«Noi, che vivevamo sotto il ponte Morandi. Con l’anima che resterà sfollata per sempre»
Hanno tutti di nuovo una casa e il viadotto è stato ricostruito. Ma non riescono a festeggiare perché si portano dentro la tragedia. E le conseguenze psicologiche e fisiche di quell'evento sono ancora forti (Foto di Matteo Placucci)
È tornato «pieno», dicono i genovesi, il cielo sulla Valpolcevera. Questo angolo sfortunato di Genova industriale, periferia popolosa viaggiata in tutto il mondo nelle immagini del crollo di ponte Morandi, due estati fa, da un anno e qualche mese è una cosa sola con il cantiere del nuovo viadotto autostradale sulla vallata. Per cinquant’anni l’orizzonte di queste strade è stato disegnato dalle linee coraggiose del “viadotto Polcevera”, il ponte diventato simbolo nelle macerie inzuppate di pioggia del 14 agosto 2018, ucciso dalla tragedia dell’assurdo insieme alle 43 vittime del disastro. Oggi, al suo posto, sta per entrare in funzione l’infrastruttura costruita sulle sue ceneri, un gigante di 45 metri d’altezza che - salvo improbabili slittamenti - terminerà la sua rincorsa il primo agosto, il giorno fissato per l’inaugurazione.
Un ritorno alla normalità per un’intera città, che da troppo tempo aspetta di veder ricongiungere il suo ponente con il suo levante, il centro alla periferia, l’autostrada per il nord con quella per il mare, ma che difficilmente passerà per quel «giorno di liberazione» promesso dal sindaco e commissario per la ricostruzione Marco Bucci. Perché se davvero sarà intitolato a San Giorgio, santo porta bandiera di tutti i genovesi, il nuovo ponte al momento di tutti i genovesi non è. A partire da chi, ancora oggi, porta dentro i segni del dramma. Ispirato dai disegni dell’archistar di casa, Renzo Piano, e costruito a tempo di record (un anno e tre mesi appena) da un consorzio misto pubblico e privato scelto con cura dalla politica, poche altre grandi opere in questi anni sono diventate ragion di Stato come il varo di questo ponte.
Sia nel Paese, dove le due diverse maggioranze dei due governi Conte si sono alternate nell’eleggerlo a modello. Sia (soprattutto) in città, dove l’apertura dei 1.067 metri del nuovo impalcato è attesa come una boccata d’ossigeno per un territorio che nel traffico perde ogni giorno soldi, turisti, ore di vita. Una Genova dove sulla gestione del post crollo si sono visti costruire consenso (chiedere per credere allo stesso Bucci, indice di gradimento al 56 per cento, sindaco più amato d’Italia «anche grazie alla ricostruzione», si legge nella ricerca di Lab21 e Università di RomaTre), carriere, campagne elettorali. Ma dove la narrazione di un capoluogo diviso, da ricollegare al suo interno, in parte divide davvero.
Mentre in questi mesi i lavori di ricostruzione correvano («siamo nel cantiere che non dorme mai», si recita dal consorzio dei costruttori), troppo lo slancio persino per farsi rallentare dall’emergenza Covid, a dividere è stato per primo il dibattito sull’inaugurazione dell’opera. Sfumato nelle polemiche il progetto di trasformarla in una serata-evento in diretta Rai, se nei piani del Comune c’è comunque l’intenzione di celebrare il traguardo raggiunto, infatti, in città in tanti non smettono di chiedere «nessuna festa sul luogo di una tragedia».
Soprattutto chi nel disastro sul quale è rinato il viadotto ha perso tutto, o quasi. I familiari delle vittime del crollo, che già hanno annunciato non saranno alla cerimonia («siamo stufi di passerelle: ci aspettavamo un livello morale un po’ più elevato, nella comunicazione di un’opera conseguenza di una tragedia», sospira la portavoce, Egle Possetti). E con loro il comitato dei 620 sfollati dell’ex zona rossa costituita intorno al ponte crollato, residenti dei nove palazzi demoliti per far spazio alla ricostruzione. Che chiedono «sobrietà, serietà, delicatezza». Sul tema dell’inaugurazione, ma non solo.
Additati per paradosso come gli unici ad aver persino guadagnato qualcosa dal disastro, a causa dei generosi indennizzi ottenuti per lo sgombero forzato e la perdita di proprietà sulla carta di poco valore (circa 81 mila euro, più 1.500 a metro quadro per appartamenti che ne valevano forse la metà), due anni dopo «siamo e sempre saremo sfollati dentro», si racconta Giusy Moretti, 65 anni, ex residente di via Porro 16, nata e cresciuta nella strada che non c’è più. Il vuoto rimasto al posto del suo palazzo abbattuto è rappresentazione plastica di «una condizione di vita», dice. «Fino a due estati fa questa via era casa di una grande comunità, un quartiere nel quartiere costruito nel Dopoguerra per ospitare i lavoratori delle ferrovie, abitato fino all’ultimo dai loro figli e nipoti», si emoziona. Oggi, diventato un unico, desolato piazzale, «è uno stato d’animo con cui dobbiamo convivere, considerati privilegiati e allo stesso tempo dimenticati, forse con più soldi in tasca ma privati di quasi tutto il resto».
