La compressione toracica usata a Minneapolis non è un caso isolato, e anche in Italia le cronache hanno registrato esempi simili. A dimostrazione di una grave impreparazione delle forze di polizia

Fermo di un manifestante al G8 di Genova del 2001
Il video della morte di George Floyd, quarantaseienne afroamericano, è stato visto da milioni di persone. E, tuttavia, osserviamolo ancora, a ritmo rallentato e sequenza per sequenza.

Il ginocchio del poliziotto bianco quarantaquattrenne, Derek Chauvin, preme sul collo di Floyd, disteso per terra, mentre altri due poliziotti gravano con i loro corpi su gambe e torace dell’uomo. Il suo volto è schiacciato sull’asfalto, le braccia dietro la schiena, i polsi ammanettati. Grida, ma la pressione sul suo collo non si allenta, nonostante l’invocazione: «Non posso respirare, lasciatemi per favore». Un passante scandisce il tempo: «Sono trascorsi tre, quattro minuti, non respira». L’agonia dell’afroamericano durerà 8 minuti e 46 secondi, poi chiuderà gli occhi e perderà conoscenza. Morirà in un ospedale lì vicino.

La scena appena descritta ha qualcosa di atrocemente familiare: appartiene al repertorio, diciamo così, classico dell’uso della forza da parte di agenti di polizia al fine di bloccare un individuo ritenuto pericoloso.

La tecnica prevede che il fermato venga costretto a terra, in posizione prona, le braccia piegate dietro la schiena e i polsi bloccati, e che l’agente prema sulle spalle, sulle scapole e sulla regione lombosacrale per impedire qualsiasi movimento.

Si tratta, palesemente, di una modalità d’azione che presenta gravi rischi: e, da tempo, film, video e fotografie hanno ripreso quel modello di controllo in scenari molto diversi, con effetti spesso letali, per mano di uomini di apparati statuali appartenenti sia a regimi dispotici che a sistemi democratici.

La morte di George Floyd e le molte avvenute in circostanze simili, risentono profondamente della peculiarità della situazione statunitense, dove la componente razziale negli abusi da parte delle forze di polizia appare determinante. Questo rende improponibile il confronto tra i comportamenti illegali messi in atto dagli agenti di polizia Usa e quelli messi in atto nel nostro Paese: troppo diverse sono le condizioni sociali, etniche, giuridiche e culturali.

Ma, se invece ci poniamo dalla parte delle vittime e, in questo caso, proviamo a condividere lo sguardo di chi si trova disteso prono sul selciato, sopraffatto dal peso di un altro corpo, si scopre una tragica affinità. Un numero rilevante di vittime di azioni violente rivela, tra le cause o con-cause di morte, l’asfissia, dovuta alla compressione del torace e a una postura che ne compromette la capacità respiratoria. Talmente elevato è questo rischio che una simile tecnica, e in particolare “il ginocchio sul collo” è ormai vietata da numerosi corpi di polizia statunitensi.

In Italia, nel 2014, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, inviava una circolare a tutte le caserme per segnalare i pericoli di quella pratica; e raccomandava di «prevenire la possibilità che l’intervento su strada per fronteggiare soggetti in preda a crisi provocate, tra l’altro, dall’alcool o dagli stupefacenti potessero arrecare danni a sé o agli altri». Oggetto delle preoccupazioni dei vertici dell’Arma era proprio la condizione in cui si realizzava quel tipo di fermo “su strada” e il fatto che quel metodo potesse condurre all’asfissia e alla morte.

Nella circolare si leggeva: «Nei casi in cui sia assolutamente impossibile un intervento sanitario sul posto, il trasporto in ospedale dovrà avvenire in posizione seduta o sdraiata su un fianco, evitando in ogni caso posture che comportino qualsiasi forma di compressione toracica».

È propriamente la “compressione toracica”, derivante da quella tecnica di controllo, che sta all’origine, presumibilmente, di molte morti avvenute negli ultimi anni nel corso di attività di fermo e arresto.

