«In Italia il razzismo si nasconde nelle nostre leggi. Essere nero equivale a immigrato. Afroitaliano è ancora utopia». «Non ci sono neri italiani». Questa frase mi è stata detta diversi anni fa a New York, dove mi trovavo poco più che ventenne per un breve soggiorno studio. Fu proprio lì, nel Paese che più di ogni altro mi appariva come il luogo in cui una giovane ragazza nera occidentale si potesse mimetizzare, che mi accorsi di quanto invece erano invisibili nella narrazione italiana i nostri corpi e volti. Attraverso quel commento realizzai che effettivamente «non esistevano italiani neri». Certo i neri c’erano e io stessa ne ero la dimostrazione concreta, ma per la coscienza collettiva nel mio Paese nero equivaleva a immigrato ed è ancora così. Pochi di noi, figli di quel primo consistente flusso migratorio verso l’Italia degli anni 80 e 90, hanno avuto il tempo, almeno da ragazzi, di maturare la consapevolezza di essere italiani neri. Con la cittadinanza presa tardi anche se nati qui e i precari permessi di soggiorno per studio e per lavoro anche per chi in Italia è cresciuto, siamo rimasti a lungo stranieri. Italiani? Magari domani!
Ero attivista per i diritti di cittadinanza quando nel settembre 2008 veniva ucciso Abdul William Guibre, giovane italiano di 19 anni originario del Burkina Faso. Molti ragazzi e ragazze con cui condividevo la militanza si radunarono a Milano per ricordare “Abba”, ammazzato a sprangate da due uomini perché accusato di aver rubato dei biscotti. Nessuno di noi lo conosceva, ma se un ragazzo italiano poteva essere ucciso perché nero e per un pugno di dolci, il nostro Paese aveva un problema serio e noi volevamo renderlo visibile. In quel momento stavamo chiedendo diritti per noi ad un’Italia di cui ci sentivamo figli, ma ci venivano negati. Volevamo che il nostro Paese la smettesse di continuare a ignorarci, Abba era uno di noi e in molti ci mobilitammo per ricordarlo. In quel periodo mi avvicinai di più alle questioni afroamericane, le letture cominciavano a essere meno bianche e voci che venivano da contesti differenti creavano improvvisi ponti. Tra i libri e i discorsi di Angela Davis che divenivano familiari, io come altri, chiedevamo, bussando a tutte le porte della società: Straniero a chi?
In quell’uccisione vedevamo il simbolo di un ennesimo fallimento, di un razzismo manifesto che andava di pari passo con quello che più sottilmente e costantemente ci accompagnava. Quello che noi ma anche studiosi e intellettuali chiamavamo razzismo istituzionalizzato: tanto strutturale da penetrare nelle nostre leggi. Che impedisce a oltre un milione di giovani nati e cresciuti qui di essere riconosciuti italiani prima di una lunga attesa perché non sono di sangue italiano, quello che ha assimilato il binomio immigrato=sicurezza e che rende difficile qualsiasi altra narrazione.
»Quello dove anche restare espone sempre più alla precarietà e alla povertà condannando all’invisibilità. Quello in cui la regolarizzazione viene raccontata non come una giusta condizione di dignità umana, ma come braccia che servono all’agricoltura. Quello che mi spinge qui e ora a ricordarlo, perché siamo noi a viverlo e a sentirlo mentre voi ne leggete e ne parlate. Sono passati più di dieci anni dall’assassinio di Abba e da allora nel nostro Paese si sono susseguiti altri gravi episodi di razzismo. La morte di George Floyd e le manifestazioni che hanno incendiato le strade americane, hanno mobilitato le piazze di diversi Paesi nel mondo, tra cui anche le nostre. In Italia la protesta si è fatta sentire da Milano a Torino, fino Roma e in molti, direttamente coinvolti sul tema del razzismo, hanno voluto accendere i riflettori anche verso i razzismi di casa propria. In ginocchio per George Floyd, in migliaia, distanziati e con le mascherine, si sono inginocchiati giovani, sardine, associazioni antirazziste e famiglie che hanno denunciato tutti i razzismi.
A Milano si è ricordato anche Abba. Un po’ ovunque tra gli slogan “Il razzismo non fa respirare” e #BlackLivesMatter sono stati rilanciati messaggi per la riforma della legge sulla cittadinanza come quelli degli attivisti Italiani senza cittadinanza, altri hanno portato cartelli contro la legge Bossi Fini e hanno detto basta ai morti nel Mediterraneo e in Libia. Altri ancora hanno pronunciato i medesimi appelli e si sono organizzati per far vedere che i neri italiani esistono. Tutti per George e anche per lanciare un messaggio sottile all’Italia, che mi auguro prima o poi le arrivi: «Le nostre vite i nostri corpi contano e come gli altri ti appartengono. Mentre guardi quel che accade oltreoceano fermati un momento e guardaci. Ascoltaci e poi smettila di sbiancarti».
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