Come Giusy, che ancora dorme «due ore a notte, raramente di più, non sono ancora riuscita, psicologicamente, a chiudere la porta della vecchia casa», riflette. Tra figli dello stesso trauma c’è chi soffre di insonnia cronica, chi si è ammalato di depressione, chi ha i figli che per mesi non sono riusciti ad andare a scuola. «Io per prima da allora mi sono svegliata ogni giorno alle cinque del mattino, siamo tutti perennemente tenuti in allerta dal sistema nervoso», continua Monica Marinelli, 37 anni, sfollata e psicologa, che il ponte l’ha visto cadere dalla sua finestra. Tutti vittime di disturbi post traumatici da stress, causati da un trauma che si è ravvivato nel tempo, tra i rientri contingentati nelle vecchie case, i traslochi forzati nelle nuove, le lotte per gli indennizzi. Una condanna che colpisce senza riguardi, gli anziani («tra i quali hanno preso campo malattie più o meno gravi della vecchiaia») come i bambini («anche tra quelli di 8, 9, 10 anni persistono casi di depressione, frequenti pianti notturni, forme di nostalgia che pesano sul rendimento scolastico»).
Due anni dopo molte famiglie sono ancora seguite da terapie di gruppo, ma non si può dire che tutto sia passato, come prova a spiegarsi Luca Fava, 48 anni, ex abitante di uno dei palazzi cui si “appoggiavano” le pile del Morandi: «I segni della violenza che abbiamo subito ci sono entrati dentro, fermentano, per un po’ si possono tenere a bada, ma poi spuntano fuori all’improvviso a fare male, magari mentre sei sul posto di lavoro, seduto al ristorante, andando a scuola».
Oggi Luca Fava vive in centro città con la famiglia e «solo da poco sono tornato ad alzare la testa quando passo sotto il ponte, una conquista costata tanto, un tabù ancora per molti», continua. «Ma in compenso sono diventato ipocondriaco, ho paura di tutto, siamo tutti così fragili. È un disagio che mischia rabbia e depressione, frutto di una privazione della libertà ma anche di altre forme di violenza che abbiamo dovuto subire nel nome della ricostruzione a tutti i costi. E non so se da tutto questo davvero guariremo mai».
È tra gli sfollati, poi, che si è pianto sulla «44esima vittima della strage». È così che Giancarla Lazzari, 61 anni, definisce il marito Franco, ucciso alcuni mesi dopo il crollo da una forma degenerativa di morbo di Alzheimer. Certo, nessuno può dire che la malattia gli sia venuta per il crollo del ponte, ma «lo shock per l’abbandono del proprio mondo, la propria casa, le proprie abitudini», spiega lo psicoterapeuta di famiglia, «ha innescato a una velocità incontrollabile».
Residente di via Porro 10, il primo palazzo a cadere sotto i colpi delle demolizioni, Lazzari dalla sua cucina ha visto crollare il Morandi «in un’esplosione di cemento, camion, auto, vite umane», ricorda la moglie senza riuscire a trattenere il pianto. Ora come tanti altri anche lei deve tenere a bada le crisi di panico che le scatenano «temporali o rumori improvvisi». Sta tentando un graduale distacco da terapie, analisi e visite neurologiche, ma, ammette, «solo adesso sto provando davvero a rialzare la testa». Senza più ricordi e senza più suo marito, ma «sentendo il dovere di provare a dare un significato a quanto ci è successo». Un nuovo orizzonte a cui guardare dal suo nuovo appartamento, ancora in Valpolcevera, ancora con un ponte da scorgere alla finestra.
Nonostante gli aiuti economici, le case a disposizione in altre zone della città e la possibilità di lasciare una delle zone più inquinate della regione, la vedova di via Porro è rimasta a vivere intorno al sito del ponte. Così come ha fatto la gran parte degli sfollati: oltre 200 famiglie su 256. Moltissimi nel quartiere di Certosa, nel raggio di tre chilometri, poco di più, altri tra Sampierdarena, verso il mare, altri ancora più a monte verso l’entroterra, ma sempre con il nuovo viadotto a portata di sguardo.
Anche il nuovo ponte, come il vecchio, si fa spiare dalle finestre. C’è chi se lo spiega con «una forma tutta nostra di sindrome di Stoccolma», parlando di «radici», come dice Ennio Guerci, 70 anni, o di «un modo per dare una seconda chance ai ricordi di una vita». Ci ragiona dal suo nuovo appartamento, lui uno dei pochi a lasciare le strade di una vita per trasferirsi vicino al figlio («la distanza è fisica, non di cuore, il cordone ombelicale è lungo e forte»), e lo fa con voce consapevole, finalmente serena. «Tra di noi c’è chi si è salvato rimanendo nel quartiere dove siamo cresciuti, e chi pensando agli altri, alle persone che lo abitano».
È anche per questo, del resto, che gli stessi sfollati dell’ex zona rossa hanno voluto trasformare un comitato da battaglia, nato per chiedere e ottenere indennizzi e diritti, in un’associazione di volontariato, attiva nel sociale dei quartieri colpiti dal crollo del ponte. Si chiama “Quelli del Morandi”, si occupa di assistenza e iniziative solidali per la vallata. «Siamo fortunati perché siamo sopravvissuti, ma saremo per sempre testimoni», spiega Giusy Moretti. «Anche se ancora nessuno ha avuto giustizia, tantomeno chi ha perso i propri cari, a noi è stata data un’altra possibilità e dobbiamo onorarla».
Lo dice dal suo nuovo balcone vista ponte e viene interrotta dal suono di una sirena: è l’autoambulanza donata al quartiere dalla loro stessa associazione, con i soldi ricevuti dalle donazioni dell’ultimo anno, che le corre sotto casa. «Nelle settimane del lockdown e dell’emergenza Covid era l’unica auto che vedevamo passare sotto al nuovo viadotto in costruzione, era insieme terribile e bellissimo, ma immaginarla in giro per la città a fare la sua parte ci sta aiutando a riconquistarci una serenità. Giorno dopo giorno, qui vediamo ricostruire una vecchia comunità, e non solo un nuovo ponte».