L’altra Capitale
Corviale, la periferia di Roma con l’astensionismo record. «Qui la politica viene solo a fare le sfilate»
Doveva essere una città nella città. Ma è diventato solo un luogo di solitudini. «Ci sono quaranta libri di architettura su questo posto e neanche uno di sociologia. Di cosa abbiamo bisogno? Di un progetto»
Miriam voleva diventare una parrucchiera. Di quel desiderio, oggi, resta il ciuffo viola dei capelli.
Ha tre figli, Mattia di otto anni, Michelle di sei e il più piccolo, Manuel, di tre. Sono due anni che prova a iscriverlo al nido ma non c’è posto, così le sue giornate trascorrono prendendosi cura di lui finché i grandi sono a scuola e poi prendendosi cura di tutti, in casa. Perché i soldi per gli sport e le attività pomeridiane a casa di Miriam non ci sono.
Suo marito fa il muratore, in nero, porta a casa più o meno ottocento euro al mese. Arrivano a 1.300 con gli assegni familiari. Tolto l’affitto, le bollette, la spesa, qualche soldo da mettere da parte per l’assicurazione della macchina e gli imprevisti, non resta niente.
Per questo Miriam oggi evita anche di andare al mercatino di quartiere, il sabato, coi bambini. È stanca di dire sempre «purtroppo questa cosa non si può fare».
Fino allo scorso anno, prima che suo marito perdesse metà dei lavori saltuari che faceva, il welfare di casa era sua nonna. Bussava la mattina, due volte a settimana dopo essere andata a fare la spesa e lasciava la frutta e un po’ di carne per i bambini. Di tanto in tanto anche un po’ della pensione. Il Covid-19 l’ha portata via la scorsa primavera, oggi al quattordici del mese Miriam fa i conti con trecento euro che le restano da spendere prima che il mese finisca: «Ho bisogno di lavorare, mi accontenterei di tutto, le pulizie, lavare le scale. Sono stanca di dire ai bambini che non possiamo dargli quello che desiderano». L’ultima volta che ha fatto un viaggio è stato dieci anni fa, tre giorni in viaggio di nozze a Venezia. Poi niente più vacanze, qualche giorno d’estate al mare a Ostia, partendo la mattina e tornando la sera. Il futuro per lei è il sogno di portare i bambini al mare in vacanza d’estate «come tutti gli altri» e magari, un giorno, avere un pezzo di terra da coltivare invece di avere intorno il cemento.
Miriam vive a Corviale. Qui è nata, cresciuta, qui è rimasta a vivere dopo il matrimonio.
Alla parola «politica» le si irrigidisce il viso. «La politica dovrebbe dare modo a una donna come me di portare i bambini a fare una passeggiata e comprare loro un gelato. La politica invece oggi mi obbliga a dire ai miei figli, sempre, mamma e papà non se lo possono permettere. La politica, a Corviale, viene solo a fare le sfilate».
Due settimane fa, al primo turno, l’affluenza a Roma rispetto al 2016 è crollata. Ed è crollata soprattutto in periferia. Nel decimo municipio (Ostia e Acilia) e nell’undicesimo (Magliana e Corviale), l’affluenza è stata del 46 per cento, cinque punti meno di cinque anni fa. Allora la sindaca uscente Virginia Raggi aveva raccolto rispettivamente il 76 per cento e il 68 per cento delle preferenze nei due municipi.
Di quel voto che univa speranze e proteste, oggi, a Corviale resta la disillusione.
Nato quarant’anni fa per garantire un alloggio a chi a Roma ancora viveva nelle baracche, Corviale è oggi un luogo di solitudini. Un edificio imponente, lungo un chilometro e alto nove piani, che è valso alla struttura il nome di Serpentone. L’architetto Mario Fiorentino l’aveva progettato dicendo di essersi ispirato agli acquedotti romani che si stagliavano nella campagna romana. Voleva creare una città nella città, avrebbe dovuto, nell’idea iniziale di urbanistica a scopo sociale, dare alloggio a quattromila famiglie e offrire loro luoghi di aggregazione a cui sarebbero seguiti i servizi, mezzi pubblici, scuole, teatri, biblioteche. Un nuovo modo di pensare l’alloggio, un nuovo modo di pensare la periferia. Qualcosa, però, nell’urbanesimo collettivo di Corviale è andato storto e, già nella metà degli anni Ottanta, la gran parte dei luoghi pensati come luoghi aggregativi, il quarto piano destinato idealmente a negozi e spazi comuni, erano stati occupati abusivamente, perché a Roma la politica ha smesso di pensare all’edilizia popolare.
