La storia criminale di Matilde Ciarlante, 67 anni, romana, è una fra le più pesanti della Capitale. E anche la più intrecciata. Il suo nome era inserito nella lista dei cento più pericolosi latitanti del nostro Paese. Lo era fino a lunedì 25 gennaio quando è stata arrestata dalla Guardia di Finanza nel quartiere romano di Prati, nei pressi dello studio professionale di un suo parente. Una volta fermata Matilde Ciarlante per tentare di sottrarsi alla cattura, ha esibito un documento falso. E i documenti falsi e le storie criminali la collegano alla Banda della Magliana, alla camorra, a Cosa nostra e pure al clan di Massimo Carminati.
Si può partire dagli ultimi fatti in cui è stata protagonista lei e il fascistone cecato della Capitale. La scena si svolge a Roma a gennaio del 2000 quando i carabinieri del nucleo operativo, gli stessi che hanno condotto
indagini parallele alla polizia sul furto al caveau della banca della città giudiziaria, che ha visto protagonista una banda di criminali guidata proprio da Massimo Carminati tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999, si presentano nei mesi successivi al furto ai magistrati e comunicano che c’è una coppia che ha delle informazioni.
Chi vuole parlare sono Giuseppe Cillari (deceduto nel 2002) e la compagna Matilde Ciarlante, sono marito e moglie e nella Capitale si muovono con disinvoltura e spregiudicatezza in una variegata serie di ambienti malavitosi. Sono entrati e usciti dal carcere diverse volte e gestiscono un flusso di denaro costante. A inizio carriera, a Salerno, Cillari si lega alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo (che in questi giorni è stato ricoverato nel reparto ospedaliero per detenuti di Parma per le sue non buone condizioni di salute). Trasferitasi a Roma negli anni Ottanta, però, la coppia contribuisce probabilmente all’omicidio di Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo, ucciso per vendetta da Pasquale Galasso, esponente della Nuova famiglia di Carmine Alfieri.
Nove anni dopo, nel 1992, Galasso si pentirà, e definirà Cillari come persona astuta, ambigua, che segue solo i suoi interessi offrendo la sua amicizia ogniqualvolta pensa di trarne un profitto.
Nella Capitale, infatti, Cillari e Matilde Ciarlante intrecciano relazioni con personaggi legati alla malavita del calibro del costruttore Enrico Nicoletti. O ancora con Pippo Calò, il cassiere a Roma della mafia siciliana e con vari settori della criminalità organizzata, scegliendo sempre amici e nemici in funzione del proprio tornaconto. Sono abili doppiogiochisti con rapporti ad ampio spettro, e non disdegnano di tanto in tanto di collaborare con le forze dell’ordine, attirandosi in questo modo le minacce di Nicoletti che li considera spioni. Il loro fiuto per gli affari, leciti e illeciti, e il loro collaudato mimetismo li portano con il tempo ad accumulare tanti miliardi, senza rimetterci il collo. Cillari soffre da anni di diabete mellito, ha gravi problemi renali e tre volte la settimana deve sottoporsi alla dialisi. Nel 1996 ha avuto un ictus, che lo ha molto provato ma senza togliergli la lucidità. Si muove soltanto con la sedia a rotelle, e per questo i carabinieri chiedono ai pm di interrogarlo a Roma, a casa sua, perché per lui è impossibile spostarsi.
La mattina del 19 febbraio 2000, quindi, i magistrati si presentano nella sontuosa abitazione della coppia, e vengono accolti all’ingresso da un fidato amico dei padroni di casa. I pm sono sorpresi, a fare gli onori di casa è un sacerdote, don Patrizio, amico e ospite della famiglia Cillari, che si presenta come segretario del vescovo di Salerno e afferma di essere stato trasferito in Vaticano perché chiamato a far parte del Comitato centrale del grande Giubileo dell’anno 2000 come collaboratore di monsignor Crescenzio Sepe. Il prelato fa accomodare i magistrati e i carabinieri e offre loro da bere mentre attendono l’arrivo di Cillari. Il salernitano compare davanti agli ospiti sulla sedia a rotelle. Parla in dialetto. Se non fosse una faccenda serissima sembrerebbe di assistere a una scena da commedia all’italiana.
Gli inquirenti raccolgono le dichiarazioni di Cillari e poi ascoltano quanto ha da dire anche la signora Ciarlante. Hanno parlato per ore e, verso le tre del pomeriggio, i verbali sono stampati e pronti per essere firmati, ma Cillari non si trova. Un paio di ore prima, infatti, è uscito di casa con la sedia a rotelle, è salito su un’auto ed è andato via insieme all’amico sacerdote. I magistrati sono allibiti, ma anche adirati per questo comportamento, e mandano immediatamente un carabiniere a cercarlo.
Cillari viene trovato in un ristorante vicino alla Fontana di Trevi, seduto a mangiare. Solo nel tardo pomeriggio fa rientro a casa, e finalmente può firmare il verbale.
