Il mare più caldo, i venti furiosi, il territorio fragile. La penisola è diventata il cuore degli sconvolgimenti ambientali nel Mediterraneo

La valle di Campomulo di Gallo (Asiago) devastata dalla tempesta due anni fa

Il paesaggio è livellato, i fianchi della montagna innaturalmente spogli. Dove c’erano alberi, ci sono solo fusti schiantati. Dove spiccava il verde, c’è il marrone rossiccio della terra che si confonde con i cippi anneriti. I boschi sembrano reduci da un bombardamento a tappeto: migliaia di tronchi giacciono al suolo, accatastati senza ordine come stecchi di un gigantesco gioco di Shanghai. Le radici fuoriuscite dal terreno, rivolte al cielo, somigliano a braccia ferite che chiedono pietà.

A polverizzare questi boschi non sono stati gli esseri umani, ma la forza della natura. È successo tutto in una notte, quella tra il 29 e il 30 ottobre del 2018, quando la cosiddetta “tempesta Vaia” ha colpito con violenza inusitata: un vortice di venti che ha superato i 200 chilometri orari, travolgendo tutto quello che incontrava, soprattutto in Veneto, ma anche in Trentino, in Alto Adige, nella parte occidentale del Friuli e in quella nord-orientale della Lombardia. Ha sradicato i fusti dalle radici, facendoli letteralmente volare via e ripiegare su se stessi. Il bilancio finale somiglia a un bollettino di guerra: 41 mila ettari di boschi cancellati, 16 milioni di alberi, 8,6 milioni di metri cubi di legname abbattuti in pochi minuti.

Rocca Pietore è l’epicentro della tempesta, il comune che ha contato il maggior numero di danni. I monti che circondano questo borgo del bellunese, adagiato su una strada che si inerpica verso il massiccio della Marmolada, sono un’ininterrotta spianata di alberi caduti. Qui il vento e l’acqua hanno colpito con insolita furia, sconvolgendo il paesaggio e compromettendo i luoghi più iconici della zona: il livello del Lago di Alleghe, rinomato per le sue acque luccicanti, si è alzato di 2 metri a causa dei detriti e degli alberi finiti nel bacino. Poco più sopra i serrai di Sottoguda, il celebre canyon patrimonio dell’Unesco, sono spariti sotto un fiume di fango.

«Qui in quei giorni sono scesi 700 millimetri d’acqua. Sono esondati ventiquattro torrenti su trenta che abbiamo nel nostro territorio. E sono caduti 600 mila alberi. Se tieni conto che qui abbiamo 1.200 abitanti, fanno 500 alberi a testa, compresi i bambini.» Questi numeri da capogiro me li dà il sindaco Andrea De Bernardin, un uomo sportivo sulla cinquantina, fisico atletico da montanaro, il capello arruffato e lo sguardo cupo che porta ancora stampati i segni del trauma subito. «È stato come un mini Vajont», dice azzardando un paragone che da queste parti non si fa a cuor leggero: siamo a poco più di 50 chilometri dal luogo dove nel 1963 è crollata la famosa diga, trascinando con sé interi villaggi e la vita di quasi duemila persone. Come sottolinea il sindaco, fortunatamente la tempesta Vaia qui non ha provocato morti: le tre vittime sono state in Trentino e nel Feltrino. Ma ha comunque segnato un territorio intero, che ancora fatica a riprendersi.

La tempesta Vaia è stata la manifestazione più eclatante di una mega-perturbazione che in quei giorni ha colpito tutto il Nord Italia. Si è trattato di un vero e proprio tifone, generato da una vasta area di bassa pressione, che ha prodotto mareggiate sulle coste della Liguria, distruggendo il porto di Rapallo e isolando a lungo la località di Portofino.

Queste tempeste e questi venti eccezionali sono il risultato diretto dei cambiamenti climatici? «È difficile affermarlo con certezza», risponde Antonello Pasini usando la necessaria cautela dello studioso. «Ma è sicuro che il riscaldamento del mar Mediterraneo libera una maggiore quantità di energia nell’atmosfera e aumenta la possibilità che si verifichino eventi di questo tipo».

Questo fisico del clima del Cnr mi tiene un’accurata lezione su dinamiche dell’atmosfera, andamento di cicloni e anticicloni, tornadi e super-celle. Il Mediterraneo si sta scaldando più velocemente degli oceani. Sta aumentando di volume e al contempo liberando calore che rende più probabili i fenomeni estremi. Questo spiega la maggiore incidenza di eventi prima rari sui nostri territori: grandinate di dimensioni inusuali, piogge tropicali, venti devastanti, come quello che ha spazzato via i boschi del Nord-Est.
Acqua alta a Venezia lo scorso novembre

La tempesta Vaia dell’ottobre 2018 ha avuto un’eco enorme, così come l’acqua alta a Venezia del novembre 2019. Per il loro impatto, l’entità dei danni, l’alto valore simbolico, questi due episodi hanno attirato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Ma sono solo la punta di un iceberg ben più imponente. Il nostro Paese è sempre più soggetto a questo tipo di accadimenti. «Il surplus di energia presente nell’atmosfera non può che scaricarsi con violenza sul territorio: fenomeni che un tempo erano gestibili diventano così più devastanti» mi dice Pasini. «L’Italia e il Mediterraneo sono un “hotspot climatico”, un luogo dove gli effetti del riscaldamento globale si misurano in modo maggiore che altrove».

