene Alma, che nella valle è un’autorità in fatto di erbe con cui prepara pietanze, tisane, medicamenti. «Scendevamo in paese a piedi una volta alla settimana per fare la spesa... una parte la pagavo con le uova», racconta la nonna di Alessia, «ma non ci siamo mai sentiti soli sa: la domenica arrivavano i nostri figli, si mangiava tutti assieme...».
Oggi, dopo quelle “quarantene” nel bosco, la vita a Ricciòl, è quasi “urbana”. «Quello che mancherà tra un po’ sarà solo il passaggio degli escursionisti che transitano da qui per salire al rifugio e oltre», dice Alma, «ma questa è da molto tempo la nostra vita, anche quando i gitanti non c’erano. Ci vuole solo un po’ di serenità, e una famiglia unita», dice gettando uno sguardo verso la nipote.
Mentre Siro trova sempre qualcosa da fare con i suoi attrezzi conservati con cura da decenni e il suo trattorino, Alma continua a scendere a fare la spesa a piedi fino al paese, nonostante una pendenza media del 20 per cento. I contatti, tranne che con i familiari più stretti, si limitano a questo. «Se abbiamo paura del virus? Mah, poca», dice Siro. «Ma va... Quando ha sentito dalla tv che colpisce molto più gli uomini delle donne, si è scolato un bicchiere di rosso tutto d’un fiato», interviene la moglie dalla finestra. E scoppia in una risata che suona come un augurio. «Che il mondo guarisca, che Alessia torni a scuola...».