Anche Adriano Sias è nato e cresciuto qui. Quando era ragazzino doveva fare chilometri a piedi per arrivare a scuola. Poi le lotte degli abitanti hanno fatti sì che a Corviale arrivassero i mezzi pubblici, le fermate dell’autobus, la biblioteca. Oggi è presidente dell’associazione Inquilini Corviale e osserva la regressione del quartiere: «Tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila avevamo un centro permanente di incontro, una biblioteca, la Banca del Tempo, un centro di formazione professionale che ora è in disuso, ci piove dentro. C’era il mercato, ma l’hanno chiuso. La scuola dovrebbe essere ristrutturata, è chiusa pure quella».
Cammina lungo la via che costeggia il Serpentone: «Guarda là, se vuole costruire il privato trovi un palazzo di sei piani pronto in sei mesi, lo Stato, il padrone di casa della gente che vive nelle case popolari, invece, è assente».
Oggi Corviale non è più densamente popolato come prima, chi ha potuto farlo è andato via. Anche Adriano è andato via, qualche centinaio di metri più in là: gli spettava una casa popolare grande, «ma non c’è cura qui e non volevo far crescere i ragazzini con la sensazione che hai una casa di cento metri quadrati ma sei solo, perché il cemento ti mangia l’anima».
Restano molti anziani, qui, spesso murati in casa per giorni interi, perché gli ascensori sono vandalizzati dalle gang del quartiere, «gli anziani chiamano l’Ater e si sentono rispondere che le segnalazioni sono aperte e si vedrà, così un pensionato che vive al nono piano può aspettare anche quattro mesi per un tecnico che ripari gli ascensori. Forse non trovano Corviale sulla mappa, forse, come i politici, per arrivare qui hanno bisogno del Gps», dice senza celare un’amara ironia.
Adriano dice che tutti quelli che arrivano a Corviale parlano del palazzo, e non parlano mai delle persone: «Ci sono quaranta libri di architettura su questo posto, e non c’è un libro di sociologia. Ma qui ci vivono le persone. Il cemento si è mangiato la vita, le storie delle persone». Cammina lungo i corridoi al piano terra che uniscono le torri e ripete molte volte: «Lo senti quanto pesa il cemento? E sai che succede sotto questo peso? Che si ammutoliscono le voci e la voce di chi vive qui, se non la vieni a cercare, non esce. Questo è, o almeno dovrebbe essere, il dovere della politica, venire qui a cercare le voci che non escono, che, se non vengono ascoltate, restano voci di solitudini».
Nel 2016, a cavallo della precedente campagna elettorale, Salvatore Monni, professore associato presso il dipartimento di Economia a Roma 3, Keti Lelo, ricercatrice di storia economica a Roma 3 e Federico Tommasi, dirigente all’Agenzia delle entrate ed esperto del Comitato economico e sociale europeo a Bruxelles, hanno fondato il sito Mapparoma. La narrazione di Roma che li circondava non corrispondeva alle loro ricerche di studiosi, così hanno unito il rigore scientifico alla passione civile e oggi, dopo cinque anni, le loro ricerche sono diventate un libro, “Le mappe della disuguaglianza, Una geografia sociale metropolitana”, uscito per Donzelli Editore. I numeri non ingannano e i numeri sanno anche essere descrittivi, il risultato è il resoconto di una città diseguale non solo in termini di reddito ma soprattutto in termini di opportunità.