Per verificare quanto siamo effettivamente al centro di un hotspot, mi affido a un database europeo che registra i cosiddetti «eventi estremi»: tornado, piogge torrenziali, grandinate eccezionali, tempeste di neve, valanghe. Si chiama European Severe Weather Database (Eswd), è accessibile a tutti su Internet e consente di fare ricerche avanzate per singole nazioni e per specifici intervalli temporali. Focalizzo la mia attenzione sull’Italia e sull’anno appena trascorso: nel 2019 ci sono stati 1.665 eventi classificati come «estremi», quasi cinque al giorno. Si tratta perlopiù di fenomeni circoscritti ad aree geografiche limitate e che quindi raramente hanno guadagnato rilevanza sulla stampa nazionale.
Il nubifragio su Verona del 23 agosto

Mi sembra comunque un numero enorme. Confronto allora il dato italiano con quello di Paesi simili a noi per estensione, la Spagna e il Regno Unito. Vedo che in tutto il 2019 nella prima si sono verificati 282 eventi estremi, nel secondo 240, l’85 per cento in meno rispetto all’Italia. Provo allora ad allargare la ricerca su una serie temporale più lunga, spalmata su vent’anni. Registrando il numero di fenomeni estremi nei tre Paesi dal 1999 a oggi, noto in tutti i casi una curva ascendente. Con una non trascurabile differenza: rispetto agli altri, da noi questa linea ha una crescita molto più marcata negli ultimi anni. Senza entrare nei dettagli tecnici, citerò qui i risultati di due anni di riferimento, presi come benchmark decennali: il 2009 e il 1999. Il risultato è il seguente: in Italia nel 2009 si sono verificati 328 eventi estremi, in Spagna 310, nel Regno Unito 79. Nel 1999, in Italia se ne sono registrati 21, in Spagna 25, nel Regno Unito 33. Cosa ci raccontano questi numeri? La prima considerazione è che il fenomeno sta crescendo ovunque. La seconda considerazione - che è invece incontrovertibile e in un certo senso inquietante - è la seguente: il nostro Paese, che prima registrava numeri simili a quelli dei suoi omologhi europei, è oggi nettamente in pole position. È letteralmente nell’occhio del ciclone.

Quanta consapevolezza c’è nell’opinione pubblica di detenere questo poco invidiabile primato? Tutti questi eventi estremi, con la loro accresciuta incidenza, vengono di norma etichettati come effetto di un generico «maltempo». Il che di per sé non è errato, ma in un certo senso trascura le cause e ignora il contesto in cui tali fenomeni avvengono. Se il vento, la pioggia, il caldo si abbattono in modo sempre più devastante sui nostri territori è perché sono cambiati i modelli climatici. È sempre Pasini a spiegarmi da fisico dell’atmosfera quali sono le principali novità degli ultimi anni. Innanzitutto è praticamente scomparso l’anticiclone delle Azzorre, che portava stabilità sui nostri territori. Quello che una volta era l’eroe delle nostre estati, che garantiva bel tempo e temperature abbastanza fresche, si è spostato più a nord, seguendo l’andamento delle temperature in rialzo degli oceani. E ha lasciato spazio alla risalita di anticicloni africani provenienti dal Sahara, quindi più caldi. Sono loro i responsabili delle estati sempre più roventi, con prolungate ondate di calore a cui ci stiamo abituando negli ultimi anni, ma anche dell’estremizzazione di altri fenomeni, determinata proprio dal maggior differenziale di temperatura e dalla maggiore quantità di energia termica nell’atmosfera. Il tanto decantato «clima mediterraneo» sta insomma perdendo la sua mitezza e i caratteri che lo rendevano unico. E sta assumendo connotati più vicini a quelli di climi tropicali.

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A questo punto Pasini mi parla dei cosiddetti “Medicane”. Questo termine tecnico è una contrazione delle parole «“Mediterranean” e “Hurricane”, ed è usato per designare i cosiddetti “uragani mediterranei”, tifoni con venti molto sostenuti che si originano sul mare e possono colpire con violenza anche le coste. Quanto siamo attrezzati ad affrontare questa situazione di maggiore intensità dei fenomeni? Se poco si può fare quando arrivano venti distruttivi come quelli di Vaia, è indubbio che i nostri territori saranno chiamati sempre più a adattarsi a un clima che diventa estremo. Cosa che al momento è ancora lungi dall’avvenire, come dimostra la cronaca quasi quotidiana di smottamenti, valanghe, crolli di infrastrutture determinati anche da manifestazioni climatiche fuori dall’ordinario. La sommatoria di tre fattori - l’accresciuta virulenza degli eventi meteoclimatici, la fragilità del territorio italiano e l’esposizione delle nostre case e dei nostri beni - amplifica gli effetti del cambiamento climatico, rendendo il nostro Paese particolarmente vulnerabile, con un conseguente incremento dei costi umani ed economici.

Il fatto di trovarsi al centro di un hotspot climatico ci pone di fronte alla necessità di rivedere tutto il modello di gestione del territorio. Ripensare le nostre città e le nostre campagne, il rapporto con l’ambiente, la rete infrastrutturale, nonché gli assiomi del modello produttivo e agricolo è la sfida enorme a cui siamo chiamati. Una sfida difficile ma non impossibile, a cui dovremo concorrere tutti, come cittadini, rappresentanti dei comparti produttivi, forze sociali e soprattutto esponenti politici, con la sollecitudine che richiede l’urgenza della situazione.