A Minneapolis l’azione del poliziotto è stata incredibilmente brutale. Tuttavia, fatte tutte le doverose differenze, va detto che si ritrova qualcosa del genere in alcune vicende anche italiane, spesso seguite dall’avvocato Fabio Anselmo, ed emerge, in particolare, quell’elemento essenziale del soffocamento indotto dallo schiacciamento dell’apparato respiratorio.

Nel 2006 Riccardo Rasman, affetto da patologia psichiatrica, si comporta in maniera tale da determinare l’intervento della polizia nella sua abitazione. Qui si ha una colluttazione fra tre agenti e lo stesso Rasman, che viene immobilizzato a terra, ammanettato e legato alle caviglie con del filo di ferro. Il processo confermerà che «sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia» era stata esercitata «un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie». I tre agenti verranno condannati in via definitiva per omicidio colposo.

Meno di un anno prima, a Ferrara, perde la vita Federico Aldrovandi. Quattro poliziotti vengono condannati per eccesso colposo in omicidio colposo e nella sentenza di primo grado si può leggere: «Un trauma a torace chiuso provocato da manovre pressorie esercitate sul soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena». Questo è il punto: «Un soggetto costretto a terra prono e ammanettato dietro la schiena». Su quel corpo, per ottenerne l’immobilità, gli autori del fermo graveranno provocando una forte pressione, oltre che 54 ecchimosi e lesioni. Nel caso di Riccardo Magherini, morto a Firenze il 3 marzo 2014, la «compressione toracica» viene esclusa dalle sentenze che assolveranno i tre carabinieri responsabili del suo fermo. Ma, secondo le molte testimonianze rese durante il dibattimento, Magherini sarebbe rimasto ammanettato con le mani dietro la schiena, steso per terra e prono, con i tre carabinieri a gravare con le ginocchia sul suo corpo impedendogli di muoversi e respirare per alcuni minuti.

L’associazione A Buon Diritto, diretta da Valentina Calderone, nel corso degli anni ha raccolto testimonianze relative a molti altri episodi che hanno evidenziato il rischio micidiale di quella tecnica di fermo. Persone anonime sulla cui morte nessuno ha voluto o potuto indagare e qualche vicenda che ha interessato l’opinione pubblica, come il decesso di Bohli Kaies, la cui autopsia rivelò «stress cerebrale dovuto a una compressione violenta della cassa toracica» (gli autori del fermo sono stati assolti); e quello di Arafet Arfaoui, per la cui morte, nel febbraio scorso, è stata disposta la prosecuzione delle indagini. E la «compressione toracica» risulta dagli atti dell’indagine relativa alla morte di Vincenzo Sapia, avvenuta il 24 maggio del 2014.

Storie tutte diverse e con esito processuale diverso, ma che rivelano come un’azione destinata a garantire la sicurezza dei cittadini (compresi quanti commettano reato), possa tradursi in una minaccia per l’incolumità di chi viene sottoposto a una misura di controllo.

Può sembrare singolare voler accostare i comportamenti di corpi di polizia tanto differenti, quali quelli degli Stati Uniti e quelli italiani, e, ancor più, prescindere dai contesti etnico-sociali. Ma qui preme evidenziare altro, ovvero il fatto che c’è un connotato comune a tutte le forze di polizia, persino a prescindere dalla natura (democratica o meno) dei sistemi politici in cui operano. Quel tratto comune è rappresentato da una sorta di cronica impreparazione tecnica.

Ma limitiamoci ai Paesi democratici. In questi, può essere anche elevata l’efficienza delle polizie e sofisticato l’arsenale di mezzi, ma resta costante l’incapacità di esercitare, nel corso della quotidiana attività di ordine pubblico, un controllo e un autocontrollo tali da impedire la degenerazione dell’uso legittimo della forza in violenza illegale. L’impreparazione tecnica delle forze di polizia in Italia e nei Paesi occidentali è altrettanto pericolosa quanto la debolezza della loro formazione democratica. In quella miscela di tendenza all’abuso, spirito di corpo e sprezzo per le garanzie dei cittadini, si ritrova una delle contraddizioni irrisolte, e una delle zone in ombra, delle democrazie contemporanee.