Che cosa raccontano Giuseppe Cillari e Matilde Ciarlante ai magistrati? La coppia racconta che verso la metà di dicembre del 1999, dopo l’arresto dell’appuntato Adriano Martiradonna e degli altri carabinieri per il furto al caveau, una sera si sono presentati a casa loro Piero Tomassi, che non vedevano da dieci anni, e Angelo Calabria, un loro socio in affari. I due sanno che la Ciarlante sta trattando un’importante compravendita immobiliare e le offrono di procurarle lauti finanziamenti provenienti dall’estero. Tempo dopo la coppia organizza una cena a cui oltre a Calabria e Tomassi prendono parte Virgili e un conoscente comune. Cillari conosce Virgili da tempo. Sette anni prima, dopo un colpo simile a quello all’agenzia 91 della Banca di Roma, gli ha dato una mano a piazzare la refurtiva, 4 miliardi d’oro, da un gioielliere romano di sua fiducia.
Conosce anche Tomassi, detto Sbirulino: «Tomassi è quello della roba elettrica» spiega Cillari ai pm, «mentre Virgili è l’ingegnere» cioè la mente organizzativa. Durante la cena, Virgili dice alla coppia che ha bisogno di piazzare dell’oro, un’enorme quantità. «Volevano squagliare dell’oro, li volevano fare in lingotti e poi li volevano vendere» racconta il salernitano ai pm. È stata la sua banda a realizzare il colpo alla Banca di Roma, che ha fruttato secondo il Mago delle vedove un bottino di 50 miliardi di lire, fra gioielli e certificati, questi ultimi appartenenti in gran parte a un magistrato. Si sono recati da Cillari per proporgli di acquistare i lingotti: «Mi hanno parlato… a me mi dicevano quanto lo pagavo al grammo… io gli dissi al prezzo di mercato meno il 10 per cento. […] Erano cinque quintali. Poi brillanti, monili, pietre preziose… tengono 50 miliardi sottoterra».
Quella sera, ricorda Matilde Ciarlante, Stefano Virgili è molto inquieto. Sta sempre in piedi, continua a camminare avanti e indietro, nervoso, fumando il sigaro. Si sente braccato. Ha saputo che i carabinieri suoi complici sono stati arrestati ed è convinto che a incastrarli siano state le continue telefonate che gli hanno fatto per chiedergli i soldi. Quelle telefonate sono state di certo intercettate e inoltre gli è stato detto che uno di loro ha parlato, e non ci vorrà molto prima che arrivino a lui. Gli serve un alibi, a tutti i costi, e chiede a Cillari se conosce qualcuno della polizia o dei carabinieri disposto a produrgli un falso verbale di fermo che attesti, per la notte del furto, la sua presenza in una località lontana da Roma.
Cillari e Ciarlante raccontano ai pm di aver appreso da lui e dai suoi tre amici che la refurtiva è stata prima nascosta sottoterra, «a do’ tengono i garage… sottoterra… loro hanno i parcheggi, eh», poi è stata spostata altrove ed è da poco stata portata a Montalto di Castro, un paese a cento chilometri da Roma, con un furgone. Qui Tomassi ha un amico che potrebbe occuparsi di trasformare l’oro in lingotti.
«Tomassi lo fondeva, lo portava a una fonditura vicino a Montalto di Castro e lo fondeva, e poi a me mi portava i lingotti, facevano i pani e prendevano i soldi» ricorda Cillari ai magistrati.
I carabinieri, con cui la Ciarlante ha un rapporto piuttosto assiduo dato il curriculum criminale di cui si fregia, le chiedono di fare da tramite: vorrebbero avere un confronto con uno della banda del colo al caveau. La donna lo chiama, gli assicura che non sarà arrestato e lui accetta di farsi sentire. Il 22 febbraio l’uomo è a Roma. L’amico di famiglia, don Patrizio, lo va a prendere alla stazione e lo porta al Gemelli, dove Cillari sta facendo la dialisi. E dove i carabinieri sono ben appostati e determinati ad arrestarlo. E così avviene.
Questa la ricostruzione dei fatti fornita ai magistrati da Matilde Ciarlante, in tutte le sue pieghe di ambiguità, che lasciano opaco il ruolo effettivo giocato dalla donna. Che ogni tanto la coppia salernitana faccia qualche soffiata agli investigatori è cosa nota, ma Stefano Virgili e compagni scelgono lo stesso di rivolgersi a loro. Forse perché l’arresto dei carabinieri «infedeli» coinvolti nel colpo al caveau li costringe prima del tempo ad affrontare il problema di come piazzare la refurtiva, forse perché non hanno a disposizione un’alternativa, o forse perché i due, per quanto un po’ inaffidabili, hanno comunque le credenziali migliori per occuparsi della faccenda.
Qualcuno dei criminali si premura di avvisare Matilde Ciarlante di fare attenzione, perché dietro quel furto ci sono personaggi pericolosi appartenenti alla malavita organizzata. È gente della Banda della Magliana di cui molti hanno paura. E qui nell’alludere al personaggio innominabile, Massimo Carminati, all’improvviso tutti i protagonisti di quella sorta di commedia all’italiana si fanno seri. Anche tra i malviventi esiste una gerarchia del terrore, un pesce più grande in grado di inghiottire in ogni momento i più piccoli. E i più piccoli lo sanno e ne hanno paura. E il marito di Ciarlante tenta di difendere davanti ai magistrati Carminati. Anche Matilde Ciarlante insiste sull’estraneità di Carminati al colpo alla Banca. Tanta determinazione nel tenere fuori dalla faccenda la Banda della Magliana e Massimo Carminati potrebbe essere dettata dalla paura di ritorsioni. La paura di Ciarlante per il cecato.