Scrivono gli autori: «A Roma convivono due città: una capace di cogliere le opportunità della crescita. E una esclusa da tale sviluppo. Una città dove i tassi di scolarizzazione somigliano più a quelli del nostro Mezzogiorno più profondo che a quelli che ci aspetteremmo nella capitale d’Italia». La Roma disegnata dalle mappe dei tre analisti è una città in cui le opportunità dipendono dall’ambiente in cui vivi, e in cui la distanza dal centro era, resta e diventa sempre più una distanza sociale. In cui allontanarsi dal centro della città significa non avere accesso ai mezzi pubblici su ferro, ai cinema, alle attività culturali e agli spazi di aggregazione.
Una città in cui lo scarto della scolarizzazione può raggiungere differenze enormi: il 42 per cento dei residenti laureati ai Parioli, a fronte del 5 per cento di Tor Cervara. Uno scarto di otto volte.
Vivere nella Roma delle disegualianze significa vivere in una città in cui l’urbanizzazione esponenziale non corrisponde a una reale crescita demografica e in cui, sempre più spesso, famiglie giovani, economicamente fragili, tendono ad allontanarsi da zone sempre meno abbordabili. Il risultato di questa urbanizzazione sono quartieri isolati, cittadelle di cemento circondate da campi agricoli in cui gli unici luoghi di incontro sono i centri commerciali. Quartieri di solitudini in cui la carenza di opportunità porta isolamento, che a sua volta porta alla radicalizzazione del conflitto sociale, che a sua volta porta alla discriminazione.
Di fronte al lotto uno del Serpentone c’è un grande cancello. Sopra c’è scritto: «Vince solo chi custodisce». È la sede del Calciosociale di Corviale, l’ha pensato Massimo Vallati, un passato in curva, poi in polizia, fino al 2005, quando realizza che quello che ha visto fino a quel momento non corrisponde all’idea di sport che ha in testa e che segue parole chiave diverse: accoglienza, rispetto delle diversità, della corretta crescita della persona e del rapporto sano con la società. Oggi il Campo dei Miracoli non è solo una scuola di calcio per i ragazzi di Corviale, è la porta a cui bussa chi ha bisogno di un supporto legale, di un aiuto per una doccia, un pacco di pasta, il luogo di aggregazione di vulnerabilità tenute insieme da una visione pedagogica dello sport.
Qui ragazze e ragazzi tirano calci al pallone seguendo regole rivisitate: non esiste l’arbitro, ogni giocatore deve imparare a essere responsabile, il calcio di rigore viene battuto dal giocatore meno forte, non ci sono squadre più forti, tutti hanno la stessa possibilità di vincere.
È da questo spazio aperto a tutti i bambini e le bambine del Serpentone, che Massimo Vallati osserva la città: «Roma oggi è una città in cui nascere in un quartiere o in un altro significa avere meno istruzione, contrarre meno malattie, avere un’alta o bassa aspettativa di vita. Questa è la Roma che va a votare, una città il cui il tuo destino è legato alla fortuna di nascere in un quartiere centrale o in periferia». Ha accanto Romina, è sola con tre figli, sua madre malata e alcolizzata li ha sbattuti fuori di casa. Una delle case popolari di Corviale. Da cinque giorni dorme sulle sedie del pronto soccorso all’ospedale Umberto I e i suoi figli ospiti da parenti. Fa la cassiera, guadagna 800 euro e ne spende 250 di benzina per arrivare al supermercato dall’altra parte di Roma. Nessuno le affitta una casa, d’altronde non avrebbe un soldo per la caparra. Ha bussato alla porta del Calcio Sociale per un aiuto, una doccia. Di lui si fida, perché i suoi figli da anni giocano gratis a pallone al Campo dei Miracoli.
In più di dieci anni Massimo ha ascoltato i proclami della politica, un apparente, rinnovato interesse per le periferie, eppure, dice, «a questo interesse spesso corrispondevano finanziamenti sbagliati, soldi usati male dai professionisti della rendicontazione. Per ripensare la città serve una visione, un’idea che superi la campagna elettorale, qui la gente non sta aspettando qualcuno che vinca le elezioni, nemmeno Churchill rimetterebbe in sesto Roma in cinque anni, questi pezzi di Roma hanno bisogno di qualcuno che abbia un progetto per la città per i prossimi venti o trent’anni. Non solo per la campagna elettorale che finisce».