Ad Acerra, una donna uccisa dal fratello con motivazioni omofobe. In nome di una divisione maschio-femmina ormai superata. Come mostrano cinema e tv, moda e letteratura. E i più giovani. Con la fluidità delle loro relazioni

Qualche mese fa ho fatto domanda per una residenza per scrittori a Berlino. Nella parte anagrafica, alla voce genere mi chiedevano di scegliere tra “maschio”, “femmina” e “altro”. Non me l’aspettavo e non è stata una brutta sorpresa. Se lo stesso quesito mi fosse stato posto in un bando in italiano, il senso di sorpresa sarebbe stato maggiore, non tanto (o non solo) perché l’Italia è più arretrata rispetto a politiche di genere, ma perché – mi sono resa conto in quel momento – la distanza linguistica che avevo con il tedesco mi rendeva più facile confrontarmi con quella distinzione. Questa estate, proprio a Berlino, parlando con un’amica, ci dicevamo di avere meno difficoltà a inserire l’asterisco nelle parole tedesche rispetto al farlo in italiano (anche in questo articolo avrei dovuto scrivere: una residenza per scrittor*). Potrebbe sembrare un’ipocrisia da parte mia, e forse lo è, ma credo che la ragione sia anche un’altra.

Appartengo a una generazione che soltanto di recente ha cominciato a interrogarsi rispetto al linguaggio sulle politiche di genere. L’utilizzo dell’italiano negli anni della mia formazione mi rende più straniante il confronto con il cambiamento nella lingua madre. Paradossalmente il grado di consapevolezza agisce come una sorta di barriera, una forma di impaccio che sfuma in una lingua straniera. Ma come fare a riguadagnare quella disinvoltura? Disimparare per riapprendere?

Oltre le distinzioni
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18/9/2020
Joey Soloway – che nel 2014 ha creato la serie “Transparent”, prendendo spunto dalla transizione dei suoi genitori – nella sua biografia, “She Wants it” (anzi, nella loro biografia, visto che ha scelto di riconoscersi nel pronome “they”) si augura che questo momentaneo disagio «ci porti verso un futuro non-binario». In un’intervista ironizza sulla paranoia di commettere errori, anzi la considera quasi vitale, come se ogni inciampo potesse trasformarsi invece in «una forma di scoperta, di mistero e di divertimento, ossia quello che accade nell’imparare una nuova lingua e insieme un nuovo modo di essere».

Paul B. Preciado, in “Un appartamento su Urano”, in uscita ora in Italia (Fandango) racconta come l’inspessimento delle corde vocali dopo l’assunzione di testosterone sembri quasi ricreare dentro di sé questa lingua sconosciuta: «La voce che cambia è sentita da chi viaggia attraverso il suo genere come una possessione, un atto di ventriloquio che lo forza a identificare se stesso con ciò che non si conosce». E aggiunge: «Questa mutazione è una delle cose più belle che abbia mai vissuto».

Mi fa sorridere quando una delle accuse rivolte alla correttezza politica è quella di mortificare o imbrigliare la lingua e non capisco bene il coro di estenuazione: «Eh, ma allora non si può più dire niente!». La verità mi sembra andare in direzione opposta: si possono dire molte più cose. Si possono fare molte più scelte. Si possono trovare più soluzioni. Perché dovrebbe essere castrante o normativa la creazione di espressioni che non esistevano? Se il sistema binario contempla solo due opzioni, in un sistema non-binario le opzioni sono in costante divenire, per cui la lingua, più che essere mortificata, può allegramente continuare a reinventarsi. Così come può reinventarsi e cambiare la percezione della propria identità.

Soloway racconta a proposito di sua sorella: «Si è sempre vista come una lesbica, una virago. Ma ora guardandosi indietro, si chiede: magari ero semplicemente un ragazzino». Forse le nuove generazioni non avranno bisogno di aspettare il futuro per voltarsi indietro.

Se c’è un’altra cosa che infastidisce i libertari della scorrettezza politica è dover reinterpretare il passato in una nuova chiave. La prendono come una mistificazione e non il disvelamento di qualcosa che non si era visto prima. A volte sembrano attanagliati dallo stesso genere di angoscia che ci assale quando sogniamo di dover ripetere gli esami di maturità, pure se il nostro voto onirico dovesse rivelarsi migliore.

Probabilmente, nel momento in cui certe convinzioni cominciano a vacillare, siamo spinti a reagire con un misto di scherno e aggressività. Se però apparteniamo a una generazione per cui quelle convinzioni sono già vacillanti, il meccanismo irridente rischia di girare a vuoto. Come dire, è difficile che oggi risulti spassosa o sagace una vignetta di “La settimana enigmistica” in cui una donna aspetta il marito ubriaco con un mattarello in mano. La cosiddetta Generazione Z troverà malconcia anche l’ironia dei millennial.

