Il massacro fu uno spartiacque: lo stupro come reato contro la persona. Eppure, a distanza di 46 anni i femminicidi non smuovono né intellettuali né politici. E ancora si fatica ad accettare che ogni violenza privata abbia una dimensione pubblica

La prima volta che ho sentito parlare del massacro del Circeo avevo 10 anni. Angelo Izzo era stato messo in semilibertà e non appena uscito di prigione aveva ucciso a Ferrazzano Maria Carmela e Valentina Maiorano, madre e figlia. Non so cosa mi rimase impresso all’epoca: se la vicenda in sé, lo sguardo luciferino di Izzo o la fotografia di Donatella Colasanti che usciva insanguinata dal bagagliaio della Fiat 127, rimandata in onda da qualche telegiornale o talk show pomeridiano. Sta di fatto che quel nome, quel fatto, rimasero latenti da qualche parte nella mia testa di bambina, per poi ritornare nell’adolescenza, quando lessi il famoso articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera dell’8 ottobre 1975. Allora lessi di quel massacro con il distacco dell’aneddoto storico, come se fosse possibile trattarlo allo stesso modo dei fatti di Valle Giulia o dell’uccisione di Aldo Moro, ma nemmeno quella interpretazione bastava a rendere il Circeo qualcosa che potessi riuscire a comprendere.


In anni più recenti, anche grazie al mio percorso femminista, lo spettro del Circeo è tornato più volte a trovarmi. Nei libri che raccontano il femminismo storico degli anni Sessanta e Settanta, le sevizie inflitte a Donatella e Rosaria e la morte di quest’ultima sono sempre citate insieme ai fatti più importanti di quei decenni, quasi uno spartiacque tra una stagione radicale e l’inizio del suo declino. Nella sua efferatezza e spettacolarizzazione, per più di una generazione di donne di questo Paese è stato un trauma collettivo, qualcosa che sconvolgeva nel privato e andava discusso nelle assemblee e nei luoghi della cultura.

D’altronde, era avvenuto in un anno particolarmente significativo per le lotte femminili: nel 1975 esplodeva il caso dell’aborto con l’arresto dei radicali del Cisa (Cenro Italiano Sterilizzazione e Aborto) di Firenze, veniva fondata la Libreria delle donne di Milano, si teneva il secondo grande convegno femminista a Pinarella di Cervia. Tra le tante questioni al centro del dibattito c’era anche quella dello stupro, all’epoca reato contro la morale pubblica e non contro la persona e, soprattutto, confinato nel rapporto uomo-donna: «Una violenza, quella dello stupro, che nessuno considera politica: politica è la violenza davanti alle scuole, sono gli attentati fascisti, gli agguati, i corpo a corpo, ma lo stupro no», si scriveva a giugno di quell’anno sulla rivista femminista Effe.


Pochi mesi dopo sarebbero cambiati per sempre i codici per decifrare la realtà: al Circeo la violenza era anche e innegabilmente politica e di classe, come sottolineò quasi ogni commentatore dell’epoca. Il massacro che si era consumato era anche nato dallo scontrarsi di due mondi all’apparenza non comunicanti tra loro. Ma soprattutto, sebbene non fosse di certo il primo caso di cronaca a coinvolgere una violenza carnale, l’eufemismo lirico con cui si chiamava un tempo la violenza sessuale, fu il primo a mostrare che a violentare e uccidere non erano soltanto squilibrati o maniaci, ma anche ragazzi per bene e dalla faccia d’angelo, che non avrebbero fatto alcuna fatica a trovare una compagna. Per la prima volta, con l’evidenza testimoniale e scioccante delle immagini e delle parole di una sopravvissuta, per un breve momento apparve con chiarezza che il movente che si celava dietro la violenza non era il desiderio sessuale, ma il potere. Era il potere che aveva spinto Ghira, Guido e Izzo ad arrogarsi il diritto di disporre come volevano del corpo delle due ragazze; era il potere che li aveva convinti di poter restare impuniti; era il potere che aveva concesso loro di ridere e scherzare per le due morte nel bagagliaio.


Ma questo fu, appunto, un breve momento. Le femministe che si erano formate nella mutualità del supporto alle vittime di violenza lo ripetevano da anni: lo stupro non era sesso, non era un’indecenza contro la morale pubblica, ma un crimine contro la persona che si radicava nel rapporto, prima di tutto politico, di sopraffazione dell’uomo sulla donna. Il delitto del Circeo sembrava la prova più incontrovertibile di questa ipotesi, che tuttavia a 46 anni di distanza dai fatti sembra ancora non essere stata accettata. Se così fosse, oggi nessuno parlerebbe di «raptus» o di «troppo amore» quando una donna viene uccisa dall’ex o dal partner attuale o cercherebbe segni di colpevolezza in una ragazza che «non si è difesa» o «è stata ingenua» e si è fatta stuprare. Lo stupro nel 1996 è diventato reato contro la persona e non più contro la morale, ma questo non è bastato a convincere l’opinione pubblica che ogni violenza sessuale, da quelle quotidiane che nessuno racconta alle più eclatanti, si consuma nell’abuso di potere.


Oggi il tema della violenza non è più motivo di scandalo, ma è diventato una specie di rumore di fondo. Ho provato a pensare se la mia generazione abbia avuto un caso analogo al delitto del Circeo, ma non mi è venuto in mente nulla di simile. I casi di cronaca che hanno popolato la mia infanzia e che hanno per vittime giovani donne, dal delitto di Avetrana a quello di Garlasco, li ricordo solo come sequenze di immagini e video martellanti o ricostruzioni dettagliate e morbose in programmi televisivi spazzatura. I femminicidi che nel nostro Paese continuano ad avvenire uno ogni tre giorni e le violenze sessuali di cui è stata vittima almeno una donna su tre sono ormai qualcosa a cui ci siamo tristemente abituati: non ci scioccano né ci fanno discutere, non ci chiamano direttamente in causa e non smuovono gli intellettuali del Paese. L’unica analisi politica che viene fatta è quando a commettere la violenza è una persona non italiana o di origine straniera. Solo quando la notizia è strumentale alla propaganda di qualche partito si chiama in causa la dimensione pubblica che irrompe su quella privata.


Ma come ha dimostrato il delitto del Circeo, ogni violenza di genere ha una valenza politica, perché politico è il rapporto tra i generi e politico è il modo in cui esso è stato plasmato. Per pochi mesi dopo il 30 settembre 1975 sembrava una verità incontrovertibile, mentre oggi passa inosservata tra i mille massacri di cui non c’è una fotografia iconica che ne dimostri l’efferatezza.