Come fa notare Andrea Long Chu nel suo saggio “Femmine”: «Le donne trans considerano “Matrix” un’allegoria per la transizione di genere almeno dal 2012, quando la regista Lana Wachowski si dichiarò pubblicamente come donna trans in una conferenza stampa per il film Cloud Atlas». In seguito le sorelle Wachowski, ex fratelli Wachowski, hanno potuto finalmente fare il loro coming out e dire che, sì, in effetti “Matrix” sottendeva quell’allegoria. Con una certa enfasi controintuitiva, il film era stato anche adottato dalla cosiddetta “manosphere”, la maschiosfera, «quell’angolo di Internet dal nome orribile» – come scrive sempre Andrea Long Chu – «dove artisti del rimorchio, attivisti dei diritti degli uomini, incel, MGOTW e altre comunità alt-right vanno a lamentarsi, a scambiarsi dritte e a trasmettere il loro odio verso le donne senza timore di rappresaglia». Prendere la pillola rossa - per i paladini della “manosphere” - equivaleva a “svegliarsi” e aprire gli occhi sulla dittatura del femminismo, tanto che uno dei forum più attivi era chiamato proprio “The Red Pill” (non deve essere stato un bel momento quando gli accoliti hanno visto la conferenza stampa di “Cloud Atlas”).

Ma tra gli incel e le transfemministe esiste un’ampia gamma di critici cinematografici che negli anni hanno azzardato un’interpretazione del film e che forse dovranno ricalibrare le loro idee, esattamente come dovrò fare io. Sono due le questioni che mi interessano: 1) che me ne farò di tutte le mie speculazioni metafisiche nel momento in cui riguarderò “Matrix”? 2) chi lo vedrà oggi per la prima volta potrà prescindere dall’allegoria della transizione? Se un domani (speriamo a breve) anche nei questionari italiani per una residenza artistica ci verrà chiesto di scegliere se barrare la casella maschio, femmina o altro, ci sarà un tipo di spaesamento diverso a seconda della nostra data di nascita? Chi ha vent’anni reagirà con una disinvoltura diversa rispetto a chi ne ha quaranta o sessanta? Okay, devo ammettere che se dovessi ideare la mia utopia personale, infilerei anche l’anno di nascita tra i criteri di autodeterminazione, aggiungendo al “self-identified gender” la “self-identified age”, per cui decidere se sentirmi una donna di quarantadue anni o un ragazzo diciassettenne.

A pensarci bene la mia prima epifania di fluidità risale agli anni del liceo, quando aspettavo trepidante l’uscita di “Cybersix”, un fumetto argentino ideato da Carlos Meglia e Carlos Trillo. Cybersix è un personaggio con la doppia identità di procace eroina in tuta nera di latex e di professore di filosofia in camicia bianca e occhialetti. A complicare ulteriormente la faccenda c’è la presenza di Lucas, giornalista investigativo innamorato di Cybersix nella sua versione femminile e migliore amico di Adrian nella sua versione maschile. Oggi la nuova campagna pubblicitaria di American Vintage sceglie come slogan: “Maschile, femminile, plurale”, suggerendoci che possiamo scambiarci i vestiti.

Proviamo a prendere però i vestiti come sineddoche di noi stessi: potremmo arrivare a scambiarci anche il resto? Ho ripensato a “Cybersix” durante i mesi del lockdown quando si è cominciato a ironizzare sul termine “congiunti”. Era chiaro che la lingua non riuscisse a contemplare la fluidità delle relazioni contemporanee vincolandosi a un legame parentale, ma forse la battaglia da fare non era soltanto rivendicare l’importanza affettiva della persona che si sceglie deliberatamente rispetto a un cugino di quarto grado, quanto interrogarsi sulla fluidità stessa all’interno della relazione o delle relazioni scelte. Perché non accettare di sentirci in maniera alterna compagne, amanti o amiche rispetto all’altro?

La convivenza, come suggerisce Donna Haraway in “Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto”, può trasformarsi in un “con-divenire”, in cui comporsi e decomporsi insieme, trovare un’identità nuova e mutevole attraverso la relazione. Haraway spinge il pensiero teorico verso una visione fantascientifica immaginando un futuro popolato da bambini del compost, creature con più genitori che possono modificare il proprio corpo e unirsi ad altre specie. Con una tensione più indirizzata a salvare la propria carriera che il pianeta Terra, il mondo della serie televisiva “BoJack Horseman” mette in scena un immaginario di ibridazione interspecie per certi versi affine a quello di Haraway dove l’umano perde la sua centralità. In “BoJack” la fluidità si rispecchia anche nei rapporti ed è proprio la loro costante evoluzione a riconfigurare la possibilità del “con-divenire” di cui parla Haraway.

Sempre in “Un appartamento su Urano”, Paul B. Preciado scrive: «Sono venuto a parlare ai figli maledetti e innocenti che nasceranno. Noi uranisti siamo i sopravvissuti al tentativo di uccidere in noi, quando non eravamo ancora adulti e non potevamo difenderci, la radicale molteplicità della vita e il desiderio di cambiare i nomi a tutte le cose».

Haraway è nata nel 1944, Preciado nel 1970. È interessante notare che entrambi si rivolgono al mondo a venire. Forse un giorno nasceranno i bambini del compost o i bambini maledetti delle loro proiezioni, eppure mi chiedo come fare a parlare anche con i bambini del passato. Con gli adulti che siamo oggi o con quelli che siamo stati perché non sia soltanto Facebook a chiederci in quale delle 58 opzioni di genere ci riconosciamo e tramutare la nostra scelta in un’informazione di mercato.